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Filosofia

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N° Post: 604
Sipolino Fabio
Thursday 18th of November 2021 07:54:05 AM


Tonal e Nagual





Comprendere bene questi due concetti fondamentali della tradizione sciamanica tolteca non e' cosa facile. Il Tonal e il Nagual sono l'essenza della comprensione del funzionamento del mondo e della percezione; iniziare ad inquadrarli prima a livello intellettuale e poi a livello energetico e' un compito monumentale per uno sciamano, ma necessario al processo che egli stesso deve compiere sulla strada preposta all'evoluzione la quale, naturalmente, non e' affare semplice ne' tantomeno possibile a tutti. Don Juan passa molto tempo ed usa svariati esempi per far comprendere a Castaneda cosa siano queste due entita' che appartengono all'essere umano e quale siano le differenze tra le due; benche' comprendere a fondo la loro natura necessita di anni di addestramento e di espansione del livello di coscienza e della percezione, altrimenti restano parole e concetti vuoti e soprattutto difficili da incastrare nell'intricato puzzle del mistero della vita.

"Questo e' il mio Tonal, disse don Juan fregandosi le mani sul petto. La mia persona. Si batte' sul petto, sulle gambe e sulle costole. Il mio Tonal e' tutto questo. -- Spiego' che ogni essere umano aveva due lati, due entita' separate, due controparti, che divenivano operanti al momento della nascita; una era chiamata il Tonal e l'altra il Nagual. (..) Questa volta mi occorre la vostra totale attenzione, perche' sto per informarvi del Tonal e del Nagual. Per gli stregoni questo sapere presenta un interesse eccezionale, unico. Potrei dirvi che il Tonal ed il Nagual sono esclusivamente di pertinenza degli uomini di sapere. (..) Il Tonal e' la persona sociale. Il Tonal e' dunque propriamente, un protettore, un protettore che per lo piu' diviene una guardia. Il Tonal e' l'organizzazione del mondo. Forse il modo migliore per descrivere la sua enorme opera e' dire che sulle sue spalle poggia il compito di mettere in ordine il caos del mondo. Non e' esagerato affermare, con gli stregoni, che tutto quello che sappiamo e facciamo come uomini e' opera del Tonal. In questo momento per esempio, cio' che e' impegnato nel tentativo di ricavare un senso dalla nostra conversazione e' il vostro Tonal; senza di esso ci sarebbero soltanto suoni misteriosi e smorfie, e non capireste nulla di quanto dico. Inoltre il Tonal e' il protettore che protegge una cosa che non ha prezzo: il nostro vero essere. Quindi una qualita' specifica del Tonal consiste nell'essere geloso delle sue azioni. E poiche' le sue azioni sono la parte di gran lunga piu' importante delle nostre vite, non c'e' da meravigliarsi se alla fine il Tonal si trasforma, in ciascuno di noi, da protettore in guardia! Un protettore e' di larghe vedute e comprensivo -- spiego'. Una guardia, invece, e' di mente ristretta e per lo piu' dispotica. Vi diro' che in tutti noi il Tonal e' stato trasformato in una guardia gretta e dispotica, mentre potrebbe essere un protettore di larghe vedute." (L'Isola del Tonal -- Carlos Castaneda).

Nel tentativo di comprendere le parole di Don Juan possiamo dire che una parte del Tonal e' effettivamente l'ego e con esso l'intera pressione della socializzazione; che ci costringe tutti, da quando nasciamo, ad uniformare il concetto di percezione e quindi di realta'. Con questo intendo dire che e' il Tonal ad essere responsabile dell'univoca, completa e soverchiante capacita' che tutta l'umanita' ha sviluppato, di percepire ogni cosa esattamente come la percepisce; cioe' nella stessa maniera e quindi, quando diciamo che di fronte a noi c'e' un tavolo, tutti siamo d'accordo nel vedere un tavolo! Don Juan spiego' a Castaneda che la conquista piu' grande da parte dell'intera specie umana e' stata quella di fissare il punto di unione esattamente dove si trova, sul bozzolo della consapevolezza, cioe' sul bozzolo energetico che ingloba il corpo fisico. Questa fissita' e' opera del Tonal, del guardiano della percezione, il quale inizialmente ci e' stato di grande aiuto per vivere e per accordarci sul da farsi e sulla mera gestione del mondo, perche' senza di esso saremo vissuti nel caos. Il problema e' che una volta che si e' sedimentato ha perso le sue caratteristiche di guardiano protettore ed e' diventato un vero e proprio carceriere, dispotico e inesorabilmente proteso a farci credere che l'unica cosa che esiste in questo mondo e' lui: cioe' il Tonal! La verita' invece e' un'altra: e cioe' che il mondo la' fuori non esiste come una serie di oggetti separati, esso e' invece il risultato di una descrizione del mondo che abbiamo imparato a vedere in maniera chiara e totale e ad assimilare come certa. Ecco quello che il Tonal ha fatto con ognuno di noi.

"Il Tonal e' tutto cio' che noi siamo. Tutto cio' per cui possedete un nome e' il Tonal. E siccome il Tonal e' le sue stesse azioni, ogni cosa, ovviamente, deve ricadere nel suo ambito! Il Tonal e' tutto cio' che sappiamo. Penso che questa sia gia' di per se' una ragione sufficiente per considerare il Tonal una faccenda schiacciante. E questo include non solo noi come persone, ma tutto nel nostro mondo. Si puo' dire che il Tonal e' tutto cio' che incontra l'occhio. Cominciamo a disporne al momento della nascita. Nell'istante in cui tiriamo il fiato per la prima volta, inspiriamo potere per il Tonal. E' quindi giusto dire che il Tonal di un essere umano e' intimamente legato alla sua nascita. Il Tonal ha inizio con la nascita e fine con la morte. -- Non riesco ancora a capire Don Juan cosa volete dire quando affermate che il Tonal e' in ogni cosa. Il Tonal e' quello che fa il mondo? Il Tonal e' il creatore del mondo? -- Il Tonal fa il mondo solo per modo di dire. Non puo' creare o cambiare nulla, e tuttavia fa il mondo perche' ha la funzione di giudicare, di valutare, di rendere testimonianza. Dico che il Tonal fa il mondo perche' ne rende testimonianza e lo valuta secondo le leggi del Tonal. In modo molto strano, il Tonal e' un creatore che non crea nulla. In altre parole, il Tonal compone le leggi con le quali percepisce il mondo. Quindi per modo di dire, crea il mondo!"

Prendendo in prestito l'esempio che Don Juan fa a Castaneda per continuare a spiegargli cosa sia il Tonal, egli lo paragona ad una isola, e al tavolo che avevano davanti al ristorante di Citta' del Messico dove per la prima volta gli e ne parla. Durante il pranzo Don Juan paragona tutto quello che si puo' trovare sul tavolo al Tonal; dai piatti e i bicchieri, comprese le posate fino alle salse chili, al sale, alle varie portate, ai tovaglioli e alla tovaglia stessa. Egli paragona il tavolo ad un'isola dove c'e' tutto, perche' quest'isola e' il mondo e tutti gli esseri che lo abitano. Continua spiegando a Castaneda che esiste un Tonal personale per ciascuno di noi, ed uno collettivo che chiama il Tonal del tempo. Per aiutarlo a comprendere quest ultimo Don Juan gli indica tutti gli altri tavoli presenti nel ristorante; facendogli notare che hanno tutti la stessa conformazione e che certi elementi si trovano su tutti i tavoli mentre in alcuni ci sono elementi diversi come possono esserlo le pietanze e le bevande o i condimenti o le stesse persone sedute attorno a quei tavoli. Ognuno di questi tavoli emana un'atmosfera diversa ma nell'insieme tutti hanno degli elementi ovviamente comuni! In questo senso il Tonal del tempo e' cio' che ci rende simili come specie; ma nello specifico ogni tavolo, preso singolarmente, e' un caso a se' stante, individuale ed unico esattamente come il Tonal personale. Quello che lui sottolinea, che e' importante da tenere bene a mente e' che tutto cio' che possiamo sapere di noi e del mondo e' ascrivibile all'isola del Tonal. Viene quindi immediata l'intuizione di poter paragonare il Tonal personale all'inconscio personale e alla coscienza individuale oltre che al nostro ego personale, al nostro sistema nervoso ed ai nostri sensi, cioe' al modo nel quale il S.N.C. elabora gli input di energia ed informazione per trasdurli poi in fenomeni visivi, uditivi, sensori, tattili ecc... producendo quella che noi definiamo realta' oggettiva; ed il Tonal del tempo all'inconscio collettivo, oltre che al momento storico che tutta l'umanita' vive. Per fare un esempio, nel Tonal del tempo che stiamo vivendo in epoca moderna, e' contemplata l'esistenza delle navicelle spaziali. Nel Tonal del tempo del 1500 subito dopo la scoperta delle Americhe, no. Quindi, tutto cio' che reputiamo possibile e' dato dall'insieme del Tonal personale e del Tonal del tempo. Solo gli stregoni che hanno liberato il loro veggente interiore ripulendo l'anello di collegamento col Nagual, hanno accesso ad altri mondi e attraverso questa corsia preferenziale, possono portare nel nostro, nuove scoperte o nuovi concetti creativi che altrimenti sarebbero rimasti celati al resto del genere umano.

"Se il Tonal e' tutto cio' che sappiamo di noi e del nostro mondo, che cos'e' allora il Nagual? -- Il Nagual e' la parte di noi con cui non abbiamo assolutamente a che fare. Il Nagual e' la parte di noi per la quale non c'e' descrizione, non parole, non nomi, non sensazioni, non sapere. -- E' una contraddizione Don Juan. A mio parere se non puo' essere ne' sentito, ne' descritto, ne' nominato, non puo' esistere. -- E' una contraddizione solo nel vostro parere. Vi avevo avvertito; non mettetevi fuori gioco da solo, cercando di capirlo. -- Potreste dire che il Nagual e' la mente? -- No. La mente e' un elemento della tavola. La mente e' parte del Tonal. -- Il Nagual e' l'anima? -- No. Anche l'anima sta sulla tavola. -- E i pensieri degli uomini? -- No. Anche i pensieri stanno sulla tavola. I pensieri sono come le posate. -- E' uno stato di grazia? Il paradiso? -- Ne' l'uno ne' l'altro. Qualunque cosa possano essere, sono anch'essi parte del Tonal. Diciamo che sono il tovagliolo".

Castaneda inizia a dare segni di agitazione, non riesce a comprendere, non capisce la finezza di questi concetti cosi' profondi e globali da stravolgere completamente il suo inventario! Cioe' il suo modo di vedere se stesso, la specie umana e il mondo; semplicemente perche' questa nuova conoscenza metteva in serio pericolo tutte le sue certezze, le sue conoscenze passate, sia dal punto di vista personale, sia dal punto di vista culturale ed accademico, nonche' religioso. Castaneda continua cosi' a sottoporgli delle domande con sempre nuovi elementi per vedere se aveva anche solo minimamente colto la vastita' del significato di Nagual; niente! Ogni tentativo fu vano. Intelletto puro, psiche, energia, forza vitale, immortalita', principio di vita. Fino a che tiro' in ballo persino Dio! E la risposta di Don Juan fu sempre la stessa; anche Dio e' un elemento del Tonal! Quest'ultima affermazione fu quella che piu' di tutti probabilmente sconvolse Castaneda, perche' la sua reazione fu immediata nel chiedere al maestro se stesse avallando l'ipotesi che Dio non esistesse! La risposta magistrale che Don Juan porge al suo discepolo con poche ma chiarissime frasi e' la seguente: "No. Non ho detto questo. Ho detto soltanto che il Nagual non e' Dio, perche' Dio e' un elemento del nostro Tonal personale e del Tonal del Tempo. Il Tonal vi ho gia' detto, e' tutto cio' di cui pensiamo sia costruito il mondo, compreso Dio naturalmente. Dio non ha importanza che nella misura in cui fa parte del Tonal del nostro tempo. -- Come io lo intendo , Don Juan, Dio e' ogni cosa. Non stiamo parlando della stessa cosa? -- No. Dio e' soltanto ogni cosa di cui potete pensare: dunque, propriamente, e' solo un altro elemento sull'isola. Non si puo' essere a piacimento testimoni di Dio; di lui si puo' solo parlare. Il Nagual invece e' al servizio del guerriero. Se ne puo' essere testimoni, ma non se ne puo' parlare."

La conversazione si fa sempre piu' saliente perche' e' ovvio che la mente di Castaneda arrivati a questo punto, inizi a vacillare sempre di piu'; ed e' per questo motivo che usando altri termini di riferimento concepibili all'interpretazione che solo la mente puo' fare, gli chiede di fornirgli degli indizi spaziali, delle coordinate, per capire o almeno tentare di farlo, dove potesse essere posizionato il Nagual. Con un ampio gesto delle braccia, Don Juan indico' tutto cio' che si trovava ai limiti della tavola. Il Nagual e' li', disse. Li' tutto intorno all'isola. Il Nagual e' li' dove si libra il potere. E adesso viene il bello:

"Dal momento in cui siamo nati intuiamo che per noi ci sono due parti. All'istante della nascita e ancora per un po' di tempo dopo, siamo soltanto Nagual. Poi intuiamo che, per funzionare, abbiamo bisogno di una controparte a cio' che abbiamo. Il Tonal ci manca, e questo ci imprime, fin dall'inizio della vita, un senso di incompletezza. Poi il Tonal comincia a svilupparsi e diviene enormemente importante per il nostro funzionamento, tanto importante che offusca la lucentezza del Nagual, la sopraffa'. Dal momento in cui diventiamo solamente Tonal, non facciamo altro che accrescere il nostro iniziale senso di incompletezza che ci accompagna dalla nascita e che continuamente ci dice: ci vuole un'altra parte per essere completi. Dal momento in cui diventiamo solamente Tonal iniziamo a formare delle coppie. Intuiamo i nostri due lati, ma li rappresentiamo sempre con gli elementi del Tonal. Diciamo che le nostre due parti sono l'anima e il corpo. O pensiero e materia. O bene e male. O Dio e Satana. E non ci rendiamo conto che continuiamo soltanto a comporre coppie con cio' che sta sull'isola, come se mettessimo di fianco caffe' e te', oppure pane e tortillas, chili e senape. (..) Ci lasciamo trasportare fuori strada, e nella nostra follia crediamo di aver trovato la soluzione giusta. L'uomo non si muove tra il bene e il male. (..) ... al di la' dell'isola si trova il Nagual. -- Ma se lo chiamate Nagual non finite per collocarlo sull'isola? -- No. Gli do un nome solo perche' voglio che ne siate consapevole. -- Benissimo! Ma divenirne consapevole e' il passo che ha trasformato il Nagual in un nuovo elemento del mio Tonal. -- Temo che non capiate. Ho menzionato il Tonal e il Nagual come una vera coppia. Ho fatto solo questo. (..) Certamente noi ci comportiamo nello stesso modo con le due parti di noi, egli disse. Noi intuiamo che c'e' un altro lato di noi. Ma quando cerchiamo di afferrare quell'altro lato, il Tonal prende il comando e diventa gretto e geloso. Ci abbaglia con le sue astuzie e ci costringe a cancellare il minimo indizio dell'altra componente della coppia, il Nagual".

Ecco spiegato il mistero che ci attanaglia da quando iniziamo ad usare la ragione, da quando iniziamo a porci delle domande diverse; ma anche da quando iniziamo l'erronea ricerca della famosa altra parte della mela! La ricerca di quel pezzo che ci manca, dell'altro. La interpretiamo erroneamente come la parte mancante della famosa coppia originaria, delle nozze fisiche e non di quelle alchemiche! Siamo spinti dal nostro Tonal a credere che esista un pezzo mancante che possiamo trovare da qualche parte, il quale sia in grado di colmare quel vuoto esistenziale che percepiamo; mentre invece, quella sensazione di pura assenza non potra' mai essere davvero riassorbita finche' non dirigeremo i nostri sforzi verso il Nagual. Verso l'altra parte della coppia che e' sempre presente al di la' dell'isola del Tonal. Del Nagual e' impossibile parlare come e' letteralmente impossibile farne una vera e propria descrizione; possiamo solo percepirne gli effetti! E' tutta una questione di percezione. Come ripeto sempre, maggiore e' l'energia che riusciamo a liberare dal nostro passato e quindi dal nostro inventario, dalle nostre esperienze, dai nostri schemi ricorrenti, per poi ridistribuirla e renderla biodisponibile e maggiore sara' la capacita' di ampliare tutto cio' che e' umanamente possibile percepire! La percezione al di la' del velo di quella che noi siamo spinti dalla pressione della socializzazione a chiamare realta' e quindi Tonal, e' possibile solo grazie all'esistenza del Nagual! Il Nagual e' coscienza pura ed ha quindi consapevolezza delle cose. Quando si hanno delle interruzioni del dialogo interno che percepiamo come vere e proprie sospensioni, momenti di oblio e di mente assente, sensazioni ed intuizioni in merito alle persone e/o alle cose; possiamo essere certi che quello sia il Nagual. In realta', benche' non ce ne rendiamo conto e' il Tonal stesso che ci costringe a compiere delle azioni e nel farlo, erge delle difese e delle barricate molto astute. Tutto quello che compie il Tonal e' diretto a far si' che il Nagual resti nell'oblio. Nonostante tutti gli sforzi e le astuzie che il Tonal mette in atto, il Nagual affiora sempre, benche' lo faccia in maniera inavvertibile ed e' proprio grazie a questo che il Tonal riesce a prendere il sopravvento ed a sopprimere ogni sua manifestazione, in modo tale che, anche quando la sua presenza sia la cosa piu' evidente del mondo, essa resti inavvertibile.

E' importante comprendere i concetti di Tonal e Nagual, non solo per capire come funzioniamo a livello di specie umana e di come funziona quella che tutti chiamiamo realta', ma e' necessario per divenire sempre piu' coscienti delle immense possibilita' che ci aspettano come esseri umani. Nel momento in cui ci rendiamo conto che prima di ogni cosa tangibile, noi siamo il frutto della percezione, si aprono di fronte a noi un ventaglio di nuove possibilita' che prima ci erano precluse.

"Il Nagual e il Tonal sono dentro di noi? -- Mi diede un'occhiata penetrante. -- Domanda molto difficile -- rispose. -- Voi potreste dire che sono dentro di noi. Io potrei dire che non lo sono, e ne' voi ne' io avremmo ragione. Il Tonal del vostro tempo vi induce a sostenere che tutto cio' che ha a che fare con le vostre sensazioni e i vostri pensieri abbia luogo dentro di voi. Il Tonal degli stregoni dice il contrario: che tutto e' fuori. Chi ha ragione? Nessuno. Dentro e fuori non e' veramente importante. (..) Procedo attraverso tutti questi giri e rigiri, perche' il mio tonal e' consapevole che si sta parlando di lui. In altre parole il mio Tonal usa se stesso per capire cio' che voglio sia chiaro, per il vostro Tonal. Si puo' dire che il Tonal, siccome e' perfettamente consapevole di quanto sia gravoso parlare di lui, ha creato le parole "io", "me", ecc.. ; per contrappeso, e grazie ad esse puo' parlare con altri Tonal, o con se stesso di se stesso. (...) Ovviamente esso costringe se stesso a seguire i suoi giudizi. In certe occasioni pero', in certe speciali circostanze, qualcosa nel Tonal stesso diviene consapevole che in noi c'e' anche dell'altro. E' quasi una voce che giunge dal profondo: la voce del Nagual. Vedete la totalita' nostra e' una condizione naturale, che il Tonal non puo' obliterare completamente, e ci sono momenti, specialmente nella vita di un guerriero, in cui la totalita' diviene visibile. In questi momenti si puo' sospettare e valutare cio' che veramente siamo. (..) Al momento della morte l'altro membro della coppia, il nagual, diviene pienamente operante e la consapevolezza, la memoria, le percezioni immagazzinate nei nostri polpacci, nelle cosce, nella schiena, nelle spalle, nel collo, cominciano ad espandersi e a disintegrarsi. Come i grani di una collana definitivamente spezzata, esse si disgiungono senza la forza della vita che le univa. (..) La totalita' di noi stessi e' gran pasticcio, ce ne basta pochissima per compiere le azioni piu' complesse della vita. Ma quando moriamo, moriamo con la totalita' di noi stessi. Uno stregone si pone la domanda. "Se moriremo con la totalita' di noi stessi, perche' non vivere, anche, con quella totalita'?". (L'isola del Tonal -- Carlos Castaneda)

Il Nagual e' colui il quale si fa sentire quando il Tonal tace. Per mettere a tacere il Tonal sono necessari anni di pratica di sospensione del dialogo interno perche' quello stesso dialogo e' il Tonal. Attraverso quel dialogo il Tonal tiene in piedi la nostra percezione univoca e soverchiante della realta' e mantiene se stesso in vita come unico detentore delle chiavi della percezione. Per questo, noi esseri umani, siamo tutti convinti che la realta' abbia una solidita' e una valenza cosi' onnicomprensiva da levarci ogni dubbio sul fatto che non possa esistere niente altro all'infuori di essa. Di conseguenza il Tonal e' pensiero, dialogo interno, ego, pressione della socializzazione, fissita' del punto di unione, rigidita' della percezione e capacita' stessa di allineare la percezione con se stessa e con la percezione degli altri Tonal e quindi con tutti gli altri esseri umani. Il Nagual invece, manifesta se stesso e si rende verita' tangibile quando, in conseguenza alla sospensione del dialgo interno, il Tonal viene momentaneamente messo da parte, anche solo per qualche istante e cosi', noi possiamo percepirne gli effetti. La manifestazione e la presenza del Nagual avviene attraverso l'affermazione di verita' che ci escono di bocca senza averle prima elaborate come pensieri lineari e causali. Queste specie di sentenze si rivelano poi come vere. Oppure sono delle visioni, o voci che ci parlano di cose o persone e che vanno a formare quel substrato che, in tutte le tradizioni del pianeta, viene definita veggenza. Quelle che chiamiamo intuizioni non rientrano invece negli effetti del Nagual, mentre invece lo e' la capacita' di vedere l'energia direttamente per quella che e'; scevra dal condizionamento del Tonal. E' impossibile parlare del Nagual oppure dargli una definizione in base ai condizionamenti del Tonal; perche' tutto quello che possiamo dire o che possiamo pensare o su cui possiamo riflettere e' frutto del Tonal. L'unico modo di divenire testimoni del Nagual e' lavorare su di se' per ampliare la percezione, per spostare il punto di unione e renderlo flessibile, in modo tale da divenire meno preda della morsa della socializzazione, la quale e' la diretta responsabile non solo del Tonal personale ma anche del Tonal del tempo; ed a parti inverse posso dire che e' lo stesso Tonal il responsabile della fissita' del punto di unione. Due rovesci della stessa medaglia che creano la gabbia della percezione che chiamiamo realta'.

Uno stregone riesce a valutare le persone osservando il loro Tonal a prescindere dai giudizi morali, da complicazioni di natura intellettuale o in base ai filtri della cultura dalla quale proviene. Uno stregone osserva il Tonal delle persone che vede e sa l'esatto stato nel quale esse si trovano a livello fisico e mentale. Questo implica un diverso modo di percepire e di comprendere come ogni cosa sia il frutto diretto dello stato del Tonal e non viceversa. Ovvero se una persona e' debole, malata, insicura, e con un corpo decrepito o in cattivo stato, lo e' perche' e' il suo Tonal ad essere debole. Il Tonal viene prima, il Tonal e' la radice primaria delle situazioni esistenziali di un essere umano e non il contrario. Quindi un Tonal debole crea un individuo debole; e non e' quindi la debolezza della persona ad indebolire il suo Tonal. Quando vi trovate di fronte un soggetto che emana una grande forza, vuol dire che il suo Tonal e' forte e spesso anche in salute. Capite bene come l'approccio sia totalmente diverso, come le cose vengano inquadrate da un'ottica diversa e se vogliamo rovesciata, rispetto al comune modo di vedere la vita e la realta'. Il mondo non e' fatto di oggetti, le persone non sono un insieme di cellule, organi e tessuti. Tutto quello che ci e' consentito vedere e con il quale possiamo interagire ha una sua controparte energetica che e' il Tonal, ed e' quest'ultimo che determina tutto il resto. L'altra parte della coppia e' il Nagual il quale mostra piccolissimi sprazzi di se' nel momento in cui il Tonal abbassa la guardia, nei momenti nei quali esso molla il suo controllo dispotico. Peccato che se non ci si addestra per fare in modo che il Nagual sia sempre piu' presente, la sua voce e le sue manifestazioni passano spesso inosservate oppure ci si convince che siano il frutto del nostro delirio o piu' semplicemente, non essendo abituati a dargli il giusto peso, li lasciamo passare in cavalleria senza dargli importanza. La vera conquista di uno stregone e' quella di dare sempre piu' spazio al Nagual, e di fare di tutto per non perdere il contatto con esso. Lo scopo e' quello di mantenere sempre pulito l'anello di contatto con il Nagual.

"La giovinezza non e' affatto un ostacolo contro il deteriorarsi del Tonal. Voi pensavate che ci potessero essere mille ragioni per cui il giovane si trovava in quelle condizioni. Io trovo che ce n'e' una sola: il suo Tonal. Non: il suo Tonal e' debole perche' lui beve, al contrario: lui beve perche' il suo Tonal e' debole. Quella debolezza lo costringe ad essere com'e'. Ma la stessa cosa succede a tutti noi, in un modo o nell'altro. (...) Vi sto dando una spiegazione che prima non avevate mai incontrato. Pero' non e' una giustificazione oppure una condanna. Il Tonal di quel giovane e' debole e timido. Ma non e' il solo, tutti siamo piu' o meno nella stessa barca. (..) Non c'e' bisogno di trattare il corpo in modo cosi' spaventoso. Ma il triste e' che tutti abbiamo imparato alla perfezione a rendere debole il nostro Tonal. Questo e' cio' che chiamiamo indulgere".

Don Juan spiega a Castaneda che gli unici che possono avere un Tonal perfetto sono gli stregoni, mentre invece l'uomo comune puo' avere al massimo un buon Tonal, cioe' un Tonal giusto. Continua nel dirgli che il Tonal e' molto vulnerabile e non sopporta maltrattamenti e che gli indios Yaqui, nello specifico gli stregoni toltechi, furono gli unici che riuscirono a fare in modo di sopravvivere alla conquista spagnola perche' riuscirono a far rifugiare il loro Tonal all'interno del Nagual e cosi' facendo elusero la dominazione dei conquistadores, perche' nessuno a parte loro, era a conoscenza dell'esistenza del Nagual. A questo punto Castaneda si sente chiamato in causa, cosi' cerca di dare la sua spiegazione di Nagual, o meglio la descrizione che in occidente si fa quando si tenta di descrivere la Coscienza Cosmica o l'Io trascendentale o l'osservatore presente dietro i nostri pensieri in ogni momento. Ebbene a queste parole Don Juan ride e gli rifa' il verso scimmiottando la solita caparbia e cinica mente di Castaneda sottolineando per filo e per segno tutto cio' che il Nagual non e'; e tutto cio' che invece esso e', come dimostrazione degli effetti che produce e di niente altro.

"Vi sento parlare ma non state dicendo nulla. Il nagual non e' esperienza, intuizione o coscienza. Questi elementi e qualunque altro abbiate voglia di nominare sono soltanto elementi sull'isola del Tonal. Il Nagual invece, e' solo effetto. Il Tonal inizia alla nascita e finisce alla morte, ma il Nagual non finisce mai. Il Nagual non ha limiti. Ho detto che il Nagual e' dove il potere si libra: era solo un modo di alludervi. A causa del suo effetto, il Nagual forse puo' essere meglio capito in termini di potere. Per esempio: quando oggi, prima, vi sentivate intorpidito e non riuscivate a parlare, io vi stavo veramente calmando; cioe' il mio Nagual agiva su di voi. -- Com'e' possibile Don Juan? -- Voi non ci crederete ma nessuno sa come. Io so soltanto che desideravo la vostra intera attenzione e allora il mio Nagual e' intervenuto su di voi. Lo so perche' ne ho visto l'effetto, ma non so come agisca. Si puo' dire che il Nagual e' responsabile della creativita', il Nagual e' l'unica parte di noi che puo' creare".

Con il termine creativita', Don Juan non intendeva certo la capacita' di creare edifici oppure opere di alta ingegneria oppure opere d'arte; quelle per lui erano rimodellamenti di qualcosa che gia' esisteva nel Tonal di qualcuno e che assieme ad altri Tonal era possibile rendere concreto. Don Juan con il termine creativita', intendeva la capacita' di agire sulla percezione e per questo essa poteva essere il risultato del solo spostamento del punto di unione. In oltre, come conseguenza dell'addestramento di uno stregone, la creativita' e' anche la capacita' di forgiare il proprio doppio e di usarlo a proprio piacimento oltre che l'uso di quella forza universale che egli e tutto il lignaggio degli sciamani toltechi chiamavano Intento! Maggiore e' la presenza del Nagual nella nostra vita e maggiore e' il nostro potere personale. Esso e' puro potere; quel potere che agisce nella nostra esistenza assecondando il nostro intento, il nostro volere; non possiamo spiegare come cio' avvenga ma certamente siamo in grado di vederne gli effetti. Quando il nostro potere personale diviene stabile e forte la presenza del Nagual in noi diviene altrettanto stabile e forte; cio' vuol dire che non si limita ad una apparizione saltuaria o momentanea, ma diviene una presenza regolare e costante che manifesta se stessa ed i suoi effetti tutte le volte che la invochiamo.

Don Juan prosegue la sua spiegazione in merito al Tonal e come sempre lo fa attraverso i fatti. Comunica a Castaneda che entrambi non sarebbero andati via dalla panchina dove si trovavano fino a quando il potere personale di Castaneda; cioe' il suo Nagual, non gli avesse portato un Tonal perfetto. "Che cos'e' un tonal perfetto? -- chiesi -- Un tonal che sia assolutamente giusto, equilibrato ed armonioso. Voi siete tenuto a trovarne uno, oggi, o piuttosto il vostro potere e' tenuto a portarcene uno. -- Ma come posso riconoscerlo fra gli altri tonal? -- Non preoccupatevi. Ve lo indichero' io. -- Com'e' fatto? -- Difficile a dirsi. Dipende da voi. E' un'immagine per voi, dunque siete voi che ne determinerete le condizioni. -- Come? -- Non lo so. E' il vostro potere, il vostro Nagual, che lo fara'. Parlando grossolanamente, si puo' dire che ci siano due lati per ogni tonal. Uno e' la parte esterna, l'orlo, la superficie dell'isola. E' la parte connessa con le azioni, il lato rozzo. L'altra parte e' la decisione e il giudizio, il tonal interno, piu' morbido, piu' delicato e piu' complesso. Il tonal perfetto e' un tonal nel quale i due livelli sono in perfetto equilibrio ed armonia.". Poco dopo le parole di Don Juan comparve una ragazza ed egli esclamo' felice la sua approvazione per il Nagual di Castaneda e per il fatto che fosse riuscito ad attrarre un tonal giusto! Gli ordino' di alzarsi dalla panchina e di andare a parlarle, dato che ella non si era fermata da loro. Castaneda obbedi' pronto, e il risultato fu che si trovo' a conversare brevemente con una ragazza sui venticinque anni, di media statura, molto attraente e curata, con occhi limpidi e tranquilli, la quale sorrideva alle sue parole e che gli risulto' anche simpatica. Fu cosi' che al suo ritorno alla panchina, Castaneda non pote' esimersi dal chiedere al Maestro se ella fosse un guerriero. La risposta di Don Juan fu la seguente: "Non proprio. Il vostro potere non e' ancora cosi' intenso da portar qui un guerriero. Ma quella ragazza ha un tonal perfettamente giusto, che potrebbe diventare un tonal perfetto. I guerrieri sono di questo stampo". Castaneda rimase basito dall'affermazione di Don Juan perche' non lo aveva mai sentito prima parlare di streghe, cioe' di donne sciamane, di guerriere e cosi' volle sapere se anche le donne potevano accedere a questo percorso. "Certo che possono esserlo, e sono anzi meglio equipaggiate degli uomini per il sentiero del sapere. Ma gli uomini sono un po' piu' elastici. Direi che, tutto considerato, le donne si trovano leggermente in vantaggio. Voi siete un uomo, quindi quando vi parlo uso il maschile. Tutto qui. Il resto e' uguale. (...) Per un tonal perfetto ogni cosa sull'isola del tonal e' una sfida. Si puo' anche dire: per un guerriero ogni cosa di questo mondo e' una sfida. La sfida maggiore, naturalmente e' il suo tentativo di ottenere il potere. Ma il potere proviene dal Nagual, e quando un guerriero si trova alla fine della giornata questo vuol dire che l'ora del Nagual s'avvicina: l'ora del potere. (...) Una volta vi siete messo alla ricerca del potere e non si puo' tornare indietro. Non voglio dire che state per attuare il vostro destino, poiche' non c'e' destino. Si puo' dire soltanto che state per attuare il vostro potere. Il segno era chiaro. Quella ragazza e' venuta da voi alla fine della giornata. Avete ancora poco tempo e non da sciupare. Una condizione ottima. Direi che il meglio di noi affiora sempre quando abbiamo le spalle al muro, quando sentiamo che la spada ci pende sulla testa. Personalmente io non vorrei altra condizione".

Il pragmatismo di Don Juan non lascia spazio a equivoci ne' tanto meno alle chiacchere o all'autoindulgenza... Si decide veramente di fare qualcosa di profondo e concreto per se stessi quando non si ha piu' scelta, quando ci si trova oramai disillusi perche' tutto quello che si e' provato non ha funzionato. Ci si rende finalmente conto che, se nella nostra vita le cose seguono sempre lo stesso schema, si ripete sempre lo stesso copione dove cambiano gli attori ma la parte che si recita e' la stessa, ci stiamo comportando come criceti in gabbia che girano nella ruota aspettandosi qualcosa di diverso ma reiterando lo stesso identico atteggiamento. Cio' significa assistere a fallimento dopo fallimento. Vuol dire non avere nessun potere personale, nessuna presenza costante del Nagual nella nostra vita. Ripeto: non c'e' modo di parlare o di descrivere il Nagual, l'unico modo che si ha di comprenderlo e' quello di vedere gli effetti di potere che manifesta nelle nostre vite. Di conseguenza l'unico modo per incrementarne il potere personale e' la via del guerriero; la quale implica la capacita' di riacquistare l'energia dispersa nella nostra storia personale e ridistribuirla rendendola disponibile all'uso quotidiano attraverso la pratica della ricapitolazione, dei passi magici e della sospensione del dialogo interno. Acquietare il dialogo interno a piacimento e in maniera subitanea. Divenire consapevoli del proprio Doppio e forgiarlo per usarlo scientemente, praticare l'arte di sognare, la quale va molto oltre il semplice sogno lucido, ed infine allinearsi alla forza universale dell' Intento e divenire capaci di intentare il proprio volere. Potrei infine sottolineare che il piu' grande traguardo di uno stregone e' quello di aver raggiunto la totale sobrieta' in tutto; che vuol dire aver raggiunto l'equilibrio e aver limato fino all'osso la propria importanza personale, e l'autoindulgenza. Questi due ultimi deliri dell'ego sono i piu' difficili da smantellare e richiedono una vita di costante lavoro su di se', di volonta' e di intento inflessibile. Tutto questo e' contenuto all'interno dei miei corsi e delle individuali nelle quali aiuto le persone a migliorare se stesse e il loro stile di vita, oltre che sostenerle e guidarle alla scoperta e alla pratica delle tecniche che occorrono per scoprire il proprio scopo di vita e incrementare il loro potere personale. Quando il potere personale aumenta prepotentemente, allora e solo allora, si e' in grado di scoprire e portare avanti il proprio scopo.

"Un guerriero non lascia mai l'isola del Tonal. La adopera. Questo e' il vostro mondo. Non potete rinunciarvi. E' inutile arrabbiarsi e sentirsi delusi con se stessi. Tutto cio' prova soltanto che il proprio Tonal e' impegnato in una battaglia interna: una battaglia all'interno del proprio Tonal e' una delle contese piu' stupide che io possa immaginare. La vita equilibrata di un guerriero e' destinata a porre fine a questa lotta. Fin da principio vi ho insegnato ad evitare il logoramento. Adesso non c'e' piu' guerra dentro di voi, come prima, perche' il comportamento del guerriero e' armonia, l'armonia tra azioni e decisioni innanzitutto, e poi l'armonia tra Tonal e Nagual. Da quando vi conosco ho parlato a entrambi: al vostro Tonal e al vostro Nagual. L'istruzione deve procedere in questo modo. Da principio bisogna parlare al Tonal. E' il Tonal che deve perdere il controllo. Ma dovrebbe farlo di buon grado. Per esempio il vostro Tonal ha perso certi controlli senza molta lotta perche' gli e' divenuto chiaro che, se fosse rimasto com'era, la vostra totalita' sarebbe morta. In altre parole, bisogna fare si' che il Tonal rinunci a cose inutili, come la presunzione e l'indulgere, che gli recano solo danno. Il vero problema e' che il Tonal si attacca a queste cose, mentre dovrebbe essere lieto di liberarsene. Si tratta quindi di convincere il Tonal a divenire libero e fluido. Questo e' cio' di cui uno stregone ha bisogno prima di tutto: un Tonal forte, libero. Quanto piu' e' forte, tanto meno si attacca alle sue azioni: e allora e' piu' facile restringerlo". (Carlos Castaneda -- L'isola del tonal)




Con estrema chiarezza, una volta ancora, Don Juan mostra a Castaneda la via giusta alla comprensione degli effetti del Tonal e del Nagual nella vita di un guerriero. Con parole semplici ma efficaci gli spiega una grandissima verita' alla quale tutti dovremmo fare molta attenzione; e' inutile lottare contro noi stessi, logorarci in una battaglia che ci vedrebbe comunque sconfitti. Questo perche' la guerra produce solo vittime e macerie, sia quando la ingaggiamo con qualcuno fuori di noi, sia quando questa stessa battaglia e' il frutto di una scissione interna. La tendenza generale, lo scopo, la nostra meta, dovrebbe essere costantemente rivolta verso un solo obiettivo: l'equilibrio. Quest'ultimo e' una merce rara al giorno d'oggi ed ancor di piu' lo e', se ci ritroviamo ad avere un Tonal debole e non facciamo nulla per fare in modo di rinforzarlo attraverso delle adeguate pratiche che affondano la loro conoscenza in tradizioni che hanno un lignaggio millenario, come lo sciamanesimo tolteco. Piu' il Tonal e' forte ed equilibrato e piu' velocemente molla la presa nei confronti della sua atroce presunzione ed autoindulgenza. La resa che inizialmente avviene per gradi e poi, col passare del tempo in conseguenza ad un costante addestramento, diventa sempre piu' immediata nelle varie situazioni della vita, permette al Nagual di affiorare. La realta' e' che per arrivare a questo stato di cose, dobbiamo concentrarci sul rendere il nostro Tonal fluido e libero; operazione anche questa che necessita di una vita di costante addestramento, di lavoro indefesso su se stessi e di grande energia. E' solo quest'ultima che ci permette di avere un intento inflessibile e una determinazione costante che non molla la presa, che non si lascia scoraggiare mai! La forza e' il requisito fondamentale di chi aspira alla liberta'; come spiega Don Juan piu' il Tonal e' forte e meno si attacca alle proprie azioni, meno drammatizza, meno indulge in comportamenti auto sabotanti e autolimitanti e meno punta il dito sugli altri e sulle loro azioni. Bensi' e' concentrato su se stesso e su quello che genera, sui suoi atti e sulla sua percezione, ricordando sempre a se stesso che il mondo la' fuori e' il risultato del suo livello di coscienza e di nient'altro. Quindi perde la voglia di recriminare e di addossare la responsabilita' di cio' che accade a qualcosa fuori di se'; per questo non si deprime e non e' ansioso, non cerca colpe ma trova soluzioni. Quando si verifica un tale stato dell'essere, allora il Tonal e' pronto per essere ristretto, per restringere il proprio campo di azione e lasciare spazio al Nagual: in realta' il vero scopo dell'esistenza e' quello di armonizzare la presenza del Tonal e del Nagual. Quest'ultimo, quando viene lasciato libero di agire e di manifestare i suoi effetti, prendendo il comando, e' in grado di far compiere all'essere umano azioni straordinarie! Azioni che sono fuori dalla portata comune e che vengono viste dalla massa come eventi di portata monumentale.

"E' inutile parlarne. Qualunque cosa dicessi non avrebbe senso, perche' durante quei momenti eravamo nel tempo del Nagual. Delle faccende del Nagual puo' essere testimone solo il corpo, non la ragione. (..) Eravate nel tempo del Nagual, e in esso non c'e' nulla di spaventoso. Siamo capaci di molto di piu'. E' la nostra natura: di noi esseri luminosi. La nostra pecca e' insistere nel rimanere sulla nostra isola, monotona, noiosa, ma comoda. Il Tonal e' il furfante, e non dovrebbe esserlo. (..) Tutto cio' che posso dirvi e' che siamo esseri fluidi, luminosi, fatti di fibre. La convinzione che noi siamo oggetti solidi e' opera del Tonal. Quando il Nagual lo restringe, sono possibili cose straordinarie. Ma straordinarie solo per il Tonal. Per il Nagual e' una cosa da nulla uno spostamento come quello vostro di stamattina. Specialmente per il vostro Nagual, che e' gia' capace di imprese difficili".

Come ribadito piu' e piu' volte, non c'e' possibilita' di parlare del Nagual o spiegare cosa faccia o di cosa sia capace; possiamo solo essere testimoni degli effetti che esso provoca nella nostra vita, possiamo essere solo testimoni del suo immenso potere che in sostanza si manifesta attraverso quello che gli sciamani toltechi definiscono il nostro potere personale. In realta' maggiore e' il nostro potere personale e maggiore e' la capacita' e la frequenza con la quale il Nagual mostra i suoi effetti nelle nostre vite. Niente di piu' e niente di meno. Le parole non hanno la capacita' di spiegare nulla e nemmeno la mente, come sottolinea Don Juan, solo il nostro corpo puo' testimoniare la potenza del Nagual. Il problema nasce dal fatto che il nostro Tonal, o meglio la sua azione su di noi, e' talmente soverchiante da averci completamente schiavizzato e con questa azione manipolatrice ci ha resi tutti sudditi involontari di una percezione limitatissima ed univoca. Era nato per proteggerci e per garantirci l'esistenza e l'interazione tra noi e le altre forme di vita su questo pianeta, ma come quasi sempre accade, ad un certo punto la protezione benigna e amorevole si e' trasformata in una forma morbosa ed ossessiva di controllo. Se vogliamo possiamo anche affermare che esso e' l'unico dittatore della storia a non aver fatto una brutta fine! Poche persone nascono con un Tonal forte e gia' equilibrato, tanto da poter essere messo da parte con maggiore facilita'; la stragrande maggioranza del genere umano, quasi la totalita' a dire il vero, nasce con un Tonal debole e timido e questa condizione lo porta ad accettare con remissivita' tutto quello che gli accade e allo stesso tempo non li mette nella condizione di rendersi conto del Nagual. Non lo percepiscono affatto, o se lo fanno, cio' avviene in forma infinitesimale e non gli riconoscono nessuna influenza. Una volta che si ha un buon Tonal si puo' lavorare per renderlo perfetto, come dice Don Juan, ed intraprendere la strada del guerriero e' l'unico modo a suo dire per renderlo tale. Di fatto la potenza del Nagual e' inaudita e se non si rende il Tonal forte e in grado di ospitarlo, si possono correre dei rischi, grossi rischi. Ma questa e' una strada per gente coraggiosa e vorrei ricordare che i quattro ostacoli sulla via della conoscenza sono in primis la paura e in ultima la vecchiaia! La prima puo' essere e deve essere sconfitta per poter procedere nel cammino della conoscenza, l'ultima non puo' mai essere definitivamente annientata, ma la si puo' osteggiare, rimandare con un impegno costante e quotidiano. Poi c'e' un'altra cosa fondamentale che vorrei portare alla vostra conoscenza e che non va assolutamente sottovalutata: coloro che intraprendono questa strada non lo fanno perche' l'hanno scelta loro, bensi' perche' il Nagual li ha scelti e nessun altro. Il libero arbitrio o almeno quello che viene definito tale nell'accezione comune del termine non esiste! Tanto e' vero che Don Juan dice a Castaneda: "Solo un pazzo accetterebbe il compito di diventare un uomo di sapere. Un uomo dalla mente lucida deve essere attirato a farlo con l'inganno. Ci sono eserciti di individui che si dedicherebbero volentieri a tale missione, ma essi non contano. Di solito sono pazzi, teste vuote che esteriormente sembrano a posto, ma che si tradiscono appena sono messi sotto pressione, appena sono riempiti d'acqua". Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. Tornando al Nagual e al Tonal c'e' bisogno di ulteriori delucidazioni, come quelle che seguono.

"Il Nagual quando ha imparato ad affiorare, puo' essere molto pericoloso per il Tonal se emerge senza alcun controllo. Il vostro caso, pero', e' particolare. Vi siete talmente abbandonato all'indulgere che sareste morto senza neppure pensarci, o peggio ancora, senza neppure rendervi conto di morire. (..) Ecco il pericolo dell'indulgere. Specialmente per voi, poiche' voi siete esagerato per natura. Il vostro Tonal si abbandona talmente all'indulgere, da mettere in pericolo la vostra totalita'. E' un terribile modo di essere. (..) Il vostro Tonal deve essere convinto con ragioni, e il vostro Nagual con azioni, finche' l'uno sostenga l'altro. Come vi ho detto il Tonal domina e pero' e' molto vulnerabile. Il Nagual invece, non agisce mai o quasi mai, ma quando lo fa, terrifica il Tonal. (..) Il Tonal deve essere protetto ad ogni costo. Bisogna togliergli la corona, ma esso deve rimanere, come un supervisore protetto. Ogni minaccia contro il Tonal conduce sempre alla sua morte. E se il Tonal muore, muore tutto l'uomo. Per la sua intrinseca debolezza il Tonal e' facilmente distrutto; una delle arti equilibratrici del guerriero consiste, quindi, nel far affiorare il Nagual in modo che sostenga il Tonal. E' un'arte, dico, perche' gli stregoni sanno che solo sovralimentando il Tonal, il Nagual puo' affiorare. Capite cosa intendo? Questa sovralimentazione si chiama potere personale".

E' tutto cosi' tremendamente stupefacente che, o se ne fa esperienza diretta, oppure tutto cio' resta solo un racconto, come diceva sempre Don Juan, un racconto di potere e niente di piu'! Non puo' esserci un Tonal forte senza la debita presenza di potere personale e non puo' esserci potere personale senza un'altrettanta presenza del Nagual. Le due istanze vanno di pari passo e lo devono fare in maniera equilibrata; ecco perche' il punto sul quale Don Juan insiste sempre e' la sobrieta'! Quest'ultima ci permette di portare tutto allo stesso livello, un livello che sia il piu' vicino possibile allo zero. Cio' implica un totale annientamento o quasi delle giostre emotive alle quali sono sottoposti la maggior parte degli esseri umani; azzeramento o quasi dell'importanza personale. Nessuna preoccupazione di farsi piacere gli altri o di piacere a loro, completa e totale assunzione di responsabilita' delle proprie azioni, anche di quelle piu' banali, nessun ingigantimento delle situazioni o delle cose, accettazione che tutto e' esattamente come dovrebbe essere, nessuna perdita di tempo nel parlare male degli altri ne tanto meno nel dare la colpa agli altri per quello che ci succede. Non ci si erge a carnefici o a vittime, bensi' ci si sforza solo di vedere l'energia per quella che e'; e quando si riesce a fare questo la capacita' di vedere, disperde ogni illusione di aver vinto, di aver perso o di aver sofferto a causa di qualcosa o qualcuno! "Negare se stessi e' un atto di indulgenza. L'indulgenza del negarsi e' di gran lunga la peggiore; ci si induce a credere di compiere grandi cose, quando di fatto siamo semplicemente fermi nel nostro ego". (Carlos Castaneda -- Una realta' separata)

Al posto della negazione bisogna munirsi di accettazione: quest'ultima e' la piu' grande via d'accesso alla trasformazione nel senso che e' inutile ergersi a voler essere qualcosa che non si e', perche' l'ipertrofia dell'ego e' la cosa peggiore che possa accadere, specialmente quando l'ego si ammanta di doni spirituali, di maestria e di presunte capacita' di essere chissa' cosa. Tanto vale accettare la nostra natura, solo l'accettazione apre la via alla trasformazione; accettazione della nostra natura umana in tutto e per tutto, con i nostri pregi e i nostri difetti, con i nostri limiti, le nostre sconfitte e le nostre sofferenze. Le gioie e i dolori sono parte dell'esistenza di ogni essere umano, il problema nasce quando ci si inebria delle prime e si ingigantiscono i secondi. Ecco perche' l'indulgere in questa condizione e' una pessima e deleteria abitudine che succhia energia. Di conseguenza l'autoindulgenza e la mancanza di sobrieta' diminuiscono di netto il nostro potere personale, aumentano l'importanza personale, indeboliscono il nostro Tonal e quindi impediscono al Nagual di mostrare i suoi effetti.

"Il Nagual e' al servizio del guerriero. (..) I nostri occhi sono gli occhi del tonal, o forse sarebbe piu' giusto dire, che sono stati allenati dal tonal, il quale dunque li rivendica a se'. Una delle ragioni del vostro sconcerto e del vostro disagio e' che il vostro tonal non abbandona i vostri occhi. Il giorno che lo fara', il vostro nagual avra' vinto una grande battaglia. La vostra ossessione, o meglio l'ossessione di chiunque, e' di organizzare il mondo secondo le leggi del tonal; quindi ogni volta che affrontiamo il nagual, facciamo di tutto per rendere i nostri occhi duri e intransigenti. Io devo fare appello alla parte del vostro tonal che capisce questo dilemma, e voi dovete sforzarvi di rendere liberi i vostri occhi. Il punto e' di convincere il tonal che di fronte alle stesse finestre possono passare altri mondi. Il nagual stamattina ve l'ha mostrato. Dunque, fate che i vostri occhi siano liberi: che siano vere finestre. Gli occhi possono essere le finestre per fissare la noia oppure per fissare questo infinito. -- Come posso fare? -- Non dovete fare altro che organizzare la vostra intenzione come un ufficio di controllo. Ogni qual volta vi trovate nel mondo del tonal, dovete essere un tonal senza macchia; non c'e' posto per azzardi irrazionali. Ma ogni qual volta vi trovate nel mondo del nagual, dovete al pari essere senza macchia; non c'e' posto per azzardi razionali. Per un guerriero l'intenzione e' la porta che sta in mezzo: gli si chiude dietro, ermeticamente, quando egli prende una delle due strade. (..) Nessuno e' in grado di superare un incontro intenzionale col Nagual senza un lungo allenamento. Ci vogliono anni per preparare il tonal a un simile incontro. Di solito se un uomo comune si trovasse faccia a faccia con il nagual lo shock sarebbe cosi' forte che egli morirebbe. Lo scopo di chi allena un guerriero non e' quindi insegnargli a fare stregonerie o incantesimi, ma preparare il suo tonal a non andare in pezzi. Un risultato molto arduo. Un guerriero deve imparare ad essere senza macchia e perfettamente vuoto, prima di poter anche solo immaginare d'essere testimone del nagual. Nel vostro caso, per esempio, voi dovete smettere di supporre. Voi lo chiamate spiegare. Ma io lo chiamo sterile e noiosa insistenza del tonal per avere ogni cosa sotto controllo. Ogni volta che il tonal non ci riesce, giunge un momento di sconcerto e allora il tonal stesso si apre alla morte. Che razza di ostinato! Si ucciderebbe piuttosto di perdere il controllo. E tuttavia possiamo fare pochissimo per mutare questa condizione. -- Voi come avete fatto a mutarla Don Juan? -- L'isola del tonal dev'essere ripulita e mantenuta pulita. E' l'unica possibilita' che si offre al guerriero. Un'isola pulita non offre resistenza; e' come se la' non ci fosse nulla".

Ecco il segreto, non ce ne sono altri: tenere pulita la propria isola, ripulire costantemente il nostro inventario personale, fare spazio, cancellare la nostra storia personale e riacquistare energia! Il processo e' questo, la ricapitolazione e' la piu' grande e rapida tecnica che abbia mai appreso per creare questo spazio. La tradizione tolteca ne ha fatto un perno dell'addestramento del guerriero gia' millenni orsono e a buon titolo direi... Tutti quelli che hanno manifestato e poi mantenuto un intento inflessibile nel portare avanti questa tecnica, ne hanno colto i benefici straordinari, immediati e che durano nel tempo. Essi vanno a stratificarsi perche' quando le tecniche vengono applicate giorno dopo giorno, senza tregua, senza sosta, senza lamentele e senza autoindulgenza, si sviluppa un intento inflessibile e una disciplina che e' la sola caratteristica che distingue al mille per mille un guerriero da una persona comune. Nessuno puo' dirsi esente da un coinvolgimento costante e totale; perche' esso ci da la capacita' e la possibilita' di mollare il delirio di controllo che l'ego, il tonal, esercita costantemente sulle nostre vite. Illudersi di entrare a contatto con il Nagual senza l'adeguata preparazione perche' cio' avvenga e' la somma manifestazione del delirio di presunzione che attanaglia chiunque prenda sotto gamba le parole di tutti i Maestri comparsi nell'arco dei secoli su questo pianeta, i quali hanno tentato in tutti i modi di indicarci la via; ma il lavoro e' strettamente personale ed e' il nostro, senza nessuna illusione di sconti o scorciatoie. Questi ultimi sono appannaggio degli illusi.





N° Post: 593
Sipolino Fabio
Tuesday 16th of November 2021 06:49:56 PM


Il femminino sacro, la Grande Madre... e il ritorno all'Umano Condiviso Riconoscersi in cio' che e'





Paolo D'Arpini circolovegetariano@gmail.com

Il femminino e la sua simbologia e' mutato radicalmente nel corso dei secoli. Nella remota antichita' il femminile era rappresentativo di un potere creativo assoluto e totale.

Il femminino sacro, la Grande Madre
Il femminino e la sua simbologia e' mutato radicalmente nel corso dei secoli. Nella remota antichita' il femminile era rappresentativo di un potere creativo assoluto e totale. Tutte le divinita' si mostravano in aspetto femminile o in forme che evocavano tale qualita', a cominciare dalla Grande Madre, la natura stessa, sino a Madre Acqua, Madre Luna e anche Madre Sole, ecc. (la formula sacra piu' antica, il Gayatri Mantra, e' dedicato a Savitri, la dea dell'energia solare).

Le donne in quanto incarnazione primigenia del potere procreativo erano pertanto degne di amore e di devozione. La paternita' era "sconosciuta" (ovvero ignorata), la madre esisteva di certo e questo era un dato incontrovertibile... Come poi l'operazione procreativa accadesse era lasciato agli umori materni che venivano influenzati o sollecitati dall'amore rivolto dai maschi verso tutte le madri. Insomma il padre era un semplice elemento ispirante per promuovere la maternita', non un fattore primo ma un incidentale aiuto....

Questo sino a un certo punto, finche' non cambiarono pian piano le cose e le responsabilita' nelle funzioni creatrici si rovesciarono. Ma non avvenne tutto assieme, questo andamento evolutivo dal matrismo al patriarcato prese secoli e secoli per consolidarsi. Gli studi dell'archeologa lituana Gimbutas tendevano proprio a dimostrare l'esistenza di un lunghissimo periodo di transizione fra matrismo e patriarcato.

Probabilmente gli "ideatori" del patriarcato nacquero sulle sponde dell'Indo, la civilizzazione piu' antica sulla faccia della terra (antecedente ai Sumeri e agli Egiziani), in quel "paradiso terrestre" avvenne il riconoscimento del valore della paternita' come fattore "portante" e di conseguenza come elemento stimolativo per una nuova religione e mitologia. Ma il processo anche qui fu lento, dovendo giustificarsi con fatti sostanziali che ne garantissero l'accettazione per mezzo di consequenzialita' storica e di significati allegorici.

Avveniva cosi' ad esempio nella mitologia induista in cui Parvati, la Dea primordiale crea da se stessa un figlio che la protegga dall'arroganza dei maschi che servivano Shiva, il suo sposo. Questo suo figlio, Ganesh, e' talmente potente che e' in grado di impedire l'accesso alla camera della madre a Shiva stesso (perche' non aveva chiesto il permesso di avvicinarsi, notate bene questo particolare importante in cui si garantisce alla madre il diritto di scelta nel rapporto). A questo punto Shiva invia le sue truppe maschili all'attacco di Ganesh ma tutti i suoi "gana" vengono sconfitti e Shiva medesimo vien lasciato con un palmo di naso e infine e' solo con l'inganno e chiedendo aiuto all'altro dio maschile, Vishnu, definito il conservatore, che egli riesce a sconfiggere Ganesh... Ma non fu una totale debacle.... poiche' poi, per amore di Parvati, Shiva accetta di essere padre, ovvero riconosce che Ganesh e' suo figlio e lo ristora alla vita, cambiandogli pero' testa... (e anche qui notate le simbologie connesse...).

Questa descrizione fantastica la dice lunga sul significato della trasformazione epocale in corso 15.000 anni prima di Cristo.... Molto piu' tardi, ma sempre in un ambito di civilta' indoeuropea, vediamo addirittura che e' il dio maschile a creare da se stesso. Ed e' quanto avviene a Giove che, non aiutato dalla consorte, produce dal proprio cervello Minerva. I tempi a questo punto son gia' mutati, il patriarcato ormai impera sovrano, le donne sono fattrici (o etere buone solo a passare il tempo), persino l'amore, quello vero e nobile, si manifesta fra maschi (vedasi la consuetudine di tutti i maestri greci di avere ragazzini per amanti). In quel tempo la condizione femminile era alquanto scaduta e in Europa od in Medio Oriente restavano sacche di resistenza solo qui e li'.

Ad esempio nella tradizione giudaica la trasmissione della appartenenza al "popolo eletto" avveniva (ed e' ancora oggi cosi') per via materna, ultimo rimasuglio matristico in mezzo a una serie di regole molto patriarcali e misogine. Tale misoginia fu assunta - in modi differenti - anche dalle altre due religioni monoteiste: il cristianesimo e l'islamismo. Nell'islamismo pero', malgrado la visione della donna in chiave di sudditanza, si salvo' il criterio di bellezza e nobilta' dell'amore sensuale, infatti il profeta Maometto ebbe diverse mogli e persino il suo paradiso era riempito di belle donne accoglienti. Questo almeno consentiva un naturale intercourse di rapporti fra i due sessi. Purtroppo non avvenne la stessa cosa nel cristianesimo ove prevalse, anzi peggioro', la misoginia originaria ebraica. Se nell'ebraismo la divinita', sia pur vista in chiave di "dio padre", manteneva un distacco verso le cose del mondo, essendo un dio non rappresentabile e puro spirito, nel cristianesimo per poter giustificare la divinita' del "figlio" si cancello' completamente il ruolo creativo della madre. Maria concepi' vergine dallo spirito santo, la sua e' una prestazione completamente passiva e deriva da una scelta del dio padre di impalmarla e renderla madre. Insomma la povera Maria e' equiparabile ad una "prostituta" religiosa.

Da questa visione deriva anche la ragione cartesiana pseudo scientifica che indica la natura come passiva, inerte e pure stupida... Insomma lo spirito maschio "infonde" la vita e la "buona" madre porta in grembo quanto le viene concesso di portare....

Capite da voi stessi che tale proiezione e' ormai improponibile e obsoleta, sia pur che la maggioranza degli uomini ancora vi si crogiola, illudendosi con favole religiose e ideologiche della "superiorita'" maschile, della "superiorita'" dell'intelligenza speculativa scientifica, della "superiorita'" del potere e della forza. Cosi' non si fanno passi avanti nell'evoluzione della specie. E' ovvio che entrambi questi aspetti, matrismo e patriarcato, hanno avuto una loro funzione storica per lo sviluppo delle "qualita'" della specie umana.
Ora e' giunto il tempo di comprenderne la totale complementarieta' e comune appartenenza, ma non per andare verso una specie unisex, bensi' per riconoscere pari valore e significato a entrambi gli aspetti e funzioni.... in una fusione simbiotica.





N° Post: 514
Sipolino Fabio
Monday 6th of September 2021 09:20:35 AM




L'ESISTENZIALISMO Dal 1920 al 1950.



L'esistenzialismo ha come precursore Kierkegaard, il quale critica la filosofia hegeliana. Lo sviluppo della tecnica e' la caratteristica principale della societa' del 900. la tecnica apporta miglioramento nel benessere ma limita le scelte dell'uomo perche' ricerca solo l'utile e il funzionale, mettendo in secondo piano i valori umani. La guerra interrompe l'evoluzione e il progresso e fa ripiombare l'uomo nella precarieta' della vita. I temi principali di questa corrente sono: ? ? ? ? ? Tecnica limita le scelte dell'uomo Precarieta' della vita Esistenza Banalita' esistenza Angoscia, disperazione, possibilita', speranza, naufragio, scacco (parola chiave da Kierkegaard) Alcuni temi sono ripresi dal Romanticismo come: ? ? L'uomo e' un essere singolo ma anche storico Assurdita' della vita che paragona l'uomo alla figura di Sisifo (ripreso da Camus) 2. Caratteri generali dell'esistenzialismo 2.1.


L'esistenzialismo come "atmosfera" L'esistenzialismo puo' essere inteso come "clima" culturale poiche' non comprende solo la filosofia, ma anche la letteratura, la psichiatria, la religione. I temi dell'esistenzialismo come atmosfera sono: attenzione nei confronti della finitudine umana e dei dati che le caratterizzano, cioe' la situazione limite e gli aspetti negativi della condizione umana. Sull'esistenzialismo hanno influito parallelamente la delusione storica (guerra) e la delusione culturale nei confronti degli ideali dell'800 infatti: ? ? ? ? ? Il Romanticismo esauri' le sue risorse La guerra fece crollare le illusioni di ottimismo L'arte, con le influenze extraeuropee, vide dileguare la forma, lo spazio, le figure, il colore La scienza non ebbe piu' la pretesa di spiegare tutto La religione vide, con le guerre, il prevalere del male Per questi motivi l'esistenzialismo si e' collegato con libri in cui e' piu' vivo il senso della problematicita' della vita umana, come quelli di Dostoevskij e Kafka. In Dostoevskij (Fratelli Karamazov) e' presente il problema dell'uomo che continuamente sceglie le possibilita' della sua vita, le realizza e le porta a termine con tutte le conseguenze che esse comportano. In Kafka l'esistenza appare sotto il peso di una minaccia che finisce solo con la morte (Processo); un altro tema e' quello della banalita' quotidiana che toglie all'uomo perfino le sue sembianze umane (Metamorfosi). Dopo la seconda guerra mondiale la letteratura esistenzialista collega la situazione di quel momento con i concetti esistenzialistici. Infatti questa letteratura sottolinea le vicende piu' tristi e peccaminose. Questi temi sono presenti anche in Camus, il quale nel Mito di Sisifo, descrive l'eroe come simbolo dell'assurdita' dell'esistenza. L'assurdo scaturisce da un divorzio tra le attese della ragione e la dura realta' dei fatti. Esistenzialismo e Decadentismo sono accomunati dal tema della morte, infatti nel Decadentismo subentra la sensibilita' di una presenza della morte dentro alla vita stessa. Un'altra corrente che pero' si sviluppa in Italia, parallelamente all'esistenzialismo, e' l'ermetismo e insiste su temi come: la solitudine, l'illusione del vivere, la morte, il mistero, l'oblio, l'irrevocabilita' del tempo. 2.2. L'esistenzialismo come filosofia I temi dell'esistenzialismo come insieme di filosofie sono: 1. la riflessione sull'esistenza, intesa come modo d'essere proprio dell'uomo e diverso da quello di tutti gli altri esseri viventi 2. tale modo d'essere viene descritto come un rapporto con l'essere. Infatti, gli esistenzialisti concepiscono l'esistenza come un'entita' aperta ad un "oltre". La relazione problematica fra l'uomo e l'essere rappresenta il binomio centrale dell'esistenzialismo. 3. il rapporto con l'essere viene interpretato come qualcosa che richiede da parte dell'uomo una certa scelta aperta al "rischio". 4. di conseguenza, secondo gli esistenzialisti, l'uomo e' un ente che si trova di fronte all'alternativa fra autenticita' 5. 6. 7. e inautenticita'. l'appello alla scelta e all'autenticita' implicano che l'uomo viva come "singolo", ossia come un ente irripetibile. percio' l'esistenza si trova sempre in una situazione altrettanto individuata, racchiusa dalla nascita e dalla morte. in quanto struttura relazionale caratterizzata dalla singolarita', dal possibile, dalla scelta, dalla situazione (e da stati affettivi come la paura, l'angoscia, la nausea, l'attesa,...), l'esistenza risulta segnata dalla finitudine e dal limite. Percio' l'esistenzialismo filosofico e' un concetto storiografico per indicare tutte quelle forme di pensiero che, dagli anni 20 ai 40, hanno condiviso la concezione di esistenza come modo d'essere proprio dell'uomo, qualificato da determinate caratteristiche, come il rapporto con l'essere. Modo d'essere in relazione a cui l'individuo, nella sua singolarita' finita e irripetibile, e' chiamato a decidere per la sua autenticita' e realizzazione. L'esistenzialismo polemizza le altre filosofie che: 1. 2. 3. 4. non conoscono la finitudine esistenziale, identificando l'uomo con l'Assoluto non tengono in considerazione il problema del singolo in quanto tale non tengono conto delle situazioni-limite dell'esistenza (nascita, morte, solitudine) e degli stati d'animo che le accompagnano (angoscia, paura, speranza) negano l'iniziativa e la scelta, ritenendo l'esistenza un veicolo di impulsi e strutture in cui l'uomo, piu' che pensare, risulta "pensato" 3. Date e precursori dell'esistenzialismo ? ? ? 1919: Epistola ai romani di Karl Barth e Psicologia delle visioni del mondo di Karl Jaspers. Questi 2 libri segnano l'inizio della Kiekegaard-Renaissance, ovvero movimento di idee che riconosce in Kierkegaard il capostipite della filosofia esistenzialista. 1943: L'essere e il nulla di Sartre e Il mito di Sisifo di Camus 1946: L'esistenzialismo e' un umanismo di Sartre




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Sipolino Fabio
Monday 9th of August 2021 11:46:59 AM


EMMANUEL LEVINAS





A cura di Antonino Magnanimo

" Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, e' un rapporto con l'Altro. E' un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l'altro a se', spogliandolo della sua alterita'. "




VITA E OPERE
Emmanuel Le'vinas e' nato a Kaunas (Lituania) nel 1905 da una famiglia ebrea e ha vissuto la rivoluzione russa in Ucraina. Nel 1923 si trasferisce in Francia a Strasburgo, dove inizia gli studi universitari, seguendo i corsi di Blondel e di Halbwachs. Nel 1928-1929 si reca a Friburgo, dove assiste alle ultime lezioni di Husserl e conosce Heidegger di cui rimase affascinato. L' " apprendistato della fenomenologia ", come egli lo ha definito, orientera' poi la sua ricerca personale. Dal 1930 fino alla guerra occupa diverse funzioni nella "École normale israe'lite di Auteuil", che forma gli insegnanti dell'Alliance Israe'lite Universelle e stringe amicizia con Henri Nerson, cui dedichera' il suo primo libro di scritti giudaici " Difficile Liberte' ". Emmanuel Le'vinas rievoca spesso gli anni dei suoi studi universitari a Friburgo, dove si reco' prima che " Hitler diventasse Hitler ". Fa poi ritorno in Francia prima che Hitler salisse al potere, nel 1932. E in seguito, per giustificare il fatto che Heidegger si era compromesso con il nazismo, il filosofo francese adduce la genialita' del maestro tedesco. Prima della sua permanenza a Friburgo, in Francia, Le'vinas aveva conosciuto Jean-Paul Sartre di cui apprezzava il " pensiero audace e regolare ". La sua formazione filosofica inizia con Blondel che incarnava la " luminosita' dello spirito francese ", la "clarte'", l'ordine. Accanto all'incontro con Heidegger e Husserl, Le'vinas ricorda l'altro grande evento della sua vita: il rapporto con Monsieur Chouchani, un genio talmudico, che aveva il Talmud dentro, incarnato, vivente. Questo sapiente ebreo gli trasmette " il vigore intellettuale nella crudezza della potenza del Talmud " (ebraico: disciplina), raccolta di norme religiose e legali, Mishna, e di sentenze rabbiniche, Gemara. Ve ne sono due redazioni: quella di Babilonia e quella di Gerusalemme, e molti commenti. Il Talmud contiene, tra l'altro, il credo ebraico, di 13 articoli) . La sua tradizione familiare ebraica viene alimentata, dopo questo incontro decisivo, da un giudaismo vivente. Husserl viene descritto come splendido genio che rappresenta il filosofo tedesco tradizionale, legato a doppio filo con la fenomenologia. Le'vinas parla del suo incontro con Jacques Derrida', anche lui passato attraverso Heidegger e Husserl. Poi accenna alla sua lingua madre, il russo, che pero' non ha utilizzato per le sue opere filosofiche che ha scritto in francese o in tedesco, infarcendole di riferimenti in greco e latino. Mobilitato nel 1939, viene fatto prigioniero e sara' liberato solo nel 1945. Nell' immediato dopoguerra riprende il suo posto all' "École normale israe'lite", questa volta come direttore, e partecipa alle riunioni settimanali di Gabriel Marcel e al "Colle'ge philosophique" di Jean Wahl, sotto la cui direzione prepara la tesi di Stato, pubblicata nel 1961 sotto il titolo di " Totalite' et infini " che gli apre le porte dell'insegnamento universitario. Nel 1957 inizia anche l'attivita' di lettura e commento del Talmud ai " Colloques des Intellectuels Juifs de Langue Francaise ". Nel 1964 viene chiamato all'Universita' di Poitiers, nel 1967 passa a Paris-Nanterre e nel 1973 alla Sorbonne. Muore nel 1995. Le due opere fondamentali di Levinas sono " Totalita' ed infinito " e " Altrimenti che essere o al di la' dell'essenza ". Da ricordare anche " Nomi propri ".Il tema dell'ebraismo viene svolto nelle " Quattro lettere talmudiche ". Un'utile lettura preliminare puo' essere " Dall'esistenza all'esistente ", in cui viene posto il legame con il pensiero di Husserl e di Heidegger.

L'IMPIANTO FILOSOFICO
La filosofia di Le'vinas e' incentrata sul problema dell' Etica della quale ha elaborato i princi'pi primi per aprirla alla metafisica. L'etica equivale alla metafisica, perche' l'unica filosofia possibile, l'unica possibile conoscenza, e' quella dei princi'pi primi dell'agire morale. La Bibbia e la filosofia sono in accordo, anche se la vera filosofia e' quella che distrugge tutti i miti costruiti dall'uomo. Il compito della filosofia e' pensare (secondo un'espressione desunta da Barth) al "Totalmente Altro" dall'Essere e dal Logos che sono le categorie di una comprensione riduttiva e fallace del reale. Le'vinas ha una diversa prospettiva dell'alterita' radicale. La sua filosofia nasce dallo " stupore del silenzio di Dio " verso le tragedie. Pensare e' ascoltare la Parola dell'infinito che e' udibile dal volto dell'altro nella cui nudita' e poverta' risplende la traccia di Dio. Cio' e' possibile solo nel rispetto della sua alterita', della sua solitudine, del suo mistero e della sua persona: e' questo il principio primo dell'etica che, in questo ambito, diventa metafisica: se non violo con le mie categorie onnicomprensive il mistero dell'altro, cioe' se non lo riduco ad un'essenza pre-determinata e pre-giudicata, arrivo ad un tipo di conoscenza che e' reale perche' e' traccia dell'infinito. L'alterita' e' totalmente estranea all'ego (frattura tra se' e l'altro) e, pertanto, la mia esperienza non sara' mai paragonabile a quella di un altro, io non posso vivere il dolore, la gioia e altre esperienze limite di un altro. Per il filosofo lituano l'etica costituisce la possibilita' di uscita dalla conoscenza come comprensione dell'altro che viene generalmente assimilato a se' ed espropriato della sua alterita' e diversita'. L'altro, per essere tale, non puo' essere ricondotto ne' alla conoscenza che io ne ho (che e' sempre un'interpretazione parziale), ne' all'amore che parte da me e intende abbracciarlo. Le'vinas vede nell' " eros uno dei simboli massimi dell'alterita' ", eros non e' possesso, ma mistero che implica la presenza dell'infinito. Un'altra manifestazione dell'alterita' e' la filialita' o la paternita' perche' la donna ha difficolta' nel distinguere il figlio da se', mentre vero padre e' colui che distingue il figlio da se' pur sentendolo da se' generato. Le'vinas e' contro l'amore romantico inteso come la fusione di due esseri. Il volto non puo' essere assorbito nella mia identita' e rappresenta l'inizio della rottura con la totalita' perche' la vera unione e' un faccia a faccia, alterita' reciproche che non vengono assorbite o eliminate. La rottura della totalita' e' rappresentata dalla soggettivita' umana, ridefinita da Le'vinas nel volto che esprime il mistero del soggetto. La societa' non sara' mai la somma di soggettivita' fuse nel tutto, ma sara' fondata su una relazione intersoggettiva che non abolisce l'altro, ma ne rispetta il mistero. L'altro e' soggettivita' che trascende la totalita'. L'etica di Le'vinas e' una forte provocazione per chi svilisce il messaggio evangelico dell'amore nell'estensione della propria soggettivita'. Il rapporto con l'altro non e' immediato, ma e' mediato dall'Infinito. Il culmine dell'identita' e' la distinzione, il culmine dell'amore e' l'alterita' personale pienamente realizzata nel rapporto, il culmine della giustizia e' il faccia a faccia con l'altro, che e' tutto cio' che impedisce di ridurre l'altro a me. Per questo Le'vinas puo' affermare che il principio primo dell'etica e' la separazione , ossia il muoversi verso l'altro sentito come altro da se'; occorre considerare sempre l'altro come un fine e mai come un mezzo. Se nel volto dell'altro risplende l' "Eglita'" come traccia dell'Infinito, tuttavia questa traccia non giunge mai a farsi realmente segno di Dio che rimane, percio', assente perche' la traccia sul volto dell'altro e' cancellata come una traccia lasciata sulla sabbia che e' traccia di un passato e di un'assenza. L'essenza viene vista come totalita' che fa di tutte la cose degli oggetti per me, da me utilizzabili e, quindi, apre la prospettiva della violenza, mentre il volto altrui e' il Totalmente Altro da me, e' per se' e, dunque, non manipolabile da me, in quanto segno del Mistero.

L'ETICA DELLA DIFFERENZA
L'opera di Le'vinas e' assillata da cio' che non puo' essere detto. Una comunicazione con l'altro che lo lasci essere altro, senza ridurlo alla comune misura. Ultima grande architettura filosofica del Novecento, quella di Emmanuel Le'vinas e' un'opera compatta, che non consente estrapolazioni, poiche' ogni singolo frammento rinvia al disegno d'insieme. E come se la scrittura sorvegliasse il suo lettore, lo obbligasse a cercare la chiave. Per usare un termine che Le'vinas stesso ha indicato come cifra della propria ossessione, il lettore e' " ostaggio del testo " su cui inavvertitamente si e' chinato. Erede e interlocutore discreto del grande Novecento filosofico, ha nutrito la propria scrittura di scetticismo e gentilezza, l'unico modo di trattare e amare il cuore segreto dell'utopia senza cedere alle lusinghe della grandezza. Scrittura rigorosa, incatenata e paziente. Nessuna concessione agli estetismi tanto cari a buona parte degli epigoni della filosofia heideggeriana. Parole come esposizione, vulnerabilita', prossimita', sostituzione, ostaggio, sono altrettanti distillati di un rigore che non consente abusi, pena il tradimento dell'intenzione profonda che li unisce. Fanno esplodere il linguaggio filosofico dall'interno come gocce d'acqua che ritornano dalla loro congelazione. Conducono la filosofia al punto della sua fissione, costringendola a se' fino alla rottura, all'apertura, che non e' rinuncia, ma rivelazione della pienezza stessa. L'etica della differenza, dell'alterita' che sussiste fra me e il prossimo, e' alla base del pensiero ermeneutico di Le'vinas. Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, e' un rapporto con l'Altro. E' un rapporto prioritario, che, invece, la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l'altro a se', spogliandolo della sua alterita'. Cio' e' stato fatto privilegiando l'essere, cioe' la realta' nel suo aspetto generalissimo, in cui vengono a smarrirsi le differenze, le individualita', che sono, invece, irriducibili le une alle altre. " L'essere e' il non senso: ha senso solo l'esistente, l'uomo ". E l'esistente acquista significato solo in relazione all'Altro, cioe' attraverso una comunicazione interumana nella quale l'Altro non viene assimilato a me. Dell'Altro non ci si puo' appropriare in alcun modo, l'Altro irrimediabilmente mi sfugge perche' non ha alcun comun denominatore con me. Il volto dell'Altro, degli Altri, e' al di la' dell'immagine che di loro mi faccio.

IL SENSO DELLA VITA
Le'vinas cerca di accordare le tradizioni della Bibbia e della filosofia. Se esse non si sono conciliate e' perche' ogni pensiero filosofico si fonda su esperienze pre-filosofiche come, per lui, e' stata la lettura della Bibbia, il cui miracolo e' il confluire di letterature diverse verso uno stesso contenuto essenziale. Il polo di questa influenza e' l'etica e, in questo modo, la verita' etica e' comune. La religione non e' identica alla filosofia, la quale non necessariamente offre le consolazioni che puo' dare la religione. Il filosofo si deve porre accanto alle cose senza illusione, rispettando la loro oggettivita' (sono altro da me). Per chiarire dove nasce l'esistente, Le'vinas analizza la nozione di "il ya" che e' l'essere in generale. L'esistente esce dall'esistenza, il sensato prende vita spezzando la neutralita' dell'essere. " L'essere e la realta' sono puro non senso, chi ha senso e da' senso e' l'esistente, l'uomo "; in quest'ottica si puo' scorgere sullo sfondo il pensiero di Heidegger che vedeva l'uomo come l'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere. Una corretta impostazione di questo problema, richiede una esplicitazione preliminare di quell'ente che si pone la domanda sul senso dell'essere, e questo ente e' da Heidegger indicato col termine di Esserci (Dasein). L'uomo, considerato nel suo modo di essere, e' Da-Sein, esser-ci; e il "ci" (da) sta ad indicare il fatto che l'uomo e' sempre in una situazione, gettato in essa, e in rapporto attivo nei suoi confronti. L'Esserci, cioe' l'uomo, non e' soltanto quell'ente che pone la domanda sul senso dell'essere, ma e' anche quell'ente che non si lascia ridurre alla nozione di essere. Le cose sono diverse l'una dall'altra, ma tutti sono oggetti posti davanti a me: l'uomo non puo' ridursi ad un oggetto puro e semplice del mondo; l'Esserci non e' mai una semplice presenza come le cose, giacche' esso e' proprio quell'ente per cui le cose sono presenti. Il modo di essere dell'Esserci e' l' esistenza , l' "essenza" dell'Esserci consiste nella sua esistenza, e l'essenza dell'esistenza e' data dalla possibilita' da attuare e, di conseguenza, l'uomo puo' scegliersi perdendosi o conquistandosi. Cio' detto, l'uomo che si trova a dover decidere della propria vita, conosce la disperazione della solitudine o dell'isolamento nell'angoscia. Secondo Le'vinas, il fatto di essere e' quanto di piu' privato ci sia, l'esistenza e' la sola cosa che non posso comunicare perche' la posso raccontare, ma non condividere. La solitudine appare come lo stesso evento di essere:
" siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo relazioni. Siamo con gli altri con la vista, con il tatto, con la simpatia, con il lavoro in comune. Io tocco un oggetto, vedo l'altro, ma non sono l'altro. Tra esseri ci si puo' scambiare tutto tranne l'esistere ".

DIFFERENZA DEI SESSI
Si affaccia nel pensiero di Levi'nas anche la riflessione su quella alterita' che e' rappresentata dalla donna , talvolta in alcuni suoi tratti tradizionali, ma anche arrivando a rovesciare la valutazione delle tradizionali categorie di virilita' e femminilita': la virilita' e' il simbolo del soggetto che non vuole farsi alterare dall'Altro, la femminilita' e' liberazione da questo senso di proprieta' e di chiusura. Si delinea, cosi', quella riflessione sulla differenza dei sessi che e' uno dei temi piu' recenti e complessi del pensiero. Gli "esseri" non si possono scambiare l'esistenza, ma entrano in rapporto tra loro in vario modo. La prima figura di relazione con gli altri, e' l' eros , nel quale si esalta un'alterita' tra esseri che non si limita ad una semplice alterita' erotica. Il femminile e' l'origine del concetto stesso di alterita' che non scompare nella relazione amorosa. " La differenza di sesso non e' la dualita' di due termini complementari. Infatti, due termini complementari suppongono un tutto preesistente. Ora, dire che la dualita' sessuale suppone un tutto, significa porre gia' prima l'amore come fusione e, dunque, come annullamento dell'ego. " Al contrario, il patetico dell'amore consiste in una insormontabile dualita' degli esseri, e' una relazione con cio' che sempre si sottrae, un faccia a faccia, appunto, un aut-aut. La relazione non neutralizza l'individualita', ma la conserva. La seconda figura di relazione con gli altri, e' quella della filialita'. Quella biologica e' solo il primo tipo, ma se ne puo' concepire uno come relazione tra esseri umani, senza legami di parentela. " La paternita' e' una relazione con un estraneo che, pur essendo altri, e' me, il figlio non e' opera mia, egli non e' neppure una mia proprieta'. Io non ho mio figlio, io sono, in qualche modo, mio figlio. Egli e' un io, e' una persona ".

IL MULTICULTURALISMO
Il riconoscimento dell'Altro viene da Levi'nas ricondotto alla fede , poiche' l'Altro, con la sua irriducibilita' e alterita', e' la rivelazione dell'infinito, dell'infinita alterita', che pure e' presente e ci ispira, anche se non si svela compiutamente a noi. Levi'nas contrappone Rivelazione biblica a Ossessione dell'essere : e' la prima a consentirci di riconoscere l'Altro come tale, con una sua totale autonomia, un suo compiuto orizzonte di senso. Essa ci impone di non ridurlo a noi stessi con un uso totalizzante delle nostre categorie interpretative. Ma la relazione all'Altro, oltre che fondata sulla fede, ha anche una connotazione etica: l'irriducibile alterita' dell'Altro e' quella, ad esempio, che ci impone di non uccidere o alimenta, quando lo facciamo, un perenne rimorso della coscienza. Ecco perche' la relazione e la responsabilita' che abbiamo nei confronti dell'Altro sono una dimensione costitutiva di noi stessi. Per diversi studiosi, la riflessione di Levi'nas sull'Altro costituisce uno dei fondamenti teorici del multiculturalismo contemporaneo, suggerisce, cioe', una visione nuova e diversa dei rapporti fra gli individui e fra le culture: come rapporti fra diversi, che come tali vanno riconosciuti e valorizzati. Solo attraverso questo riconoscimento e' possibile attivare una comunicazione autentica fra le culture, senza affermazioni egemoniche di una sull'altra. Questa e' una prospettiva feconda, attraverso cui, ad esempio, e' possibile guardare in modo nuovo ai problemi di rapporti fra le culture che vengono a determinarsi con i processi migratori in atto su scala planetaria. Il pensiero di Emmanuel Le'vinas si e' sviluppato, quindi, su due versanti privilegiati: l' esercizio fenomenologico di cui e' stato tra i primi rappresentanti in Francia e le letture talmudiche , ispirate a temi biblici ed ebraici. Partendo da Heidegger, Le'vinas rimette in questione il primato del problema dell'essere, dominato dal principio di totalita', per cercare nell'appello dell'alterita' il fondamento di una soggettivita' autentica. In questa preminenza dell'etica, nella parte piu' interna della quale si incontra il principio dostoevskiano della responsabilita' universale, l'essere responsabili di tutto verso tutti, Le'vinas ritrova il tema della Legge, centrale nel pensiero ebraico.

VOLTARE LE SPALLE A PARMENIDE
" II vero Desiderio e' quello che il Desiderato non sazia ma rende piu' profondo. E'bonta'. Non si riferisce a una patria o a una pienezza perdute, non e' la malattia del ritorno e neppure nostalgia. E'la mancanza nell'essere che gia' e' in modo compiuto e a cui non manca nulla " ("La traccia dell'altro"). " Si tratta di uscire dall'essere per una nuova via ", scrive Le'vinas nel 1935 ("De l'evasion"). " Voltare finalmente le spalle a Parmenide ". Come ha scritto Derrida, il pensiero di Le'vinas ci invita ad abbandonare il luogo greco, e forse il luogo in generale, verso cio' che non e' piu' nemmeno una sorgente o un luogo ma una "respirazione", una parola profetica gia' effusa non solo a monte di Platone, non solo a monte dei presocratici, ma al di qua di ogni origine greca. Sullo sfondo di questo proposito, discreta ma decisiva, vi e' l' opzione tutta ebraica per il monoteismo . Levinas non accetta il panteismo cosmico che muove l'intera parabola del pensiero greco, nel quale il computo degli esseri torna uguale e perfetto, senza che nulla vada veramente perduto e senza che nulla di nuovo accada davvero. Si chiede se non vi sia proprio in questa positivita' priva di ferite un qualche male. L'angoscia di fronte all'essere, l'orrore dell'essere e' forse tanto originaria quanto l'angoscia di fronte alla morte. L'essere in generale e' la vera prigione; ad esso Le'vinas da' il nome di "il ya", il puro c'e', compatto e inestinguibile, che ritorna anche in seno alla propria negazione. Cio' che nel pensiero di Heidegger si definiva come l'abbraccio che raccoglie e dispone ogni cosa nella propria luce, rivela ora le fattezze soffocanti, spersonalizzanti e invasive della notte. Di fronte a quest'oscura invasione siamo esposti, non e' piu' possibile raccogliersi in se', rientrare nel proprio guscio. Siamo di fronte al c'e', al naufragio del tempo, all' Universo che nessun volto illumina. Una delle caratteristiche del pensiero di Le'vinas e' la tendenza continua all'evasione dalla neutralita', dall'anonimato, da se stessi come "essere generale". In questo modo egli reinterpreta l'immagine dell'ebreo errante come figura ontologica. Nell' "uscir fuori di se'" l'uomo incontra l'Altro. Dalla inevitabilita' dell'incontro con l'altro e dal superamento dell'estraneita' deriva la centralita' dell'etica. Le'vinas osserva che il monoteismo segna un momento di rottura nella storia del sacro e che nei confronti del precedente politeismo esso e' una forma di negazione ateistica. Il monoteismo e' anche una manifestazione d'intelligenza che lo avvicina alla filosofia.
" Il monoteismo giudaico non esalta una potenza sacra, un numen che trionfi su altre potenze numinose, ma che partecipi ancora della loro vita clandestina e misteriosa. Il Dio dei giudei non e' sopravvivenza degli de'i mitici. Secondo un apologo Abramo, il padre dei credenti, sarebbe stato figlio di un mercante d'idoli. Approfittando dell'assenza di Tereh, li avrebbe tutti spezzati, risparmiando il piu' grande di essi per attribuirgli, agli occhi del padre, la responsabilita' del massacro. Ma Teher al suo ritorno non puo' accettare questa versione fantastica: egli sa che nessun idolo al mondo potrebbe distruggere gli altri. Il monoteismo segna una rottura con una certa concezione del sacro; non unifica ne' gerarchizza gli de'i numinosi e numerosi; li nega. Rispetto al divino ch'essi incarnano, non e' altro che ateismo. Su questo punto il giudaismo si sente estremamente vicino all'Occidente, voglio dire alla filosofia. Non e' semplicemente un caso che la via verso la sintesi fra rivelazione giudaica e pensiero greco fosse magistralmente tracciata da Maimonide, cui si richiamano i filosofi giudei e musulmani; che un profondo rispetto per la sapienza greca riempisse gia' i sapienti del Talmud; che l'educazione per il giudeo si confonda con l'ispirazione e che l'ignorante non possa essere realmente religioso! E sono frequenti curiosi testi talmudici che cercano di presentare la natura della spiritualita' d'Israele come costituita dalla sua eccellenza intellettuale: non certo per orgoglio luciferino della ragione, ma perche' l'eccellenza intellettuale e' interiore, e i "miracoli" ch'essa rende possibili non feriscono la dignita' dell'essere responsabile, come invece fa la taumaturgia; ma soprattutto perche' non deteriorano le condizioni dell'azione e dello sforzo. Da cio' deriva in tutta la vita religiosa giudaica l'importanza dell'esercizio dell'intelligenza, certo, applicata in primo luogo al contenuto della rivelazione, alla Torah. Ma la nozione di rivelazione e' destinata ad ampliarsi rapidamente, sino a comprendere tutto il sapere essenziale. Un apologo rabbinico rappresenta Dio che insegna agli angeli e a Israele; in questa scuola divina gli angeli (intelletti senza debolezze ma senza malizia) domandano a Israele, posto in prima fila, il senso della parola divina. L'esistenza umana, malgrado l'inferiorita' del suo rango ontologico, a causa di questa inferiorita', di cio' ch'essa implica di tormentato, di inquieto e di critico, e' il vero luogo in cui la parola divina incontra l'intelletto e perde il resto delle sue virtu' che si pretendono mistiche. Ma l'apologo intende anche insegnarci che la verita' degli angeli non e' di specie diversa dalla verita' degli uomini, che gli uomini hanno accesso alla parola divina senza che l'estasi debba strapparli alla loro essenza, alla loro natura umana. " ("Difficile liberta'")

CIO' CHE NON PUO' ESSERE DETTO
" Dall'esistenza all'esistente " e' stata scritta nel 1947. Di quest'opera non si comprendera' nulla se non la si illumina con il "sole nero" che ha coperto l'Europa tra il 39 e il 45, dove la semplice positivita' autoevidente dell'esistere e' stata scossa per sempre, ha visto svanire il suo diritto. La notte di Le'vinas e' l'irrimediabile ripercussione filosofica " dei cerchi concentrici di Notte e Nebbia " (Neher) che ancora oggi soffocano la memoria dei sopravvissuti al paese delle ombre. Tutta l'opera di Le'vinas e' assillata da cio' che non puo' essere detto . E non per dirlo, finalmente, piegandolo alle condizioni del linguaggio, ma per ricomprendere l'intero compito del linguaggio e della parola a partire da cio' che inevitabilmente vi si sottrae. Una comunicazione con l'altro che lo lasci essere altro, senza ridurlo alla comune misura. Un cammino che, obbediente all'intenzione ebraica del "dabar", che assieme significa "parola" ed "evento", ci conduca verso una patria nella quale non siamo mai nati. Nessun ritorno all'origine, dunque, nessuna ricomposizione, ma esodo, partenza, destituzione della sovranita' di un soggetto che conosce e dispone e che, nella sua originaria liberta', dice e pensa ogni cosa a partire da se', come se avesse assistito alla creazione del mondo e alla propria stessa nascita. Generalmente si affronta il pensiero di un filosofo attraverso l'enucleazione dei suoi temi, ma e' proprio questo che in Le'vinas risulta impossibile. L'unico suo interesse e' nella costruzione di un pensiero e di una scrittura che si lascino sollecitare da cio' che resiste alla coscienza e al suo movimento appropriante.

IL VOLTO E' LA VERA FRATTURA
Prima di ogni avventura speculativa, e' nell'incontro con l'altro che si fa strada l'idea dell'infinito. Evento a cui Le'vinas da' il nome di visage, volto . Anche nella distanza invalicabile delle culture, l'altro e' cercato nel suo volto e in questa prossimita' la relazione si gioca. Il volto e' la vera frattura nel territorio unificato e reso disponibile dalla conoscenza e dalle armi. Con esso avanza l'indisponibile per eccellenza. Lo sguardo e' conoscenza e percezione. La relazione col volto puo' essere dominata dalla percezione, ma cio' che e' specificatamente volto, e' cio' che non vi si riduce. Anzitutto c'e' la sua esposizione diretta, senza difesa nella quale appare la sua nudita' dignitosa. E' proprio il volto che inizia e rende possibile ogni discorso ed e' il presupposto di tutte le relazioni umane. L'altro non e' un dato che viene afferrato quasi mettessimo le mani su di lui. L'altro mi guarda e mi riguarda e si disfa dell'idea che di lui ho in mente. Scrive Le'vinas in " Totalita' e Infinito ": " Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l'Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualita' che formano un'immagine. Il volto d'Altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa l'immagine plastica che mi lascia ". Il volto dell'Altro ha significato di per se', si impone al di la' del contesto fisico e sociale: il senso del volto non consiste nella relazione con qualcos'altro, esso e' senso per se'. Si puo' dire che il volto non e' visto. Esso e' cio' che non puo' diventare un contenuto afferrabile dal pensiero; e' l'incontenibile, ti conduce al di la'. Il volto dell'Altro ti viene incontro e ti dice: "Tu non ucciderai". Nonostante il divieto puo' esserci l'assassinio, ma la malignita' del male riapparira' nei rimorsi della coscienza dell'assassino, nell'accesso al volto c'e' anche un accesso all'idea di Dio. Il volto e' responsabilita' per Altri: il volto dell'Altro entra nel nostro mondo; esso e' una visitazione; e' responsabilita': esso mi guarda e mi riguarda. Il volto d'Altri mi impone un atteggiamento etico: " e' il povero per il quale io posso tutto e al quale devo tutto ". E' cosi' che il volto si sottrae al possesso; il volto dell'Altro, afferma Le'vinas, " mi parla e mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita ". Il volto dell'Altro, dunque, mi coinvolge, mi pone in questione, mi rende immediatamente responsabile. La responsabilita' nei confronti dell'Altro viene a configurarsi, nel pensiero di Le'vinas, come la struttura originaria del soggetto. Fin dall'inizio, " l'estraneo che non ho ne' concepito, ne' partorito, l' ho gia' in braccio ". La mia responsabilita' nei confronti dell'altro arriva fino al punto che io mi debba sentire responsabile anche della responsabilita' degli altri.

LO STATO E LA GIUSTIZIA
Questo comporta la costruzione delle istituzioni e anche dello Stato. Difatti, scrive Le'vinas, " l'Altro per il quale sono responsabile puo' essere il carnefice di un terzo che e' anche il mio Altro " . Di qui la necessita' di una giustizia, e dunque delle istituzioni e dello Stato. Ha detto Le'vinas in un'intervista: " se noi fossimo stati in due, nella storia del mondo ci saremmo fermati all'idea di responsabilita', ma dal momento in cui ci si trova in tre, si pone il problema del rapporto tra il secondo ed il terzo. Alla carita' iniziale si aggiunge una preoccupazione di giustizia e quindi l'esigenza dello Stato, della politica. La giustizia e' una carita' piu' completa ." Per Le'vinas, quindi, la responsabilita' e' responsabilita' per altri ed e' alla base della soggettivita' per quel che non e' fatto mio e che non mi riguarda. Il legame con altri si stringe solo con la responsabilita', sia che questa sia accettata o rifiutata perche' io sono responsabile di altri senza aspettare il contrario, perche' l'inverso riguarda loro. Siamo responsabili delle persecuzioni che subiamo perche' sopportandole e combattendole, senza scappare da esse, ma rendendosene testimoni, reclamiamo giustizia per il "proprio popolo". La giustizia ha senso soltanto se conserva lo spirito del disinteresse che anima l'idea della responsabilita' per l'altro uomo. La responsabilita' mi incombe e non la posso rifiutare, preme su di me attraverso lo sguardo altrui che non posso deificare come frammento della Totalita'. " Nessuno, in questo momento puo' dire: ho fatto tutto il mio dovere ". Questa affermazione e' un'apertura all'infinito perche' significa che siamo volti in costante tensione verso la realizzazione della nostra testimonianza di responsabilita' per Altri. La testimonianza etica e' una rivelazione che non e' una conoscenza perche' il testimone agisce per propria volonta' e con l'affermazione "Eccomi!", testimonia il suo aver risposto davanti agli altri e per gli altri. In " Altrimenti che essere o al di la' dell'essenza ", Le'vinas giunge a vedere nella responsabilita' per l'Altro " un'assegnazione a rispondere dell'Altro, un'espiazione per l'Altro, una sostituzione dell'Altro ". A questo proposito, il Filosofo afferma: " il soggetto e' ostaggio ". " Il termine io significa Eccomi, rispondendo di tutti e di tutto ". Ed e' soltanto attraverso la condizione di ostaggio, scrive Le'vinas, che nel mondo puo' esserci " pieta', comprensione, perdono e prossimita' ". Dietro a questa posizione etica c'e', ad avviso di Le'vinas, Dio: c'e' Dio come ispirazione, quantunque non come svelamento di se stesso, perche' Dio o la sua parola, mi viene all'idea concretamente, davanti al volto dell'altro uomo in cui io leggo il comandamento "Tu non ucciderai". Il divieto scritto sul volto non si puo' considerare una prova dell'esistenza di Dio, ma e' la circostanza in cui la parola di Dio acquista senso. Ed ecco ancora Le'vinas: " io non vorrei definire nulla attraverso Dio, giacche' io conosco l'umano. E' Dio che posso definire attraverso le relazioni umane, non l'inverso. " In Le'vinas, l'etica si fa spia di un Dio presente e irraggiungibile, vicino e differente.





N° Post: 472
Sipolino Fabio
Monday 9th of August 2021 11:34:24 AM



DERRIDA

DIFFERENZA, TRACCIA E SUPPLEMENTO




Nell'analisi genealogica della filosofi'a socratico-platonica, condotta in "La farmacia di Platone", Derrida mostra un'attitudine tipicamente nietzscheana. Ma l'emergenza del tema della scrittura sposta l'attenzione verso un ambito tematico piu' propriamente psicoanalitico: la messa in luce di uno schema familiare, al fondo della cosiddetta metafisica della presenza - schema in cui il logos occupa la posizione del padre - si avvale di tutto un armamentario interpretativo in cui concetti psicoanalitici come "rimozione", "castrazione", "sublimazione", "pulsione di morte", "coazione" ecc. giocano un ruolo di primo piano. L'analisi stessa del testo e' condotta come un tentativo di individuazione di atti mancati, lapsus, mascheramenti, sintomi e brecce che la decostruzione sfrutta per inserirsi in sistemi che a prima vista - diremmo, nei loro "meccanismi di difesa" - appaiono solidi e inattaccabili. Di questa deriva psicoanalitica Derrida aveva dato una chiara anticipazione gia' in "La voce e il fenomeno", scrivendo: " ed e' proprio intorno al privilegio dell'adesso, dall'adesso, che si svolge, in ultima istanza, questo dibattito, che non puo' somigliare a nessun altro, tra la filosofia, che e' sempre filosofia della presenza, e un pensiero della non-presenza, che non e' forzatamente il suo contrario, ne' necessariamente una meditazione dell'assenza negativa, anzi, una teoria della non-presenza come inconscio " ("La voce e il fenomeno"). Questa teoria della non-presenza e' riassunta nel concetto di "traccia". La traccia (e qui Derrida riprende la definizione di Emmanuel Le'vinas) e' " un passato che non e' mai stato presente ", cioe' la dimensione di un'alterita' che non si e' mai presentata ne potra' mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: " con l'alterita' dell'"inconscio" abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati - passati o a venire - ma con un "passato" che non e' mai stato presente e che non lo sara' mai, il cui "avvenire" non sara' mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia e' dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di cio' che e' stato presente. Non si puo' pensare la traccia - e dunque la diffe'rance - a partire dal presente, o dalla presenza del presente " ("La diffe'rance"). Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterita' per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: " e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce "inconsce" (non c'e' traccia "cosciente"), il linguaggio della presenza o dell'assenza, il discorso metafisico della fenomenologia e' inadeguato ". Ed e' infatti proprio questo l'esito principale consentito dalla nozione di traccia: quello di far intendere l'ordine del senso - della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioe' l'insieme stesso della metafisica - come un ordine supplementare, radicalizzando con cio' quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l'impresentabilita' della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come cio' che sta al posto della traccia "originaria", la sostituisce, ne e' insomma la scrittura, cosi' come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in "La scrittura e la differenza", e' la traccia "visibile" dell'inconscio. Questa "logica del supplemento" e' ovviamente impensabile all'interno della logica ("Della grammatologia"): il supplemento supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa "appare". " Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c'e' nessun presente prima di esso, e' quindi preceduto solo da se stesso, cioe' da un altro supplemento. Il supplemento e' sempre il supplemento di un supplemento ". Una tale "logica del supplemento" o della traccia (supplementarita' originaria) e' quindi il "concetto fondamentale" di una nuova scienza (se essa fosse possibile), che Derrida chiama "grammatologia": la grammatologia fa dell'essere dell'ontologia - di "cio' che c'e'" - la traccia di cio' che "non c'e'", che non si presenta ne puo' mai presentarsi; la grammatologia costituisce in breve l'introduzione, all'interno dell'ontologia da sempre dominata dal principio di identita', di una differenzialita' originaria, di uno scarto, di una cesura, che Derrida riassume nella nozione di diffe'rance. Una comprensione della nozione derridiana di diffe'rance - argomento di una famosa conferenza tenuta il 27 gennaio 1968 e poi compresa in "Margini" - non puo' che partire dal suo statuto di "scrittura", dal modo in cui la parola stessa viene scritta, prima e piuttosto che dal suo contenuto "concettuale": la sua "concettualita'" e' anzi tutta nella sua scritturalita'. La diffe'rance e' innanzitutto quel "lavoro" silenzioso che la scrittura opera al di la' di ogni possibile concettualizzazione. Il termine francese usato da Derrida e' volutamente scritto con la "o" anziche' con la -e-, come sarebbe la sua forma corretta (diffe'rence'). Questa "violenza grafica" non ha conseguenze fonetiche percepibili, e percio' intelligibili: con cio' Derrida intende segnare uno scarto dal fonologocentrismo, ovvero dal privilegio del logos nel sistema concettuale dell'Occidente, di cui e' diretta conseguenza - o addirittura causa - l'uso della scrittura fonetica. Privilegio del logos significa: a) privilegio del concettuale, del soprasensibile; b) solidarieta' sistematica tra il concettuale (lo spirituale) e il fonetico (la voce, l'ascolto ecc.); e) centralita' della coscienza nella fondazione della verita' in quanto garante della prossimita' tra il significante e il significato; d) condanna della scrittura in quanto possibilita' di sviamento dalla verita', perche' svincolata o pur sempre svincolabile dalla presenza di una coscienza; e) concezione della verita' come rapporto a un'origine riattivabile; f) determinazione di questa origine come "presenza". Con il suo lavoro "silenzioso", la diffe'rance segna uno scarto rispetto a tutti questi punti, non pero' nella forma di una "opposizione", bensi' di un'alterita' eccentrica rispetto al sistema oppositivo su cui si regola il logocentrismo. Questa eccentricita', e' quella di un alterita' non riconducibile all'identita', o meglio di un "luogo" altro come puo' essere l'inconscio o la "materia". Si tratta di una collocazione che Derrida definisce a come "la voce media" (ne'...ne'...), e che nella parola stessa diffe'rance e' espressa dalla terminazione -ance, propria di parole che, formate sul participio presente, restano sospese tra l'attivo e il passivo. Ma insieme al suo senso grammaticale, e' il senso logico della terminazione media che qui importa: essa corrisponde alla forma indecidibile del "ne'...ne'... ", del tertium datur con cui e scardinata la razionalita' metafi'sica, fondata sui princi'pi di non contraddizione e del terzo escluso. L'indecidibile e' la "logica" stessa del decostruzionismo, un' alogica che anziche' scegliere tra due elementi opposti, appartenenti, per la loro stessa solidarieta' sistematica, a un medesimo ordine concettuale, tende a farli collidere o a intrecciarli in maniera chiasmatica: il chiasma e' la "x", figura dell'incognita e della barratura dell'indecidibile. Da questo punto di vista la decostruzione e' atetica, non approda cioe' a nessuna tesi. La decostruzione della metafisica della presenza non puo' essere piu' radicale: non potendosi esprimere nella forma del discorso letico e apofantico "S e' P" la decostruzione, attraverso l'indecidibile, si richiama a forme di discorso tradizione mente non apofantiche: quelle, come vedremo, dell'invocazione, del giuramento dell'invito, del ringraziamento, del perdono e finanche della preghiera Nella sua medieta', la provenienza terminologica dal participio del verbo diffe'rer allude al doppio significato, a un tempo sincronico e diacronico, di diffe'rance: 1) sincronico: la diffe'rance e' da questo punto di vista una radicalizzazione (e percio' anche una decostruzione) di quel gioco sincronico delle differenze in cui lo strutturalismo saussuriano faceva consistere il significato. " Nella lingua non ci sono termini positivi, ma solo differenze ", scriveva Saussure: e' dal rapporto sincronico tra i vari termini, nel loro gioco differenziale, che si genera l'identita' di un significato (e' noto esemplo di Saussure della lettera "t", che puo' essere scritta in mille modi diversi ma l'importante e' che "non si confonda", cioe' si differenzi dalle altre lettere)- 2) diacronico-, la diffe'rance indica il movimento di "differimento" temporale (ritardo o anticipazione) che disloca continuamente l'origine in un altrove, in un luogo e in un tempo "altri". Anche qui abbiamo a che fare con una radicalizzazione, quella della "differenza ontologica" heideggeriana, che si risolve iperbolicamente, e dunque paradossalmente, nella sua cancellazione: il senso ultimo (il significato trascendentale) non e' "riappropriabile", la differenza resta "assoluta", e percio' cancellata (Derrida si richiama al proposito al concetto hegeliano di "differenza", nella "Scienza della Logica"). Questo espacement (semento in se' privo di significato, ma condizione del significato: Derrida ricorda la funzione della spaziatura nella scrittura) indica quindi allo stesso tempo un differimento temporale e spaziale: cio' che e' percepibile, intelligibile, cosciente ecc. non e che traccia di questo movimento, traccia della diffe'rance. In tal modo Derrida capovolge il sistema logocentrico, facendo del logos la traccia di un'origine perduta e portando m primo piano questo sistema di tracce in quanto scrittura. La scrittura e' la traccia di un'origine assente, differenzialita' pura, traccia che ha cancellato la sua origine come la ricerca della verita' in Nietzsche, cosi' la ricerca dell'origine giunge qui a un esito nichilistico, quello di risolvere o dissolvere il fondamento nel gioco dei rimandi senza termine ultimo. E, questa, quella nozione di "testualita' generale" cui il decostruzionismo di Derrida e' approdato e che ha avuto ampi sviluppi soprattutto in sede di critica letteraria.






N° Post: 455
Sipolino Fabio
Wednesday 4th of August 2021 07:42:27 AM


JACQUES DERRIDA - IL PENSIERO









A cura di Diego Fusaro

www.filosofico.net

Scrivere, significa ritrarsi... dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola... lasciarla parlare da sola, il che essa puo' fare solo nello scritto."

PREMESSA

Un rilievo particolare va fatto sulla "scrittura" di Derrida, poiche' essa e' essenziale per il suo discorso filosofico. La produzione di questo pensatore (si calcola che sino a oggi consti di circa 70 libri e di uno sterminato numero di saggi, per la maggior parte tradotti m moltissime lingue) e' quanto mai varia e veramente inusuale per un filosofo, spaziando m campi estremamente eterogenei e misurandosi allo stesso modo con testi filosofici e letterari (Hegel, Husserl, Heidegger, Nietzsche, Mallarme', Blanchot, Baudelaire Celan ecc).

Ancor piu' sorprendente e' il carattere specificamente testuale di tali scritti, cioe' la loro strutturazione e la loro "materialita'". Derrida stesso, riferendosi ai rapporti di reciproco rimando intercorrente tra i suoi testi, parla di "strana geometria " o di "labirinto" (in "Posizioni"). Il loro carattere innovativo sfiora lo sperimentalismo in testi come "Envois", il cui carattere epistolare e' indissociabile dal "contenuto", o "Tympan" (in "Margini della filosofia") e "Glas", la cui struttura interna non si presta ad una lettura tradizionale: essi si presentano infatti come un innesto di brani che generano un testo ibrido, "mostruoso", al punto che non si sa piu' qual e' il testo principale e quale il commento o la nota. Una tale strutturazione interna ha lo scopo di mettere in discussione quella "linearita' del significante" che costituisce uno degli assiomi principali dello strutturalismo e che risulta strettamente connessa alla scrittura alfabetica e alla concezione occidentale del tempo come successione di istanti-presenti. Derrida e' anzi uno dei filosofi piu' attenti a forme di comunicazione multimediale, che coniugano cioe' diversi mezzi espressivi e comunicativi (parola, immagine, accorgimenti tipografici), che si svolgono su piu' livelli e che sono inseparabili dal medium stesso.

Il suo decostruzionismo incrina quella priorita' dell'intelligibile sul sensibile che tradizionalmente si e' espressa come secondarieta' o addirittura inessenzialita' dello scritturale e del materiale. Piu' che un certo voler-dire (senso, significato o contenuto) e' infatti il come i testi funzionano e sono fatti il tema principale della decostruzione. Cosi', in La farmacia di Platone, egli mette in luce la contraddizione insita nello stesso pensiero di Platone: questi, infatti, da un lato condanna la scrittura, ma dall'altro lato definisce il pensiero come una forma di scrittura nell'anima.

BREVE INTRODUZIONE A DERRIDA

E' certamente uno dei filosofi piu' interessanti del nostro secolo: con Heidegger, Husserl e Lacan, ha contribuito ad una completa rivisitazione dei concetti e delle categorie proprie della filosofia classica occidentale. Alle sue opere, piu' recentemente, si sono ispirati o in qualche modo possono considerarsi vicini, quei pensatori particolarmente interessati al rapporto fra telematica e precarieta' del soggetto. Abbagnano ha scritto che "al centro del progetto filosofico di Derrida troviamo l'idea di una decostruzione della metafisica della presenza che ha caratterizzato la tradizione filosofica occidentale".

Secondo Derrida, infatti, il carattere fondamentale della filosofia occidentale e' il logocentrismo o fonocentrismo, fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall'ultimo Heidegger. A questa tesi, tuttavia, Derrida arriva partendo dall'analisi del rapporto fra la parola o logos, inteso come voce, e la scrittura, anche alla luce del mito raccontato nel "Fedro" di Platone. A suo avviso, nella tradizione occidentale la voce gode di un primato in virtu' del fatto che essa e' percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata e' sempre immanente il logos. La scrittura, invece, e' caratterizzata dall'assenza totale del soggetto, che l'ha prodotta: il testo scritto gode ormai di vita propria. Compito della grammatologia, dove "gramma" e' assunto nel senso originario di lettera scritta dell'alfabeto, e' di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non dal logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di la' del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilita' e leggibilita' illimitata.



Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la diffe'rance, un termine da lui coniato che include i due significati cristallizzati nel verbo "differire". In un primo senso, esso implica che il segno e' differente da cio' di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l'essere a cui esso rinvia c'e' sempre una differenza, uno scarto che non puo' mai essere definitivamente colmato, ma lascia sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicita' delle letture e delle interpretazioni. Ma, in un secondo senso, "differire" significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo: cio' vuol dire uscire dal primato della presenza, che caratterizza il logocentrismo.

La "diffe'rance" equivale ad un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che ascoltano, e' un evento nel senso heideggeriano. Essa e' agli antipodi della identita' e della presenza: per questo, nei testi la verita' non e' originaria ne' unitaria ne' mai totalmente data, ma si trova come disseminata.

E' possibile, dal momento che inevitabilmente siamo entro il linguaggio costruito dalla ragione, andare oltre il logocentrismo e la metafisica della presenza? Secondo Derrida questa strada e' percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria, soprattutto nordamericana.

Derrida non definisce ne' analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione, ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In generale, si puo' dire che la decostruzione sia la messa in opera della "diffe'rance" nella lettura dei testi, ossia l'atto di compiere il processo inverso rispetto a quello che ha portato alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato, che la metafisica della presenza tende a privilegiare, trattando le opere di filosofia come opere di letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su cio' che sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. La decostruzione, piu' che una pratica teorizzabile e ripetibile, e' qualcosa di simile all'esecuzione artistica. Attraverso la decostruzione e', secondo Derrida, possibile che si aprano varchi attraverso i quali intravedere cio' che viene dopo il compimento della nostra epoca, ossia al di la' dell'epoca della metafisica.



Derrida ha ripreso il pensiero di Heidegger risolvendo nello strutturalismo le sue riflessioni su due temi:

Il rapporto tra svelarsi e velarsi dell'Essere
Il rapporto tra destinarsi dell'Essere e linguaggio.
Lo strutturalismo linguistico ha capito che il linguaggio, il discorso e' fatto dalle differenze nel loro sistema di rapporti (che ha dei contenuti ma questo fatto e' secondario in quanto i contenuti sono un aspetto del sistema, l'aspetto variabile: non ci sono discorsi sulla verita'): per lo strutturalismo c'e' il ripetersi infinito dei linguaggi e delle differenze, non una verita' delle frasi. Heidegger ha capito che il linguaggio ed il discorso, soprattutto quello poetico, e' la "casa" del destinarsi dell'essere all'uomo; essere che pero' decide se svelarsi o no nelle varie epoche.

Derrida sostiene invece che tra l'Essere e il linguaggio c'e', come abbiamo visto, un rapporto di "diffe'rance" (Derrida scrive differance: la scrittura corretta del termine francese e' difference: la pronuncia dei due termini e' la medesima, anche se si scrivono in modo diverso). L'essere si "differanza" nel linguaggio, l'Essere si media nel linguaggio, si aliena pero' nel linguaggio, diventa altro da se', si rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verita' si trasforma in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che e' segno, si da' nel linguaggio ma nega di essere quello che e' il linguaggio stesso. Non c'e' dunque nessun linguaggio privilegiato; quello poetico e' equivalente a quello filosofico concettuale anche se e' piu' vivo e meno preciso.

In tutti e due i casi non si puo' dire che il linguaggio ti faccia "arrivare" alla verita' e nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verita' e dell'essere; ci sono solo tracce della verita', c'e' la "differance" dell'essere nelle tracce di se'. La verita' (essere) e' differantesi-differente nel-dal linguaggio. Si sa cio' che il linguaggio dice ma la verita', l'essere e' il non detto del linguaggio. L'essere non si destina all'uomo nel linguaggio, ma si "differanza" nel linguaggio, e cio' di cui il linguaggio e' "traccia" e solo traccia; traccia non e' "niente" - come dice lo strutturalismo - ma non e' nemmeno la cosa, l'Essere, la presenza.



Ma cosa esiste allora? Esiste il parlare, il creare rapporti tra gli uomini e il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo parlare pero' non contiene l'Essere, ma solo le sue tracce. La "grammatica" del testo scritto e' il luogo dove "si aliena" l'Essere: non la "voce" in cui e' meno evidente il "farsi differanza" dell'Essere: ma la "grafia", il "segno scritto", la "scrittura", dove questo "farsi altro" e' piu' "evidente".

Derrida usa il termine "differance" perche' privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a capire il suo significato. La verita'-l'essere non e' nel "testo scritto" ma e' "tra le righe", "nell'interlinea" del testo scritto, nel "non detto" del testo scritto di cui il testo e' la "traccia". Forse, dice Derrida con un altro paragone, noi abbiamo non l'Essere, ma il suo "simulacro", una statua dell'essere, una "parvenza" dell'essere.

In questa situazione, il lavoro del filosofo e' far capire che esiste questo "qualcosa" che e' "fra le righe" del testo, capire che e' "differance" non "Identita'", che e' traccia dell'Essere e non presenza. Il compito del filosofo sara' quello allora di "decostruire" i testi, cioe' smontarli, metterli in crisi, contraddirli. Chi compie quest'opera permette al lettore di capire che in esso non c'e' l'essere, ma l'essere e' oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue "tracce".

In questo modo il filosofo giunge, attraverso il suo lavoro di decostruzione, anche a forme di potere che stanno sotto a certi discorsi fatti passare per veri: decostruire e' anche chiedersi: chi dice una cosa del genere? Da chi e' fatto il discorso che stiamo leggendo? Con che scopo fa questo discorso? A chi giova questo discorso? Decostruire un discorso, "glossarlo", "scrivere nei suoi margini" un commento che lo demolisce, farne la "parodia" e' mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verita' e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo e' per Derrida fare filosofia.

In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verita' e' quello del "colpo di dadi"; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c'e' l'essere (la verita'): ma cosi' facendo conferisci a quel testo un valore veritativo che esso non ha (e il filosofo ha il compito di dimostrartelo). Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perche' non si e' perfettamente coscienti che la verita' e' nello "spazio vuoto", che e' in mezzo a "indecidibili" opposti. E' cosi' o cosa'? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta e' "ne' l'uno ne' l'altro", ma lo spazio che e' tra l'uno e l'altro, la "sbarra" che divide l'opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola "dentro" e la parola "fuori" una "sbarra" trasversale: la risposta e' in "quella sbarra"), l'interlinea, l'indecidibile, il qualcosa che non sopporta la decisione.

Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E' in fondo una forma di "apofantismo" (posizione per cui la verita' non puo' essere detta. Forse la verita' si coglie ma non si puo' dire. E' una forma di "scetticismo", seppure molto "raffinato").

Per una confutazione ("decostruzione") di questo pensiero si puo' adoperare, "raffinandole", le consuete obiezioni per gli scetticismi: anche il dire che l'Essere "si aliena" ("si differanza") ed e' "indecidibile", costituisce un'"affermazione" che implica un'istanza veritativa; anche tematizzare la "differanza" e' un "colpo di dadi"? Anche affermare il "colpo di dadi" come il "vero" modo di tematizzare il venire-dell'-uomo-all'-essere (verita') e' frutto di un "colpo di dadi"? Queste domande pongono lo scettico "post-heideggeriano" di fronte alla "necessita' del pratico", che e' l'istanza ultima anche del "paradosso" di Aristotele ("quando dici che non vuoi filosofare, stai filosofando"): e' inevitabile "agire" (anche quando questo agire e' costituito dal "decostruire" i discorsi che mascherano interessi di potere) e nel "volere" di questo "agire" e' implicito un "affermarne" la "bonta'-verita'", e' implicita - in altri termini - un'"istanza metafisica": a questo non si sottrae, nonostante non lo metta a tema, neppure il neo-scetticismo di Derrida.

Il "colpo di dadi" dice l'atto dell'uomo libero in ordine al verificarsi del "dire e'": ma lo dice in corrispondenza a un non-cogliere l'Essere, a un non-darsi a sufficienza dell'Essere (e cio' e' la sostanza della "differance"): siamo alla denuncia di una presunta persistente sopravvalutazione paradossale dell'atto del soggetto di fronte alla persistente mancanza di realta' del darsi-dell'-Essere: il soggetto "pretende" di colmare la "sufficienza" di un essere che "non-si-da'-sufficientemente". Ma questa concezione e' presentata come "vera", e non come "non-sufficientemente-dantesi".



Anche il modo con cui Derrida mette in relazione concetto e metafora potrebbe essere ripreso e indagato, in direzione dell'enucleazione dello "statuto simbolico" del "darsi-della-verita'" in Gesu' Cristo: Gesu' e' un "simbolo", cioe' una "storia" con un "nocciolo-profondita'" da mettere a tema (ermeneuticamente) "concettualmente" ma che non esaurisce il concetto: l'incontro con la "res" (referenza, aspetto oggettivo, istanza metafisica) avviene anche nella "metafora", in modo piu' vivo e ricco, e viene irrigidita e cristallizzata nel concetto, che precisa ma impoverisce.

L'essere - secondo Derrida - e' stato da sempre considerato come pienamente attingibile grazie al linguaggio, mediante il quale la verita' viene trasmessa da soggettivita' individuale ad una comunita', il che equivale ad oggettivare la verita' stessa. Tuttavia, se la verita' e' evidenza intuitiva - ossia presenza di qualcosa davanti ad una coscienza presente a se stessa - debbono essere ridiscussi sia la struttura dell'esistente che quella della verita' stessa. Quel che ora e' - nella sua finitezza - ovvero il presente, e', in ultima analisi, un nulla differito e il nulla un essere differente.

In opposizione alla tradizione filosofica, che ha fondato la propria attivita' speculativa sull'assunto che esistono coppie concettuali che si risolvono dialetticamente, Derrida propone un'inversione di tale logica: il divenire precede l'essere e il nulla, e solo grazie alla differenziazione possono ri-costruirsi nuove soggettivita'. La de-costruzione, staccate dalle mode che ne hanno fatto un metodo di interpretazione, diventa per Derrida il progetto di un "nuovo, nuovissimo illuminismo ", la costante preoccupazione per l'altro verso e per cui dobbiamo coltivare un'etica dell'ospitalita', ovvero l'apertura verso un avvenire che accade senza essere atteso, ad un dialogo che procede dal rispetto e che pone il tema della differenza come punto imprescindibile di partenza per un incontro fra gli uomini: "come se lo straniero fosse innanzi tutto colui che pone la prima domanda, o colui al quale si rivolge la prima domanda (...); pertanto lo straniero, ponendo la prima domanda, mi mette in questione ".

Ecco il punto cruciale, secondo Derrida, del tema dello straniero, di "colui che viene da fuori", che "parla una strana lingua", che produce inquietudine e sospetto. "Lo straniero e' in primo luogo straniero rispetto alla lingua giuridica nella quale sono formulati il dovere d'ospitalita', il diritto d'asilo, i limiti, le norme, i codici di polizia eccetera ". Il tema dello straniero per Derrida diventa, non solo metaforicamente, l'emblema di un'interrogazione che la societa', ciascuna societa', rivolge a se stessa: "come se lo straniero fosse la questione stessa dell'essere in questione". Grazie allo straniero la societa' non puo' fare a meno di interrogarsi sulla propria cultura, sulla lingua e le istituzioni giuridiche in vigore, in definitiva sul modo con cui attua una legge dell'ospitalita', "coinvolgendo l'ethos in generale". E del resto la parola latina "hostis" significa "ospite" ma anche "nemico". La costellazione semantica, nel suo ambiguo oscillare tra termini opposti (oste, ostile, ospizio, osteggiare...), sembra costituire la trama della nostra identita'.

Ma c'e' anche un secondo aspetto, non meno significativo: le ampie meditazioni di Derrida sulla sepoltura, sul nome, sulla memoria, sulla follia che abita il linguaggio, l'esilio e la soglia, "sono altrettanti segnali rivolti alla domanda del luogo, che invita il soggetto a riconoscere d'essere per prima cosa un ospite". Svolgendo quella che chiama "il teatro invisibile dell'ospitalita'", il filosofo ripercorre alcuni tratti dell'elaborazione di Le'vinas, in particolare quelli in cui afferma che "il soggetto e' un ospite" o che "il soggetto e' un ostaggio". La tesi centrale di Derrida e' che vi e' un'impossibile convivenza, una sorta di lacerazione tra "l'ospitalita' incondizionata che va al di la' del diritto, del dovere o addirittura della politica" e "l'ospitalita' circoscritta dal diritto e dal dovere". In altri termini: "dando per buona l'ospitalita' incondizionata, come dar luogo a un diritto, a un diritto determinato, limitato e delimitabile, in una parola calcolabile?". Il problema dell'ospitalita', conclude l'autore, "e' sovrapponibile al problema etico".

L'AVVENIMENTO DELLA SCRITTURA

Il modello di testo che propone Derrida non e' piu' omogeneo e padroneggiabile dall'autore che lo ha scritto, ma piuttosto strutturato in modo plurale e differenziale, pensabile come un tessuto di tracce e rinvii che ne fanno una manifestazione eventuale, un punto in perpetua trasformazione di un originario movimento di scrittura che impedisce qualsiasi sua riduzione ad una semplice forma di presenza. In realta' il proposito di Derrida sara' proprio quello di mostrare come ogni possibilita' di presenza, di pienezza, di significato appartenga da sempre al movimento della significazione, ovvero a quell'"apertura della prima esteriorita' in generale" che lega costitutivamente ogni presenza alla non-presenza dell'altro, ogni vita alla morte, ogni dentro ad un fuori.

Per comprendere correttamente la sua prospettiva non si dovranno pero' intendere tali termini all'interno di semplici strutture oppositive, che li ricomprenderebbero all'interno di una logica dell'identita', quanto piuttosto si dovra' tentare di pensarli come coppie che si sollevano da quel fondo, da quella "riserva" costituita dal modo di accadere della traccia (che e' gia' doppia, mai semplicemente se stessa, sempre eccedente, rinviante ad altro), dal quel gioco che si crea tra i segni di un testo e che corrisponde al lavoro attivo e supplementare della dif-ferenza, ovvero alla legge strutturale anonima, eccentrica e nascosta che e' sottintesa ad ogni movimento significante.



Al fine di ritrovare tale funzionamento autonomo dell'operazione testuale, Derrida propone cosi' una pratica di lettura che, invece di proteggere i testi e di riconfermarli nella chiusura secolare da cui e' nata la metafisica logocentrica e fonocentrica, li percorra sotterraneamente per aprirli dall'interno, guardando attraverso quella fessura che tali limitazioni, nonostante tutto, lasciano intravedere. L'intero progetto della Grammatologia puo' essere letto come un tentativo di decostruzione di quelle figure concettuali della metafisica occidentale che, formatesi in un preciso momento storico ed organizzatesi tutte attorno alla centralita' di determinati nomi e forme verbali (quali ad esempio prossimita', immediatezza, voce, essere...), hanno assunto nel tempo una consistenza e una solidita' tali da apparire come innocenti descrizioni linguistiche di strutture naturali ed eterne.

Il testo, in particolare, si apre con l'annuncio di un movimento del linguaggio appena percettibile, quello del "significante del significante", della lingua come scrittura, per cui essa, da semplice ed inconsistente doppio, "comincerebbe a debordare l'estensione del linguaggio", a comprenderlo e a contaminare con la sua esteriorita' ogni possibilita' in generale di significato: "L'avvenimento della scrittura e' l'avvenimento del gioco; il gioco oggi si riconsegna a se stesso, cancellando il limite a partire dal quale si e' creduto di poter regolare la circolazione dei segni, e trascinando con se' tutti i significati rassicuranti, costringendo alla resa tutte le piazzeforti, tutti i rifugi del fuori-gioco che vegliavano sul campo del linguaggio".

Tale avvenimento significa innanzitutto l'inizio della delimitazione dell'epoca metafisica, dominata dal privilegio della phone', ovvero da un sistema linguistico che crede nella trasparenza e nella naturalita' della sostanza fonica, nella vicinanza della voce alla presenza piena, e che da tale illusione produce l'idea di un senso esistente anteriormente, che non ha bisogno del significante per essere cio' che e', che puo' "aver luogo", nella sua intelligibilita', prima della sua "caduta" fuori, della sua trascrizione verbale e sensibile.

In tale struttura logocentrica la scrittura (come evidentemente appare nell'ideale della scrittura fonetica) scadeva al ruolo di tecnica rappresentativa, di strumento pratico per la traduzione di una parola piena e pienamente presente a se' e al suo significato. L'operazione di Derrida tentera' di mostrare invece come non solo tale concetto di scrittura abbia una portata storicamente limitata all'epoca della nostra cultura onto-teologica, ma che costituisca anzi la condizione stessa della possibilita' dell'apparire e del mantenersi di tale epoca, "che si avvicinerebbe ora a cio' che e' propriamente il suo esaurimento".

Esempio illuminante che testimonia questo stato dei fatti e' quella che Derrida chiama "la morte della civilta' del libro": l'idea del libro e' infatti quella di un luogo che riunisce in una presenza simultanea la totalita' del significante, che puo' essere tale solo a patto che gli preesista una totalita' di significato ("il libro della natura" o di Dio) che ne regoli cosi' la sua iscrizione; e' con tale operazione di "protezione enciclopedica" che l'epoca logocentrica si e' opposta all'"energia dirompente, aforistica della scrittura", si e' garantita cioe' la possibilita' della sua stessa sopravvivenza. "Ma se il Libro fosse solo, in tutti i sensi dell'espressione, un'epoca dell'essere... se la forma del libro non dovesse piu' essere il modello del senso?", solo in tal modo potrebbe farsi strada la possibilita' di un illeggibilita' radicale, originaria, non piu' in relazione ad una leggibilita' perduta o non trovata, ma anteriore alla stessa epoca del libro.

L'annuncio della distruzione del libro rientra nel piu' ampio proclama della "morte della parola", della scomparsa "del primo significante", del privilegio dell'espressione orale come luogo di produzione dei primi simboli "in prossimita' assoluta con l'essere", nelle vicinanze immediate con un senso interamente leggibile, e che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione.

Il modello di questo logos puro e naturale e' contemporaneo all'epoca teologica, "il segno e la divinita' hanno lo stesso luogo e tempo di nascita": come il verbo divino e' parola assoluta di una soggettivita' creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, cosi' il linguaggio della metafisica, anche se espresso tramite un soggetto umano e finito, disponendo della voce come significante puro, e' ancora pensabile in un rapporto immediato con il senso. Quando poi, al momento dei grandi razionalismi del XVII secolo, si costituira' l'idea di una soggettivita' come presenza assoluta a se', come coscienza intuitiva che avviene nell'evidenza di se', tale logos corrispondera' alla voce interiore della coscienza che intende se stessa, all'espressione spontanea della propria verita' ed interiorita' che non trae dal di fuori nulla, e che fonda percio' la possibilita' di un'esperienza originaria di un significato che si produce in un'ideale cancellazione del significante: "nella chiusura di quest'esperienza la parola e' vissuta come l'unita' elementare e indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una sostanza d'espressione trasparente".

Di contro a questa parola se-dicente, ad un "logos che crede di essere padre di se stesso", parola della vita (interiore) che sfugge al movimento del segno, la scrittura appare sempre seconda, istituita, "lettera morta e portatrice di morte", scrittura "del di fuori", perversa ed artificiosa, esiliata nell'esteriorita' del corpo e delle passioni, ovvero in quel luogo ove si sono emarginate tutte le minacce all'unita' del senso.

Sulla scorta del pensiero nietzscheano, Derrida vede invece nella scrittura (e nella lettura) un'operazione "originaria" nei confronti del senso (il che non vuol dire, per semplice inversione, "che il significante sia ora fondamentale o primo"), il rischio permanente che minaccia di "spezzare il nome", di immobilizzare nella ripetizione della lettera la creazione spirituale nella parola, di interrompere con uno sdoppiamento l'unita' privilegiata e immediata del suono e del senso nella voce.

Benche' infatti l'intenzione dichiarata dell'ideale di scrittura fonetica sia evidentemente quella di proteggere "l'integrita' del "sistema interno" della lingua" dall'esteriorita' della notazione, dal pericolo della raffigurazione, di fatto succede che essa da sempre non vi riesca: "quel modello particolare che e' la scrittura fonetica non esiste; mai una pratica e' fedele in modo puro al suo principio". Il fuori, cio' che dovrebbe rappresentare l'accidentale, l'inessenziale rispetto al dentro, alla logica interna ed interiore della parola, viene in realta' spesso analizzato con accenti che tradiscono una paura ingiustificabile verso cio' che dovrebbe solamente aggiungersi in modo esteriore ad una lingua inalterabile ed indipendente nella sua essenza.

Il "vestito" della parola si trasforma cosi' in travestimento, intrattenendo un rapporto con la sostanza che ri-copre, "che e' tutto meno che di semplice esteriorita'", producendo piuttosto una serie di ambigui e al tempo stesso seducenti effetti di "inversione e perversione" tra immagine e cosa, tra grafia e parola, tra significante del significante e significante del significato: "in questo gioco della rappresentazione, il punto d'origine diventa inafferrabile"; la "perversione" di questo rincorrersi di rimandi risiede proprio nell'allontanare indefinitamente la possibilita' di risalire chiaramente alla fonte e nel lasciar invece apparire solo l'avvicendarsi dei rinvii di specchi che sdoppiano in se stessi cio' che riflettono, facendo perdere la semplicita' e la singolarita' della sorgente.

Il punto e' che per Derrida "l'usurpazione ci rimanda necessariamente a una profonda possibilita' d'essenza", mettendoci ormai nella situazione di intravedere come tale operazione di inversione e di disseminazione non appartenga solo alla scrittura, non colga indebitamente, pervertendolo, l'ordine "naturale" di un linguaggio puro ed innocente, ma costituisca il modo di accadere proprio di ogni significanza: "la scrittura non e' segno di segno, salvo dire questo, il che sarebbe piu' profondamente vero, di ogni segno".



Una volta preso atto di quella che Saussure denomina l'"arbitrarieta' del segno", dell'istituirsi immotivato e convenzionale di uno spazio di iscrizione e distribuzione di differenze regolato da leggi autonome, si dovrebbe ormai essere nelle condizioni di escludere ogni possibile gerarchia o privilegio tra ordini di significanti. Superata la nozione di segno come immagine, come figura legata da rapporti di somiglianza con cio' che rappresenta, e quindi chiarito il funzionamento della lingua e della scrittura facendo riferimento alla capacita' autonoma di sostenersi propria dei sistemi di segni, dovremmo ora esser nelle condizioni storiche di ammettere la "possibilita' di un sistema totale di segni", in cui il collegamento tra significanti non e' piu' modellato sul legame lineare che univa il suono al senso, ma avviene attraverso una "rete pluridimensionale" di rimandi, e lo apre cosi' ad essere investito da ogni direzione possibile di ogni possibile senso.

Da qui il ricorso di Derrida alla nozione di traccia istituita per decostruire il concetto logocentrico di segno, e per offrirci un punto di vista non piu' fonocentrico entro cui elaborare un modo per concepire l'accadere della scrittura. La traccia e' in primo luogo immotivata, il che non significa che sia in balia dell'uso dei singoli soggetti parlanti, ma semplicemente che non ha "nella realta' alcun 'aggancio naturale' col significato", ovvero che non e' vincolata da alcun legame che, in maniera necessaria, sicura, univoca, le assicuri un unico modo di rinviare ad una presenza unitaria. Essa rappresenta la possibilita' dell'annunciarsi del "totalmente altro" come tale, cioe' dell'accadere, in cio' che non e' esso stesso, di qualcosa il cui modo di esistere e' "senza alcuna semplicita', alcuna identita'..".

La differenza, infatti, per apparire come tale, non puo' mai presentarsi in maniera piena, ma solo nella dissimulazione del suo "come tale", ovvero attraverso una struttura di rimando in cui si segna il rapporto all'altro non disponendosi nella presenza del significato, ma piuttosto nel differimento, ovvero nel modo proprio della traccia.

In questo movimento del differire, la peculiarita' del significante e' quello di prodursi incessantemente come struttura di rinvio, di distrarsi continuamente da se', di non essere mai prossimo, vicino, nella pienezza di se'. "Cio' che inaugura il movimento della significazione e' cio' che ne rende impossibile l'interruzione. La cosa stessa e' un segno": per Derrida una volta inaugurata la possibilita' del senso, esiste solo il differimento dei segni, ovvero il gioco di rinvio di strutture doppie che funzionano solo in una rete di infinite potenzialita' di significazioni, mai nella semplicita' dell'evidenza intuitiva, nell'esperienza fenomenologica della forma pura della presenza.

Una volta chiarito da Saussure come la condizione del "valore linguistico", ovvero del potere di significazione del segno, risieda nel suo carattere differenziale, nel suo apparire solo entro una struttura di opposizioni, e superato a partire proprio da questa stessa direzione il pregiudizio fonocentrico, Derrida puo' suggerire, attraverso la nozione strategica di traccia, l'ipotesi di un linguaggio che sia sempre stato nelle condizioni della scrittura, segno di segno e mai parola piena. Ed e' in tale scrittura totale (o archiscrittura) che si dovra' vedere la possibilita' generale di ogni movimento di significazione, di ogni articolazione differenziale tra i segni e di ogni rapporto all'altro.

D'altra parte, il pensiero della traccia come "origine assoluta del senso", come "dif-ferenza che apre l'apparire e la significazione", ma che e' essa stessa gia' da sempre in posizione di traccia, mai semplice presenza di senso, equivale anche al dire che non c'e' alcuna origine assoluta del senso, alcun fondo anteriore, esistente solo come presenza piena e sottratto alla condizione del rinvio ad un passato, ad un qui-da-sempre, che la traccia ritiene sempre in se': "lo strano movimento della traccia annuncia tanto quanto ricorda".

Non potendo percio' ricorrere a concetti metafisici organizzati tutti sulla semplicita' e sull'omogeneita' della presenza, si mostra come l'accadere della struttura della traccia non potra' prestarsi ad alcuna descrizione scientifica e positiva, a meno di tradirne la sua radicale passivita', il suo rapporto costitutivo ad un passato assoluto che non potra' mai essere restituito all'evidenza della presenza.

Un altro modello utile ad illustrare l'accadere decentrato di un linguaggio non piu' dominato dal privilegio della voce e' per Derrida quello offerto dalla "scrittura teatrale", visiva, immaginifica dei sogni: la parola, infatti, riveste nella sintassi onirica un ruolo paritetico agli altri elementi della messa in scena, ridiventando un gesto, un segno corporeo che non fa piu' da semplice tramite per un concetto, ma che si impone come una forma dotata di una fisicita' che puo' avere un volume, effetti seduttivi ed emanazioni sensibili.

Tale scrittura psichica, piu' simile ad una geroglifica che ad una fonetica, e' scrittura originale, primaria, irriducibile nel suo funzionamento a subordinata e posteriore trasposizione di una parola viva e piena, comportando aspetti ideogrammatici, pittografici, pluridimensionali e visivi che nella linearita' della parola orale, della "catena parlata", tendono ad appiattirsi, fino a scomparire.

Anche dalla radicalizzazione di questo modello, dal decentramento rispetto alla metafisica della presenza in cui e' ancora immerso, per Derrida si offre indirettamente la possibilita' di attingere al senso di ogni scrittura in generale come a quello di un movimento della traccia, che, pur operando con elementi comunque codificati (lungo il corso di una storia individuale e collettiva), e' costitutivamente cancellazione di se', non permette di essere avvicinata da alcun codice di lettura che la esaurisca.

Ogni segno, verbale o non-verbale, puo' funzionare infatti a diversi livelli, entrando in configurazioni che non sono "prescritte" da una sua essenza, ma che scaturiscono dal gioco incessante della differenza, dal suo essere preso in una rete pluridimensionale di rimandi percorribile in direzioni non prestabilite.

I segni cosi' appaiono articolati come degli "indovinelli figurati", come dei rebus mai leggibili a partire da una chiave interpretativa universale; cosi' come avviene per colui che sogna, ogni esperienza inconscia "inventa la propria grammatica", "produce i propri significanti", introducendo nelle sue operazioni un "residuo puramente idiomatico", un "corpo verbale" che inaugura ogni volta una nuova significanza e limita cosi' definitivamente ogni possibilita' di traduzione. Essendo quindi la materialita', il corpo dell'espressione verbale a lavorare ed agire nel sogno, ad imporsi e a non lasciarsi attraversare o trascurare a favore del significato (come avviene invece nel discorso cosciente), appare chiaro come qualsiasi sua traduzione completa sia impossibile, dovendo ogni passaggio ad un altro significante lasciar cadere proprio il corpo all'opera.

Messe in relazione al soggetto parlante, la passivita' della traccia e la sua struttura differenziale ci rimandano all'incoscienza fondamentale del linguaggio, al radicamento della parola cosciente nella lingua che la eccede e la costituisce; ma per evitare il semplice rovesciamento di una metafisica della soggettivita' in una speculare "metafisica della scrittura", Derrida sottolinea che "Costituendolo e dislocandolo ad un tempo, la scrittura e' altro dal soggetto, in qualsiasi senso lo si intenda. Essa non potra' mai essere pensata sotto al sua categoria; in qualsiasi modo modificata, sia essa affetta in modo cosciente o inconscio, essa sara' legata, per tutto il filo della sua storia, alla sostanzialita' di una presenza impassibile sotto gli accidenti, o all' identita' del proprio nella presenza del rapporto a se'".



Per descrivere la situazione di un soggetto che e' consegnato a un linguaggio che continuamente lo disperde e' esemplare, a questo proposito, per Derrida la figura del poeta, l'"uomo della parola e della scrittura" per eccellenza. Egli e' al tempo stesso il soggetto del libro, la sua sostanza e il suo padrone, e il suo oggetto, suo servitore e tema. Mentre il libro e' articolato dalla voce del poeta, il poeta si trova ad essere modificato e letteralmente generato dallo stesso poema di egli cui e' il padre, ma che producendosi si spezza e si piega su se stesso, diventando soggetto in se' e per se': "la scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione".

In questa situazione, l'unica esperienza di liberta' a cui il poeta puo' accedere, la sua "saggezza" consiste tutta nell'attraversare la sua passione, ovvero nel "tradurre in autonomia l'obbedienza alla legge della parola", nel non lasciarsi sopraffare, abbassare a semplice servitore del libro. L'unica forma di liberta' a cui puo' accedere un uomo che appartiene radicalmente, visceralmente ad un tradizione linguistica, sara' allora quella che passa attraverso il riconoscimento dell'essenzialita', della costitutivita' dei propri legami; tale "identificazione" pero', per essere emancipante, non puo' implicare la chiusura, la semplice delimitazione di uno spazio a cui si deve appartenere in maniera esclusiva, quanto piuttosto costituire l'esperienza di un radicamento ad un "laggiu'", ad un "oltre-memoria", ad un altrove che non e' solo un passato assoluto, che e' gia' da sempre stato (e non e' una semplice forma modificata del presente, un presente-passato), irrimediabilmente perduto, ma anche l'apertura della possibilita' di un' avventura a-venire, di una traversata dei segni sempre lontana da qualsiasi forma di prossimita' e vicinanza, da qualsiasi viaggio dalla meta prestabilita e sicura.

Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimita' del senso, occultamento dell'origine piu' che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negativita' e la morte; d'altra parte solo quest'assenza apre lo spazio alla liberta' del poeta, alla possibilita' di un'operazione di inscrizione e di interrogazione che deve "assumere le parole su di se'" e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo "nell'uomo che scruta perche' non si riesce piu' ad udire la voce nell'immediata vicinanza del giardino".

Perduta la speranza di un'esperienza immediata della verita', il poeta si deve affidare al lavoro "fuori del giardino", alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualita' e' la possibilita' di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un'assenza, il poeta non solo si trovera' cosi' a scrivere in un'assenza, ma a diventare soggetto all'assenza, che "tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile". Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore: "Scrivere, significa ritrarsi... dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola... lasciarla parlare da sola, il che essa puo' fare solo nello scritto". Cosi' ogni scrittore, scrivendo, sacrifica la propria esistenza alla parola; ma questo stesso atto e' anche consacrazione dell'esistenza per mezzo della parola.

L'ambiguita' essenziale che sta tra le significazioni, l'assenza che non si lascia inscrivere dalla lettera, irriducibile dall'ordine del discorso o della logica dell'identita', e' per Derrida originariamente necessaria al senso. Pretendere di dire il silenzio che "sottintende" il linguaggio, di riempire il simbolismo vuoto che marca il tempo morto in ogni testo, significa infatti non aver compreso e conosciuto il linguaggio, "il fatto che esso e' la rottura stessa della totalita'", non avere avuto esperienza che cio' che la lettera dice e' nell'"involgersi su di se' del linguaggio", che e' nel vuoto che il linguaggio ottiene la possibilita' di essere significante.

Piu' che sostenuto dal contenuto discorsivo, infatti, e' nella cesura, nell'interruzione - tra le lettere, le parole, le frasi, i libri - nella discontinuita' e nell'inattualita', che il sorgere delle significazioni trova uno spazio di manifestazione, in cui esse vivono grazie alla "morte che si aggira tra le lettere". Se "una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio", e se la scrittura procede aforisticamente, per frammenti, per lapsus, cio' non accade in virtu' di una semplice scelta stilistica o per dichiarare uno scacco, ma perche' solo questa puo' essere la "forma dello scritto", di un movimento che insegue e proviene da un'assenza, da una rottura, da un pensiero su un essere che non e' ne' si manifesta mai esso stesso, non e' mai presente, in questo momento, fuori della differenza.

Derrida, per evidenziare il "movimento di emancipazione" del segno sia rispetto al soggetto parlante che e al contesto, e quindi anche rispetto alla situazione ideale di presenza della voce, introduce il termine spaziatura; la scrittura, prestandosi alla possibilita' di marcare il "tempo morto", disponendo di un simbolismo vuoto (di pause, di punteggiatura, di bianchi...), segna il rapporto originario che lega ogni linguaggio alla morte: "la spaziatura come scrittura e' il divenir-assente e il divenir-inconscio del soggetto".

E'infatti in ogni spaziatura silenziosa o non esclusivamente fonica delle significazioni, in ogni spazio non fonetico, che sono possibili concatenazioni e coabitazioni che non obbediscono piu' alla linearita' del tempo logico, del tempo della coscienza e della "rappresentazione verbale". In quanto rapporto del soggetto alla sua morte, il "movimento di deriva" che costituisce ogni scrittura corrisponde, in ritorno, alla costituzione stessa della soggettivita', come desiderio di una presenza piena a se'.

L'organizzazione della vita si effettua cosi' a tutti i livelli secondo un'"economia della morte", un lavoro di strutturazione e messa in forma dell'esistenza, del presente vivente ad opera di un'assenza originaria. D'altra parte il nome "scrittura" e', segna il gioco di due assenze, funziona cioe' coprendo, occultando propriamente, ovvero in modo dissimulato, due posti vuoti: quello del signatario, del soggetto della scrittura, e quello del referente; di assenze cioe' che, escludendo la pensabilita' e la possibilita' di un significato, interiore o mondano, sprovvisto di significante, "forano il linguaggio", lo costruiscono come una rete di rimandi nel vuoto, aperta, che accade nella discontinuita' e nella ritenzione della non-presenza.

"La traccia affetta la totalita' del segno nelle sue due facce", contamina tutto il linguaggio con la sua struttura di presenza-assenza, di doppio movimento di "protensione e ritenzione": solo nel concatenarsi di differenze e' possibile ora l'apparire del senso, solo in quella scrittura che fugge qualsiasi situazione di stasi o di presenza assoluta, che eccede qualsiasi domanda d'essenza, e che, eppure, "non e' nulla", non e' inesistente o insensata, ma ha comunque una qualche forma di esistenza (che non e' quella della semplice presenza) e permette una qualche forma di senso (che non e' quello pieno, sostanziale ed assoluto della metafisica), "non e' ancora del tutto un segno [separato dalla forza] ma non e' piu' una cosa [che si oppone al segno]".

La traccia non e' piu' cosi' ne' il significante di un significato (non c'e' piu' possibilita' di manifestarsi di un senso fuori del significante), ma neppure l'unico significato di un significante senza significato, di un significante che non ha altra funzione se non quella di significare un altro significante; "...questa differenza non e' niente, e' il furtivo", un'erosione "essenziale e insieme fugace" che accade alla "maniera del ladro", che "svuota sempre la parola nella sottrazione di se'", la potenzialita' espropriante del linguaggio che ruba in fretta le parole che il soggetto crede di avere trovato, "molto in fretta, perche' deve scivolare invisibilmente nel nulla che mi separa dalle mie parole, e trafugarmele prima ancora che io le abbia trovate, perche', avendole trovate, io abbia la certezza di esserne gia' sempre stato spogliato".

Ogni parola, da quando e' parola, e' infatti "originariamente ripetuta", istantaneamente sottratta, "senza mai essere tolta", a colui che parla e che se ne crede padrone; e tale sottrazione si produce come un enigma, come una parola che nasconde la sua origine e il suo senso, che non dice mai da dove viene o dove va "perche' non lo sa", perche' questa ignoranza, quest'assenza del suo proprio soggetto le e' costitutiva. Allora quello che si chiama il "soggetto parlante" non e' piu' "quello stesso e quello solo che parla": facendo esperienza della parola, si scopre da sempre in una situazione di irriducibile secondarieta', di espropriazione radicale rispetto al luogo organizzato del linguaggio in cui ogni tentativo di collocazione e' vano perche' il posto e' sempre mancante; "e' la differenza che si insinua, come mia morte, tra me e me".

Riconoscere l'autonomia del significante, la sua sovrapersonalita' e necessita' rispetto all'intenzione del soggetto parlante, coincide percio' da questo punto di vista col pensarlo nella sua storicita', ammettere la "stratificazione e potenzializzazione" storica del senso, che, come sistema storico, cioe' "aperto da qualche lato", deborda ogni struttura centrata, e continuamente e' sull'orlo di smembrarsi, di farsi "costellazione in un sistema". Ogni atto di parola, ed ogni atto di scrittura, diviene cosi' un atto di lettura in un campo storico e culturale da cui si devono attingere le parole e le regole; cio' fa di ogni parola qualcosa di rubato, rubato alla lingua ed anche a se stessa, essendole gia' da sempre sottratta la proprieta' e l'iniziativa, ed apre in ogni atto linguistico un foro, spalanca una porta attraverso cui la parola e' sempre sottratta perche' e' sempre aperta: "essa non e' mai propria al suo autore o al suo destinatario e fa parte della sua natura non seguire mai il percorso che conduce da un soggetto proprio ad un soggetto proprio".

LA TESTUALITA' GENERALE

Concepito come un insieme di sostituzioni e di rinvii per i quali non e' possibile alcun approdo ad una presenzialita' ultimativa (un fondamento o un'origine che non siano a loro volta presi nel gioco differenziale), cioe' come scrittura, il testo della metafisica assume i caratteri di cio' che Derrida chiama "testualita' generale". La testualita' generale e' la conseguenza, in sede linguistico-semantica, dell'affermazione nietzscheana della "morte di Dio": essa comporta la cancellazione del significato e del significante trascendentali (come ancora per l'ermeneutica del primo Heidegger poteva essere l'essere), il loro "sprofondamento" ("mise-en-abi'me'") o la loro "messa in disparte" ("mise a l'e'cart"), cancellazione che Derrida accompagna con un atteggiamento che ricorda non a caso quello del nichilismo compiuto e dell'oblio attivo:

"Non vi sarebbe alcun nome unico, foss'anche il nome dell'essere. Ed occorre pensarlo senza nostalgia, cioe' fuori dal mito della lingua puramente materna o puramente paterna, della patria perduta del pensiero. Occorre al contrario affermarlo, nel senso in cui Nietzsche mette l'affermazione in gioco, con un certo riso e con un certo passo di danza" ("La diffe'rance").

L'elisione del significato trascendentale e' intesa come rapporto con un nulla: e se "non c'e' nulla fuori del testo" ad arrestare il rinvio, il testo non e' che una deriva di sensi, vale a dire disseminazione. Il vocabolo "disseminazione" e' assunto da Derrida mettendo consapevolmente in comunicazione due termini tra cui non c'e' etimologicamente alcuna parentela: "sema" e "semen". Ma proprio questo "slittamento" e questa "collusione puramente esteriore", questa esplicita "devianza dal voler-dire", fanno del termine "disseminazione" una parola particolarmente adatta a significare quella dispersione del senso ("sema") che, come nel caso della semente ("semen"), e' sempre inscritta in ogni aspettativa di fruttificazione.

La disseminazione non e' quindi la polisemia: mentre la polisemia e' sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile (diremmo: ubbidisce a un qualche "principio di realta'"), la disseminazione non e' mai riconducibile all'ordine, si abbandona a un "principio di piacere" dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione configura il testo (e qui la differenza tra "linguaggio" o "scrittura" e "realta'" viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni, formazioni "mostruose", che costituiscono una contestazione quanto mai radicale di due assunti della razionalita' metafisica:

quello dell'identita' e dell'identificazione, della possibilita' di "definire", operazione rassicurante che tende a difendere dall'alterita', a rimuoverla. In Spettri di Marx Derrida assimila la stessa ontologia al bisogno di identificazione (a tutti i livelli, da quello logico a quello politico), di purezza contro ogni forma di contaminazione, come difesa dall'evenienza dell'altro, il che si configura come un lavoro del lutto mai finito, e in particolare come difesa dalla sua possibilita' di ritorno. L'identita' si costituisce a prezzo di un'esclusione. Si tratta di un orizzonte - quello di una "ontologia" del fantasma (in francese "revenant") - che Derrida chiama hantologie, termine formato sul francese "hanter", che significa principalmente "ossessionare" (una casa "hante'e par les fantomes" e' una casa abitata dai fantasmi): la hantologie non e' altro che la stessa grammatologia. Si capisce bene come, lungi dall'essere "rassicurante", una tale hantologie sia invece inevitabilmente perturbante: il riferimento al saggio di Freud Il perturbante - in cui Freud analizza quel particolare fenomeno per cui in una situazione familiare si prova improvvisamente e inspiegabilmente una sensazione di "estraneita'" e che ha molto a che fare con l'ossessione fantasmatica - e' in Derrida esplicito;
quello della "linearita' del significante, principio fondamentale dello strutturalismo, con cui viene sancito il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e una certa concezione della temporalita' come successione lineare, discreta, di istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari livelli e in piu' direzioni (possibilita' che Derrida riscontra ad esempio nella scrittura ideografica, che non e' fonetica), perche' non assoggettabile a un centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone. Si tratta di una concezione che, nella sua forma radicale - spesso praticata da Derrida come possibilita' di leggere un testo in piu' modi diversi (sempre in Spettri di Marx, la non identificabilita' ultima del senso fa si' che esso sia sempre piu' d'uno) - ha portato a una deriva interpretativa non priva di problematicita'.
I presupposti strutturalisti - antifenomenologici e antiermeneutici - di questo discorso sono chiari: lo strutturalismo ha inteso il processo di significazione come funzione del sistema, e quindi come indipendente dall'intenzionalita' di un soggetto o di una "coscienza", come un processo impersonale e quasi meccanico. La testualita' generale come disseminazione e' quindi il risultato di una doppia breccia che la decostruzione opera nella tradizione filosofica: contro l'idea fenomenologico-ermeneutica della coscienza come luogo in cui il senso trova il suo aggancio, o la sua possibilita' di riattivazione, al di la' di ogni possibile perdita (e cio', abbiamo visto, e' conseguenza della critica derridiana al logocentrismo), e contro l'idea strutturalista che fa del sistema un principio ordinatore in cui la differenzialita' e' allo stesso tempo comunque condizione di identificazione (di definizione, di istituzione di un limite), conseguenza, questa, dell'inserimento nelle nervature apollinee dello strutturalismo di una forza dionisiaca allergica a qualsiasi forma. Alcune affermazioni di Derrida consentono pero' di circoscrivere la deriva interpretativa della decostruzione: come scrive ad esempio in Firma evento contesto, "in questa tipologia, la categoria di intenzione non scomparira', essa avra' il suo posto, ma da questo posto, essa non potra' piu' comandare tutta la scena e tutto il sistema dell'enunciazione".

Non si tratterebbe dunque tanto della semplice eliminazione di un termine o di una funzione che nella storia della metafisica ha giocato un ruolo fondamentale (anzi Derrida mette in guardia contro il carattere semplicistico di una tale operazione), ma di negare ad esso una tale fondamentalita', un ruolo egemonico, trascendentale, vale a dire astorico.

Se il conflitto fra Dioniso e Apollo non puo' essere risolto attraverso un rapporto di subordinazione o di rimozione e' perche' esso e' la storia stessa, e cioe', in un senso paradossale perche' ossimorico, la condizione trascendentale della storia: "la divergenza, la differenza tra Dioniso e Apollo, tra lo slancio e la struttura non si cancella nella storia, poiche' essa non e' nella storia. E'anch'essa, in un senso insolito, una struttura originaria: l'apertura della storia, la storicita' stessa" ("Forza e significazione").

Questo passaggio ci permette alfine di individuare il punto in cui il gioco differenziale, il tessuto di rinvii che caratterizza la testualita' generale, assume una connotazione storica, riportando in primo piano il senso temporale della nozione di diffe'rance. La storia e' una rete di rinvii, di invii, di destinazioni (e' evidente la risonanza dell'associazione heideggeriana tra Geschichte, storia, e Geschick, invio o destino), ma, conformemente al carattere non unitario, ma ibrido, frutto di una serie di innesti senza corpo principale, della testualita' generale, in tale concezione della storia non e' possibile ravvisare alcun "telos" fondamentale, alcun destino (come la heideggeriana "storia dell'essere"), concezione che sottolinea una volta di piu' uno dei caratteri piu' marcatamente postmoderni della filosofia di Derrida: "se la posta (tecnica, posizione, metafisica) si annuncia al 'primo invio', allora non vi e' piu' LA metafisica ecc. [...] e nemmeno L'invio, ma degli invii senza destinazione. Poiche' ordinare le diverse epoche, soste, determinazioni, insomma tutta la storia dell'essere, a una destinazione dell'essere, e' forse l'illusione postale piu' inaudita. Non c'e' nemmeno la posta o l'invio, ci sono le poste e gli invii. [...] In breve, non appena vi e', vi e' diffe'rance [...]; e vi e' ordinamento postale, relais, ritardo, anticipazione, destinazione, dispositivo telecomunicante, possibilita' e quindi necessita' fatale di dirottamento ecc. " ("Envois").

Questa concezione della storia rappresenta una sorta di iperbolizzazione delle due assenze strutturali della scrittura: assenza del destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente). La storia e' davvero quel testo generale il cui senso non e' mai definitivamente dipendente da una coscienza, poiche' una coscienza non puo' mai dominarla: se la scrittura ha una dimensione imprescindibilmente testamentaria, e' perche' nessuna coscienza vivente le puo' mai sopravvivere, salvaguardandone il senso, secondo una pretesa che, come abbiamo visto, appare piuttosto come un tentativo di rimozione e che agiva nella condanna socratico-platonica, e idealistica in generale, della scrittura.

DIFFERENZA, TRACCIA E SUPPLEMENTO

Nell'analisi genealogica della filosofi'a socratico-platonica, condotta in La farmacia di Platone, Derrida mostra un'attitudine tipicamente nietzscheana. Ma l'emergenza del tema della scrittura sposta l'attenzione verso un ambito tematico piu' propriamente psicanalitico: la messa in luce di uno schema familiare, al fondo della cosiddetta metafisica della presenza - schema in cui il logos occupa la posizione del padre - si avvale di tutto un armamentario interpretativo in cui concetti psicanalitici come "rimozione", "castrazione", "sublimazione", "pulsione di morte", "coazione" ecc. giocano un ruolo di primo piano.

L'analisi stessa del testo e' condotta come un tentativo di individuazione di atti mancati, lapsus, mascheramenti, sintomi e brecce che la decostruzione sfrutta per inserirsi in sistemi che a prima vista - diremmo, nei loro "meccanismi di difesa" - appaiono solidi e inattaccabili. Di questa deriva psicanalitica Derrida aveva dato una chiara anticipazione gia' in La voce e il fenomeno, scrivendo: "ed e' proprio intorno al privilegio dell'adesso, dall'adesso, che si svolge, in ultima istanza, questo dibattito, che non puo' somigliare a nessun altro, tra la filosofia, che e' sempre filosofia della presenza, e un pensiero della non-presenza, che non e' forzatamente il suo contrario, ne' necessariamente una meditazione dell'assenza negativa, anzi, una teoria della non-presenza come inconscio " (La voce e il fenomeno).

Questa teoria della non-presenza e' riassunta nel concetto di "traccia". La traccia (e qui Derrida riprende la definizione di Emmanuel Le'vinas) e' "un passato che non e' mai stato presente", cioe' la dimensione di un'alterita' che non si e' mai presentata ne' potra' mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: "con l'alterita' dell'"inconscio" abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati - passati o a venire - ma con un "passato" che non e' mai stato presente e che non lo sara' mai, il cui "avvenire" non sara' mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia e' dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di cio' che e' stato presente. Non si puo' pensare la traccia - e dunque la diffe'rance - a partire dal presente, o dalla presenza del presente" (La diffe'rance).

Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterita' per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: "e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce "inconsce" (non c'e' traccia "cosciente"), il linguaggio della presenza o dell'assenza, il discorso metafisico della fenomenologia e' inadeguato ".

Ed e' infatti proprio questo l'esito principale consentito dalla nozione di traccia: quello di far intendere l'ordine del senso - della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioe' l'insieme stesso della metafisica - come un ordine supplementare, radicalizzando con cio' quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l'impresentabilita' della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come cio' che sta al posto della traccia "originaria", la sostituisce, ne e' insomma la scrittura, cosi' come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in La scrittura e la differenza, e' la traccia "visibile" dell'inconscio.

Questa "logica del supplemento" e' ovviamente impensabile all'interno della logica (Della grammatologia): il supplemento supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa "appare". "Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c'e' nessun presente prima di esso, e' quindi preceduto solo da se stesso, cioe' da un altro supplemento. Il supplemento e' sempre il supplemento di un supplemento".

Una tale "logica del supplemento" o della traccia (supplementarita' originaria) e' quindi il "concetto fondamentale" di una nuova scienza (se essa fosse possibile), che Derrida chiama "grammatologia": la grammatologia fa dell'essere dell'ontologia - di "cio' che c'e'" - la traccia di cio' che "non c'e'", che non si presenta ne' puo' mai presentarsi; la grammatologia costituisce in breve l'introduzione, all'interno dell'ontologia da sempre dominata dal principio di identita', di una differenzialita' originaria, di uno scarto, di una cesura, che Derrida riassume nella nozione di diffe'rance.

Una comprensione della nozione derridiana di diffe'rance - argomento di una famosa conferenza tenuta il 27 gennaio 1968 e poi compresa in Margini - non puo' che partire dal suo statuto di "scrittura", dal modo in cui la parola stessa viene scritta, prima e piuttosto che dal suo contenuto "concettuale": la sua "concettualita'" e' anzi tutta nella sua scritturalita'. La diffe'rance e' anzitutto quel "lavoro" silenzioso che la scrittura opera al di la' di ogni possibile concettualizzazione. Il termine francese usato da Derrida e' volutamente scritto con la "o" anziche' con la "e", come sarebbe la sua forma corretta (diffe'rence). Questa "violenza grafica" non ha conseguenze fonetiche percepibili, e percio' intelligibili: con cio' Derrida intende segnare uno scarto dal fono-logocentrismo, ovvero dal privilegio del logos nel sistema concettuale dell'Occidente, di cui e' diretta conseguenza - o addirittura causa - l'uso della scrittura fonetica.

Privilegio del logos significa: a) privilegio del concettuale, del soprasensibile; b) solidarieta' sistematica tra il concettuale (lo spirituale) e il fonetico (la voce, l'ascolto ecc.); e) centralita' della coscienza nella fondazione della verita' in quanto garante della prossimita' tra il significante e il significato; d) condanna della scrittura in quanto possibilita' di sviamento dalla verita', perche' svincolata o pur sempre svincolabile dalla presenza di una coscienza; e) concezione della verita' come rapporto a un'origine riattivabile; f) determinazione di questa origine come "presenza".

Con il suo lavoro "silenzioso", la diffe'rance segna uno scarto rispetto a tutti questi punti, non pero' nella forma di una "opposizione", bensi' di un'alterita' eccentrica rispetto al sistema oppositivo su cui si regola il logocentrismo. Questa eccentricita' e' quella di un'alterita' non riconducibile all'identita', o meglio di un "luogo" altro come puo' essere l'inconscio o la "materia".

Si tratta di una collocazione che Derrida definisce come "la voce media" (ne'... ne'...), e che nella parola stessa diffe'rance e' espressa dalla terminazione -ance, propria di parole che, formate sul participio presente, restano sospese tra l'attivo e il passivo. Ma insieme al suo senso grammaticale, e' il senso logico della terminazione media che qui importa: essa corrisponde alla forma indecidibile del "ne'... ne'...", del tertium datur con cui e' scardinata la razionalita' metafi'sica, fondata sui princi'pi di non contraddizione e del terzo escluso.

L'indecidibile e' la "logica" stessa del decostruzionismo, un'alogica che anziche' scegliere tra due elementi opposti




N° Post: 453
Sipolino Fabio
Wednesday 4th of August 2021 07:25:05 AM


JACQUES DERRIDA









Derrida nacque ad El Biar, quartiere di Algeri (nell'allora Algeria francese), il 15 luglio 1930, terzogenito di cinque figli di una famiglia ebraica sefardita spagnola originaria di Toledo. Dopo un iniziale percorso di istruzione nella scuola pubblica, in seguito ai provvedimenti antisemiti della repubblica collaborazionista di Vichy viene espulso e prosegue i suoi studi in una scuola ebraica. Consegue la maturita' nel 1948, dopo essere stato respinto l'anno precedente. Derrida stesso ricordera' in seguito di aver avuto grandi difficolta' nel periodo scolastico e universitario, essendo respinto a numerosi esami, spesso per problemi di adattamento e di disciplina nello studio.

Nell'immediato dopoguerra si appassiona alla filosofia, leggendo Nietzsche, Bergson, Sartre, la letteratura esistenzialista, e Heidegger. Si trasferisce nel 1949 a Parigi e nel 1951, al terzo tentativo, viene ammesso alla École Normale Supe'rieure (ENS), dove e' suo tutor Althusser e fra gli insegnanti c'e' gia' Michel Foucault, J. Hyppolite e di M. de Gaudillac. Nel 1954 consegue il diploma con una tesi sul problema della genesi nella filosofia di Husserl. Diviene "Maitre assistant" alla stessa École.

Dopo aver vinto una borsa di studio per l'universita' Harvard, si sposa e nel 1957 compie il servizio militare in Algeria. Nel 1959 svolge il suo primo intervento pubblico, sulla fenomenologia di Husserl, e negli anni successivi insegna alla Sorbona, tenendo numerosi seminari soprattutto su Hegel, Husserl e Heidegger.

La sua fama crescente lo porta, nel 1963, a scontrarsi direttamente con Foucault, a causa delle critiche che Derrida muove alla sua Storia della follia. La riconciliazione con Foucault avverra' solo nel 1981.

Nel 1966 tiene la prima di una lunga serie di conferenze negli Stati Uniti, dove conosce Paul De Man e dove si afferma soprattutto come studioso della lingua e della scrittura. L'anno successivo escono le prime opere di grande diffusione, La scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e Della grammatologia; le sue conferenze gli assicurano una grande notorieta', ma Derrida, durante gli avvenimenti del 1968, preferisce restare defilato, irritato per gli aspetti piu' ideologici del movimento. In questo stesso periodo, a Parigi, frequenta Blanchot e il poeta Paul Celan.

Sempre di piu' la sua attivita' filosofica si svolge a livello internazionale, viaggiando e tenendo conferenze in tutto l'Occidente, fra l'Europa (ad esempio in Germania, Svizzera) e gli Stati Uniti (alla Johns Hopkins Umversity, a Yale, dove e' nata un'importante scuola decostruzionista, alla Cornell University e a Irvine), dove sempre piu' forte e' la polemica con i filosofi analitici e in particolare con Searle.

Essendo stata approvata una legge che aboliva, in Francia, l'insegnamento della filosofia nelle scuole, Derrida convoca nel 1979 i cosiddetti "Stati generali della filosofia", ovvero 1200 studiosi della materia, in una manifestazione di protesta; e' in questa occasione che accetta per la prima volta di essere fotografato in pubblico.

Sul finire del 1981 recatosi a Praga per tenere un seminario organizzato da Charta 77, viene arrestato per motivi politici con la falsa accusa di detenzione di stupefacenti. Verra' rilasciato solo grazie all'intervento di Mitterrand.



Dal 1983 e' direttore di studi all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Nello stesso anno viene eletto direttore del College International de Philosophie.



Si moltiplicano negli anni ottanta le critiche all'oscurita' e all'ambiguita' del suo pensiero, ad es. da parte di Ju'rgen Habermas e dei filosofi analitici; nel 1992 questi ultimi pubblicheranno una lettera sul "Times" di Londra, per accusare Derrida di non essere un vero filosofo ma solo uno scrittore, e contesteranno percio' l'assegnazione della laurea honoris causa a Cambridge, avvenuta quello stesso anno.

Negli ultimi anni il pensiero di Derrida si concentra maggiormente sui temi etici dell'amicizia, della morte, e sulle questioni politiche, in particolare riguardo l'attualita' del problema del terrorismo e del Medio Oriente; nel 2003 viene insignito della laurea honoris causa a Gerusalemme. La sua morte avviene l'anno dopo, nel 2004, in un ospedale parigino, a causa di un tumore al pancreas gia' in corso da lungo tempo.

Tra le opere piu' importanti ricordiamo: Introduzione a 'L'origine della geometria' di Husserl (1962), La scrittura e la differenza (1967), Della grammatologia (1967), La voce e il fenomeno (1967), Margini della filosofi'a (1972), La disseminazione (1972), Posizioni (1972), Glas (1974), La verita' in pittura (1978), La carte postale. De Socrate a' Freud et au dela' (1980), Parages (1986), Psyche'. Inventions de l'autre (1987) Limited Inc. (1988), Dello spirito (1988), Donare il tempo. La moneta falsa (1991), Spettri di Marx (1993), Politiche dell'amicizia (1994), Addio a Emmanuel Le'vinas (1997).

Pensiero

Prendendo spunto da alcuni motivi emergenti dalla fenomenologia di Husserl, dal pensiero di Heidegger e dalla linguistica strutturalista di de Saussure, nonche' riprendendo temi propri alla riflessione di Nietzsche e di Freud, Derrida ha elaborato un percorso filosofico, originale e provocatorio, che si caratterizza come decostruzione della "metafisica della presenza". Quest'ultima costituirebbe l'aspetto piu' evidente ed egemone della filosofia occidentale.

La presenza si decostruisce nel momento in cui se ne ridefinisce la portata: non scompare, ma gioca nell'antinomia tra la rivendicazione di una sua pienezza forte - da ridurre invece e affermare solo come pretesa idealizzante, ma appellativa e dunque imprescindibile - e la sfuggente ma essenziale complessita' della sua struttura fondante (testo/interpretazioni; IO/inconscio strutturato; IO/ALTRI-TRADIZIONE).



Nel definire il suo approccio alla filosofia e al testo in generale, Derrida ha insistito nel mettere in guardia dal concepire la decostruzione semplicemente come un metodo d'interpretazione. La nozione di metodo, infatti, e' stata elaborata nell'ambito di quella stessa filosofia che la decostruzione coinvolge e pertanto ne condivide taluni presupposti. La decostruzione non riguarda semplicemente l'approccio soggettivo alla materia d'indagine, poiche' e' cio' che accade alle "strutture" e alle istituzioni che nel complesso costituiscono una cultura; e' la trasformazione di quelle stesse strutture e istituzioni. In questo senso si tratta di qualcosa che e' "sempre gia'" incominciato nel momento in cui se ne puo' prendere atto. Se si considera l'implicazione circolare dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo in gioco in un simile approccio, le analogie della decostruzione con l'ermeneutica filosofica sono evidenti. Tuttavia non mancano da parte di Derrida riserve critiche e prese di distanza rispetto a quei principi che mantengono l'ermeneutica aderente alla metafisica della presenza e al cosiddetto "logocentrismo".

La riflessione di Derrida ha esercitato qualche influenza in svariati campi del sapere, in particolare nell'ambito della letteratura, del diritto, dell'architettura e dell'arte in generale.

Per lo stile di scrittura, particolarmente complesso ed ellittico, da piu' parti il suo pensiero e' stato ritenuto piu' vicino a una forma letteraria che a una rigorosa elaborazione filosofica. Le reazioni dei critici piu' autorevoli sono spesso state riprese dallo stesso Derrida in opere successive e fatte oggetto di analisi.

In Italia il suo pensiero fu diffuso da Gianfranco Dalmasso professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l'Universita' degli Studi di Bergamo.

Il rapporto con la fenomenologia

I primi lavori di Derrida si situano all'interno del dibattito fra storicismo e strutturalismo impostosi negli anni quaranta e cinquanta, e riguardano in particolare le soluzioni al problema della genesi delle idee (genesi storica o metastorica, ovvero strutturale?) esposte da Husserl nella sua filosofia. Com'e' noto, Husserl riteneva di poter dedurre la sussistenza di un io trascendentale, cui corrisponderebbe una logica pura, cui si potrebbe accedere attraverso un processo di riduzione a partire dalle condizioni empiriche della conoscenza effettiva del soggetto. La critica di Derrida a questa impostazione restera' un motivo di fondo e fondativo del suo pensiero: per il filosofo francese, un trascendentale puro non puo' che essere totalmente astratto e vuoto, quindi indifferente alla storia; il vero trascendentale non puo' che quindi convivere con il reale pur non essendone direttamente determinato, in altre parole si tratta di un a priori materiale(riempito di contenuti) e non formale: la decostruzione, intesa come analisi dell'esperienza che ne esibisce le strutture necessarie, e' a sua volta anche una costruzione, ovvero l'esibizione delle condizioni a priori celate nel mondo e che lo rendono possibile.

La questione dell'animalita'

Per Derrida la "questione dell'animalita'" rappresenta "il limite su cui sorgono e prendono forma tutte le altre grandi questioni [...]. I rapporti tra uomini e animali dovranno cambiare. E dovranno farlo nella duplice accezione di questo termine, nel senso di una necessita' "ontologica" e di un dovere "etico"". [1] Finora agli animali non abbiamo negato la facolta' di parlare, ma la possibilita' di risponderci (rispondere a) rendendoci responsabili (rispondere di), in maniera da dar corpo alla riflessione con e su l'Altro. [2] Occorre non "limitarsi a sottolineare che, guardando meglio, cio' che viene attribuito al "proprio dell'uomo" appartiene anche ad altri esseri viventi, ma anche, al contrario, che cio' che viene attribuito al proprio dell'uomo non gli appartiene in modo puro e rigoroso, e che bisogna quindi ristrutturare tutta la problematica" [3].

Critiche

Le principali critiche rivolte al pensiero di Derrida riguardano, da un lato, come detto, la presunta oscurita' con cui egli espone i suoi concetti; questa oscurita' secondo alcuni sarebbe sinonimo di arbitrarieta', ovvero di mancanza di rigore filosofico; dall'altro canto, la centralita' del tema della decostruzione nella filosofia di Derrida, ha spinto alcuni a ritenere il suo un pensiero nichilista, che esita nello scetticismo e nel solipsismo piu' assoluti, giacche' la decostruzione mostrerebbe l'infondatezza e la precarieta' di tutta la tradizione del pensiero occidentale. Derrida sostiene invece che il decostruzionismo e' affermativo, produttivo, e non mira a togliere fondamento ai concetti, ma solo a esibire le modalita' del loro sviluppo e funzionamento.

Nikos Salingaros critica aspramente il decostruttivismo in architettura e della sua applicazione a-critica della filosofia del post-strutturalismo. Nel suo saggio The Derrida Virus [4] egli sostiene che le idee di Jaques Derrida, applicate in modo poco critico, costituiscono un "virus" di informazione che distrugge il pensiero logico e la conoscenza. Salingaros utilizza il modello del "meme", gia' introdotto da Richard Dawkins per interpretare la trasmissione delle idee. Nel fare cio' egli offre un modello che conferma le precedenti affermazioni del filosofo Richard Wolin secondo le quali la filosofia di Derrida e' in senso logico nichilista.



I maggiori esponenti della filosofia continentale (J. Habermas e K.O. Apel) si sono sempre schierati contro i principi della decostruzione e del decostruzionismo e hanno proposto, al contrario, l'idea di una dialettica progressiva tra la comunita' storica e ideale degli interpreti che miri alla progressiva risoluzione dei conflitti economico e sociali attraverso i principi di un'etica della comunicazione, ovvero di una strategia discorsiva pienamente democratica.[5]

All'interno della cosiddetta "Guerra della Scienza" il nome di Derrida compare spesso tra i bersagli contro cui esponenti del mondo scientifico si scagliano per denunciare l'impiego superficiale e decontestuaizzato di importanti risultati della fisica moderna (attenenti perlopiu' al "Principio di Indeterminazione di Heisenberg") da parte dei principali filosofi post-moderni per una decostruzione tendenziosa dell'epistemologia moderna, decostruzione viziata dall'evidente incomprensione di risultati e metodo scientifico.

Note

1) Jacques Derrida, Élisabeth Roudinesco, Quale domani?, traduzione di G. Brivio, Bollati Boringhieri, Milano 2004, pp. 93 e 95.
2) Cfr. Jacques Derrida, L'animale che dunque sono, traduzione di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, pp. 173-198.
3) Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano, vol. 1 (2001-2002), traduzione di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, p. 85.
4) The Derrida Virus
5) F. Dal Bo, Societa' e discorso. L'etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida, con un inedito di Jacques Derrida: I limiti del consenso, Mimesis, Milano, 2002, ISBN 88-8483-057-5

Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Derrida

Testi di J. Derrida

La scrittura e la differenza, Einaudi
Lo spergiuro. Il tempo dei rinnegati, 2013, Castelvecchi
Luoghi dell'indicibile, 2012, Rubbettino
Helene Cixous, per la vita, 2012, Marietti
"Il faut bien manager". O il calcolo del soggetto, 2011, Mimesis
Spiegare Ponge. Colloquio con Ge'rard Farasse, 2011, Mimesis
Gli occhi della lingua, 2011, Mimesis
Nietzsche e la macchina. Intervista con Richard Beardsworth, 2010, Mimesis
La bestia e il sovrano. Vol. 1: (2001-2002), 2009, Jaca Book
La bestia e il sovrano. Vol. 2: (2002-2003), 2010, Jaca Book
Avances, 2010, Mimesis
Dello spirito: Heidegger e la questione, 2010, SE
Al di la' delle apparenze. L'altro e' segreto perche' e' altro, 2010, Mimesis
Firmatoponge, 2010, Mimesis
La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, 2010, Jaca Book
Psyche'. Invenzioni dell'altro. Vol. 1, 2008, Jaca Book
Psyche'. Invenzioni dell'altro. Vol. 2, 2009, Jaca Book
Derridabase. Circonfessione, (con Bennington Geoffrey), 2008, Lithos
Adesso l'architettura, 2008, Libri Scheiwiller
Incondizionalita' o sovranita'. L'universita' alle frontiere dell'Europa, 2008, Mimesis
Marx & sons. Politica, spettralita', decostruzione, 2008, Mimesis
La farmacia di Platone, 2007, Jaca Book
Toccare, Jean-Luc Nancy, 2007, Marietti
Cio' che resta del fuoco. Testo francese a fronte, 2007, SE
Il tempo degli addii, 2006, Mimesis
Et cetera. (And so on, und so weiter, et ainsi de suite, etc.), 2006, Castelvecchi
Glas. Testo italiano e francese, 2006, Bompiani
Breve storia della menzogna. Prolegomeni, 2006, Castelvecchi
"... Soprattutto: niente giornalisti!". Quel che il Signore disse ad Abramo, 2006, Castelvecchi
Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, 2005, Cronopio
Abramo, l'altro, 2005, Cronopio
Economimesis. Politiche del bello, 2005, Jaca Book
Ogni volta unica, la fine del mondo, 2005, Jaca Book
Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, 2005, Abscondita
Perdonare, 2004, Cortina Raffaello
Sulla parola. Istantanee filosofiche, 2004, Nottetempo
Quale domani? (con Roudinesco Elisabeth), 2004, Bollati Boringhieri
Il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine, 2004, Cortina Raffaello
Ulisse grammofono. Due parole per Joyce, 2004, Il Nuovo Melangolo
Memorie di cieco. L'autoritratto e altre rovine, 2003, Abscondita
Stati canaglia, 2003, Cortina Raffaello
Il diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico, 2003, Il Nuovo Melangolo
Forza di legge. Il "Fondamento mistico dell'autorita'", 2003, Bollati Boringhieri
Donare la morte, Derrida Jacques, 2002, Jaca Book
Societa' e discorso. L'etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida. Con un inedito di Jacques Derrida: I limiti del consenso (con Dal Bo Federico), 2002, Mimesis
L'universita' senza condizione, (con Rovatti P. Aldo), 2002, Cortina Raffaello
Camilla Adami. Catalogo della mostra (Milano, aprile-maggio). Ediz. italiana e francese, 2001, Mazzotta
Interpretazioni in guerra. Kant. L'ebreo, il tedesco, 2001, Cronopio
Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, 2000, Jaca Book
Speculare su "Freud", 2000, Cortina Raffaello
Ecografie della televisione, (con Stiegler Bernard), 1997, Cortina Raffaello
Limited inc., 1997, Cortina Raffaello
Margini della filosofia, 1997, Einaudi
Donare il tempo. La moneta falsa, 1996, Cortina Raffaello
Mal d'archivio. Un'impressione freudiana, 1996, Filema
Politiche dell'amicizia, 1995, Cortina Raffaello
Essere giusti con Freud. La storia della follia nell'eta' della psicoanalisi, 1994, Cortina Raffaello
Gli spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, 1994, Cortina Raffaello
Otobiographies. L'insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, 1993, Il Poligrafo
L'archeologia del frivolo. Saggio su Condillac, 1992, Dedalo
I problemi della genesi nella filosofia di Husserl, 1992, Jaca Book
Sproni. Gli stili di Nietzsche, 1991, Adelphi
Il fattore della verita', 1978, Adelphi
L'animale che dunque sono, 2006, Jaca Book
Aporie, 2004, Bompiani
Il sogno di Benjamin, 2003, Bompiani
Come non essere postmoderni. Post, neo e altri ismi, 2002, Medusa Edizioni
Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, 1999, Ombre Corte
Il gusto del segreto, (con Ferraris Maurizio), 1997, Laterza
Saggio sull'autobiografia. Memorie per Paul De Man, 1995, Jaca Book
Ritorno da Mosca. Omaggio a Jacques Derrida, 1993, Guerini e Associati

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N° Post: 449

Tuesday 3rd of August 2021 01:06:37 PM


J.L. Austin, La verita'




J.L. Austin si colloca nella corrente filosofica detta "filosofia del linguaggio ordinario" attiva negli
anni '40 e '50 in Gran Bretagna in particolare nelle universita' di Cambridge (dove insegnava
Ludwig Wittgenstein) e Oxford (dove insegnava Gilbert Ryle). Convinto sostenitore
dell'importanza dell'analisi del linguaggio ordinario per la filosofia, Austin ebbe un ruolo trainante
nella Oxford degli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale.
Nell'espressione esplicita piu' matura dei suoi criteri metodologici in filosofia (A plea for excuses,
1956, in Philosophical Papers) Austin sostiene che le parole sono gli strumenti del filosofo e che si
dovrebbero usare strumenti "puliti", evitando ad esempio di trasferire in filosofia certe connotazioni
o ambiguita' delle parole che usiamo anche nel linguaggio ordinario o di confondere fra loro usi che
il linguaggio ordinario tiene distinti. Sostiene anche che le distinzioni tracciate dalle parole del
linguaggio ordinario sono collaudate dal tempo come utili in tutte le questioni ordinarie e
ragionevolmente pratiche, e possono essere illuminanti anche in filosofia, mentre il metodo
filosofico preferito per tracciare distinzioni (inventarsele in un pomeriggio stando in poltrona) non
da' molte garanzie. Il linguaggio ordinario risulta cosi', non certo l'ultima parola in filosofia, ma
certamente la prima.
Benche' il saggio sulla Verita' risalga a qualche anno prima (1950), alcuni aspetti del metodo
teorizzato in A plea for excuses sono chiaramente presenti. In particolare, Austin vuole rendere
conto dell'espressione idiomatica "corrispondere ai fatti", che e' usata nel linguaggio ordinario per
caratterizzare le affermazioni vere (un'affermazione e' vera quando corrisponde ai fatti). Cerchera'
quindi di spiegare come quest'espressione vada intesa. E'inoltre continua la sua attenzione per l'uso
del linguaggio: gli usi di "e' vero" (e di "e' falso"), gli usi di altri termini e espressioni che entrano
nel discorso filosofico sulla verita' come "frase" o "enunciato" (sentence) e "affermazione" o
"asserzione" (statement), gli usi di altri termini valutativi riferiti ad affermazioni ("esagerato",
"approssimativo"). Chiara e' l'influenza della "svolta linguistica" (versione filosofia del linguaggio
ordinario) nell'apertura del suo saggio: dopo un richiamo, fatto mediante una citazione, a Francis
Bacon e con cio' alla tradizione dell'empirismo britannico, Austin prende distanza da una
discussione della verita' condotta in termini di sostanza, proprieta' o relazione, riconducendo gli
aspetti filosoficamente interessanti di una tale discussione all'analisi di "vero" e dei suoi usi.
Austin prende distanza da 3 posizioni filosofiche: quella di Tarski per cui la verita' e' proprieta' di
enunciati (frasi) di una lingua e "e' vero" appartiene a un metalinguaggio, non al linguaggio oggetto
in cui e' costruito l'enunciato di cui si afferma la verita'; quella di Frege, per cui la verita' non deve
essere pensata come corrispondenza, perche' la corrispondenza (ad es. di un modello con un
originale) e' sempre questione di grado mentre la verita' non sarebbe questione di grado; quella di
Peter F. Strawson, altro filosofo del linguaggio ordinario, per cui "e' vero" non significa nulla ma ha
soltanto una funzione "performativa", serve cioe' a acconsentire a un'affermazione o a confermarla.
A che cosa si applica "e' vero"?
Nel punto 2. del suo saggio Austin prende in considerazione il problema di cio' a cui "e' vero" si
applica in modo primario: credenze, descrizioni o resoconti, proposizioni (propositions), parole e
frasi o enunciati (sentences), affermazioni o asserzioni (statements). Scarta le credenze perche' "una
credenza vera" e' un'espressione usata quasi solo in filosofia e teologia, e inoltre, dire che qualcuno
ha una credenza vera e' come dire che crede (in) qualcosa che e' vero; percio' il problema di che cos'e'
che e' primariamente detto "vero" non e' risolto. Scarta le descrizioni e i resoconti perche' sono
semplicemente varieta' di affermazioni vere o di insieme di affermazioni vere. Le "proposizioni"
sono, in geometria o in legge, affermazioni di carattere particolare, generalizzazioni che ci viene
proposto di accettare sulla base di argomenti; in filosofia si intende per "proposizione" il significato
o senso di un enunciato o famiglia di enunciati" ma non e' certo il senso di un enunciato cio' che
normalmente diciamo essere vero o falso. Le parole o le frasi sono dette vere non se considerate di
per se', come elementi di sistema linguistico o strutture prodotte dalle sue regole, ma solo in quanto
usate da una certa persona in una certa occasione. Cioe' in quanto affermazioni, o asserzioni (in
inglese Austin usa il termine "statement"). Rimaniamo cosi' con le affermazioni come unico
candidato veramente plausibile. Un'affermazione e' qualcosa che viene fatto e farla e' un evento
storico, il proferimento da parte di un certo parlante di certe parole (o un certo enunciato) rivolte a
un uditorio con riferimento a una situazione storica.
Una definizione di "e' vero"
Nel punto 3. del suo saggio Austin passa a chiedersi quando un'affermazione e' vera. Qui si
confronta con la risposta, intuitivamente attendibile "Quando corrisponde ai fatti". La accetta, ma
ritiene necessarie una serie di precisazioni -- che ammontano alla sua spiegazione di che cosa sia per
un'affermazione essere vera.
In particolare Austin distingue due tipi di "convenzioni" in base alle quali le nostre affermazioni
funzionano e in relazione alle quali possono essere dette vere o false.
Le convenzioni descrittive correlano l'enunciato (sentence) con tipi di situazione da trovarsi nel
mondo.
Le convenzioni dimostrative correlano l'affermazione (statement) con la situazione storica da
trovarsi nel mondo.
Un'affermazione e' detta vera quando la situazione storica a cui e' correlata dalle convenzioni
dimostrative e' di un tipo con cui l'enunciato usato nel farla e' correlato dalle convenzioni descrittive.
A commento di cio' possiamo dire che l'essere un'affermazione vera e' per Austin qualcosa che
coinvolge due livelli diversi del linguaggio, quello dell'enunciato (sentence) e quello del suo uso
per fare un'affermazione (statement): di un enunciato-tipo possiamo capire a quale tipo di
situazione e' collegato dalle convenzioni descrittive della lingua, ma solo se l'enunciato e' usato
effettivamente, e per fare un'affermazione o asserzione, scattano le convenzioni dimostrative che
collegano l'affermazione a una situazione storica, e sappiamo di quale situazione storica si dice che
e' di quel tipo, e sappiamo, anche, quale situazione storica dovremmo andare a guardare per
controllare se e' proprio cosi'. La "corrispondenza" fra parole e fatti e' piuttosto una corrispondenza
fra tipi di situazione (cui giungiamo a partire dalle convenzioni descrittive riguardanti gli enunciati)
e situazioni storiche (cui giungiamo a partire dalle convenzioni dimostrative, riguardanti le
affermazioni).
Vari aspetti nella teoria austiniana della verita' rimangono oscuri. In particolare e' un po' misterioso
il suo uso della nozione di "convenzione", non tanto per le convenzioni descrittive (che si rifanno al
luogo comune della convenzionalita' della lingua) quanto per le convenzioni dimostrative. Queste si
applicano ad aspetti verbali (indicali, dimostrativi, tempo del verbo...) ma anche ad aspetti non
verbali (gesti ostensivi), e inoltre, "scattano" solo in virtu' del fatto (che non e' in alcun modo
convenzionale) del proferimento dell'enunciato (con funzione di affermazione). Dice Austin in una
nota che per quanti espedienti dimostrativi verbali noi possiamo usare, deve sempre esserci
un'origine non verbale per le coordinate dimostrative della nostra affermazione, la quale e' data dal
punto (spazio-temporale) in cui essa viene proferita. Un'ipotesi e' che Austin tenda a considerare
"convenzionale", in rispetto all'etimologia, tutto cio' che e' oggetto di accordo intersoggettivo. In
effetti che un certo nostro gesto o emissione verbale si riferiscano proprio a una certa situazione,
benche' segnalato in varie maniere, e' in ultima analisi sempre connesso a un convergere o convenire
su un certo referente da parte di parlante e (almeno alcuni) riceventi.
Riguardo alla nozione, che pure ritiene legittima, di "fatto", Austin rifiuta l'uso, per certi versi
plausibile, per cui "fatto" sarebbe semplicemente sinonimo di "affermazione vera". Accettare
quest'identificazione equivale a ricadere in una teoria coerentista della verita', mentre, Austin
ritiene, la verita' e' sempre questione di 2 elementi o livelli a confronto. Rifiuta inoltre la tendenza,
comune fra i teorici della verita' come corrispondenza, a voler trovare per ogni affermazione vera il
suo "fatto" esattamente corrispondente. In questo modo si sovrappopola il mondo di doppi delle
nostre affermazioni e si e' indotti a introdurre "fatti generali", "fatti negativi" e cosi' via.
Della "corrispondenza" ai fatti, Austin sostiene che e' puramente e assolutamente convenzionale, e
che non implica rispecchiamento o isomorfismo di sorta. Un'immagine, una copia, una fotografia
non sono mai vere fintanto che sono riproduzioni: sono accurate o verosimili, fedeli all'originale,
non vere di esso. Su questo punto Austin sembra dunque dare ragione a Frege che aveva rifiutato la
verita' come corrispondenza per non assimilare le affermazioni a immagini, le quali corrispondono a
cio' che riproducono in modo piu' o meno fedele. Austin condivide il punto riguardo alle immagini
ma non la sua applicazione alle affermazioni, che possono essere dette corrispondere ai fatti in un
senso diverso da quello in cui delle immagini possono riprodurre oggetti, eventi o stati di cose.
Peraltro, Austin accettera' anche che la verita' delle affermazioni sia, contro Frege, questione di
grado.
Critiche alla tesi della superfluita' logica di "e' vero"
Nel punto 4. del suo saggio Austin inizia a affrontare la questione della supposta ridondanza o
superfluita' logica di "e' vero". Prende in considerazione l'idea che dire che un'asserzione e' vera non
sia fare alcuna ulteriore asserzione o altrimenti detto, che dire di una proposizione che e' vera sia
semplicemente asserirla mentre dire che e' falsa e' semplicemente asserire la sua contraddittoria. "E'
vero" sarebbe quindi logicamente superfluo, nel senso che non contribuirebbe in alcun modo alle
condizioni di verita' dell'enunciato in cui compare, le quali continuerebbero ad essere le stesse
condizioni di verita' dell'enunciato (o proposizione) che e' detto essere vero. Austin nota che mentre
l'affermazione che S fa riferimento al mondo o a una parte qualsiasi di esso, ad esclusione di se
stessa, cioe' dell'affermazione che S, l'affermazione che l'affermazione che S e' vera fa riferimento
al mondo o a una qualsiasi parte di esso che include l'affermazione S (anche se di nuovo ad
esclusione di se stessa, cioe' dell'affermazione che S e' vera). L'affermazione che l'affermazione che
S e' vera puo' far riferimento a qualcosa a cui l'affermazione che S non puo' far riferimento. Certo, le
due affermazioni sono vere insieme e false insieme (purche' l'affermazione che S sia considerata
come fatta e sia stata verificata: altrimenti l'affermazione che l'affermazione che S e' vera non
avrebbe le carte in regola...). Ma cio' potrebbe non essere sufficiente per ritenere che significhino lo
stesso. Un secondo argomento contro la superfluita' logica di "e' vero" si basa sull'osservazione che
tale tesi confonde la falsita' con la negazione (in quanto si trova a dover trattare anche "e' falso"
come logicamente superfluo). Ma un'asserzione negativa ed una positiva sono in realta' sullo stesso
piano, ambedue si riferiscono direttamente al mondo, non ad affermazioni sul mondo, mentre
l'affermazione che una certa affermazione e' falsa si riferisce a quell'affermazione.
Un ulteriore argomento contro la superfluita' logica di "e' vero" e' portato nel punto 5. del saggio, in
cui Austin considera "e' vero" come parte di una famiglia di termini usati per valutare la correttezza
delle affermazioni ("vago", "approssimativo", "fuorviante", "generico"...), la quale comunque e'
questione di gradi e di dimensioni.
Se "e' vero" non e' logicamente superfluo, se quindi l'affermazione che l'affermazione che S e' vera e'
a pieno titolo un'affermazione, che deve "corrispondere ai fatti", a quale fatto corrisponde? Austin
ammette che l'essere un'affermazione vera non e' un fatto in senso stretto...: la relazione che si
asserisce esistere fra l'affermazione che S e il mondo, quando si dice che l'affermazione che S e'
vera, e' infatti puramente convenzionale, e con cio' non e' indipendente dalla volonta' e dal pensiero
del soggetto (che avrebbe potuto per es. usare altre convenzioni descrittive). Austin propone tuttavia
di considerarla un fatto e di chiamarla un "fatto debole" (soft fact).
Il punto 6. del saggio introduce il tema della "fallacia descrittiva", cioe' di quell'errore comune in
filosofia - almeno a detta di molti filosofi di ambito analitico nella prima meta' del Novecento - per
cui si tendono a prendere tutti gli enunciati dichiarativi come affermazioni o descrizioni vere/false,
distorcendone, in certi casi, la reale funzione comunicativa. Calcoli, giudizi di valore, enunciati
performativi come "io prometto che..." (che non descrivono un'azione del soggetto enunciatore, ma
servono ad eseguirla), sono fatti usando enunciati dichiarativi ma non sono affermazioni, almeno
non in senso stretto. Non e' loro compito "corrispondere ai fatti". In questo spirito Austin confronta
inoltre "e' vero" con "e' probabile", sostenendo che l'una e l'altra sono espressioni che usiamo per
fare affermazioni riguardo ad affermazioni, ma in situazioni di tipo diverso; quando e' appropriato
affermare che una certa asserzione e' vera e' fuori luogo affermare che e' probabile che le cose stiano
cosi', e viceversa. Questo paragrafo del saggio ha presumibilmente lo scopo di contestualizzare il
giudizio di verita'/falsita' fra altri tipi di giudizio che noi diamo quanto alla correttezza degli
enunciati che usiamo, nelle circostanze e per gli scopi in cui li usiamo. Non esiste soltanto il
giudizio secondo verita'/falsita', ma molteplici modi di valutare cio' che diciamo, ciascuno dei quali
tiene conto a suo modo di fatti...
La proposta di Strawson, discussa nel punto 7., che "e' vero" benche' superfluo logicamente, possa
non dire ma fare qualcosa di piu' che l'affermazione cui e' applicato, cioe' confermarla o concederla,
sembra collocarsi anch'essa in linea con le critiche alla "fallacia descrittiva" che Austin ha fatto sue
nel punto 6.; ma Austin rifiuta quest'estensione del discorso. Egli sostiene, contro Strawson, che il
fatto che l'affermazione che l'affermazione che S e' vera sia spesso un modo per confermare o
concedere che S, non mostra che essa non sia allo stesso tempo anche un'affermazione riguardo ad
S. Un enunciato puo' cioe' essere "performativo", nel senso che il suo proferimento puo' costituire
un'azione, ma nello stesso tempo essere un'affermazione vera o falsa. Austin e' propenso a ritenere
che dicendo "L'affermazione che S e' vera" noi stiamo facendo un'affermazione, e che la funzione
principale di "e' vero" sia affermare che fra certe parole e il mondo si da' una relazione del genere di
quella specificata nel punto 3. del suo saggio.
Da "La verita'" a "Come fare cose con le parole"
Nel dibattito con Strawson sulla verita' Austin si trova davanti ad un utilizzo della nozione di
"enunciato performativo" da lui stesso introdotta nel suo lavoro precedente "Le altre menti" (1946).
L'enunciato performativo e' un enunciato che sembra descrivere qualcosa, ma in realta' non lo
descrive bensi' serve ad eseguire un'azione. Nel parlare di enunciati performativi Austin si riferisce
soprattutto a enunciati contenenti un verbo d'azione alla prima persona del presente indicativo
attivo, che sembrano descrivere un'azione del soggetto, ma in realta' servono ad eseguirla (ovvero
contribuiscono a una sua esecuzione esplicita). Nel modo in cui Strawson aveva usato la nozione di
performativita' era insita l'idea di un'alternativa fra due usi del linguaggio mutuamente esclusivi,
quello assertivo o descrittivo, vero/falso, non costitutivo di azioni ma espressione per eccellenza
della funzione cognitiva teoretica, e quello performativo, felice/infelice (ovvero ben riuscito/non
ben riuscito, appropriato/inappropriato), non vero/falso, bensi' costitutivo di azioni e con cio'
strumento della prassi. Di fronte al caso di "e' vero" Austin si accorge che non era nel suo progetto
di analisi dei performativi dare adito a questo tipo di interpretazioni. Dal desiderio di riqualificare la
sua nozione di enunciato performativo nasce il progetto di "Come fare cose con le parole".
In "Come fare cose con le parole" ci viene presentata una dicotomia fra "constativi" (enunciati
veri/falsi, che dicono e non fanno) e "performativi" (enunciati che non sono veri/falsi, che non
dicono semplicemente qualcosa ma fanno qualcosa). Non si tratta come una lettura superficiale
potrebbe far pensare della tesi del volume. Ma della negazione della tesi (come in una
dimostrazione per assurdo). Infatti Austin vuole mostrare che costruire la relazione fra affermazioni
e performativi come mutuamente esclusiva e' assurdo e che una volta riconosciuta l'esistenza di
enunciati performativi, bisogna invece trarne la conseguenza piu' radicale che il linguaggio e' azione.
Che il linguaggio deve essere descritto e studiato in quanto azione. E cio' senza eccezione:
l'affermazione, supposto veicolo della conoscenza teoretica, e' anch'essa un atto linguistico, ha
condizioni di felicita' o buona riuscita, realizza una procedura convenzionale che ha effetti
convenzionali, ed e' l'oggetto di giudizio nella dimensione della corrispondenza ai fatti
(verita'/falsita', ma anche approssimazione, esattezza, vaghezza, generalita'...) proprio in quanto atto
linguistico effettivamente eseguito, cioe' (essenzialmente) in relazione agli scopi del parlante che
l'ha fatta e di quello che poi la giudica, i quali rendono pertinenti standard di valutazioni diversi.
La compresenza di livelli gia' notata in "La verita'" per quanto riguarda il giudizio di verita'/falsita'
che sara' anche veicolo di un atto di conferma, ma e' comunque un "dire" che si da' nel caso specifico
una certa relazione fra parole e mondo, diventa oggetto di una teorizzazione piu' sistematica, la
compresenza dei livelli dell'atto locutorio (atto di dire qualcosa) e illocutorio (atto di fare qualcosa
nel dire qualcosa).
Infine, in sintonia con "La verita'", il capitolo 11 di "Come fare cose con le parole" descrive
l'affermazione (statement) come atto linguistico e in particolare atto illocutorio (sullo stesso piano
di atti quali: promessa, ordine, nomina, stima, scusa...), proponendone alcune condizioni di felicita',
suggerendo mediante esempi il variare degli standard nel giudizio relativo alla corrispondenza ai
fatti, e sostenendo, piu' in generale, che per tutti i tipi di atti allocutori esistono due livelli di
giudizio: uno che conferma o disconferma la validita' della procedura seguita e del suo effetto
convenzionale (felicita'/infelicita'), l'altro, logicamente successivo, che valuta quanto e' stato
detto/fatto alla luce dei fatti, decidendo se era o non era la cosa giusta da dire/fare in quelle
circostanze e per quegli scopi. A questo secondo livello di giudizio appartiene il giudizio di
verita'/falsita'.




N° Post: 445
Sipolino Fabio
Monday 2nd of August 2021 08:23:31 AM


LUDWIG WITTGENSTEIN (1889-1951)









"Quando penso al profondo pessimismo di lui, all'intensita' delle sue sofferenze mentali e morali, all'inflessibilita' con la quale sprono' il proprio intelletto, al suo bisogno d'affetto a cui andava unita un'asprezza che respingeva l'affetto, mi pare che la sua vita debba essere stata crudelmente infelice. Eppure, mentre stava per morire, esclamo' egli stesso che era stata meravigliosa!" (Norman Malcolm)

BIOGRAFIA

Nasce a Vienna nel 1889 da una famiglia molto benestante (il padre era un industriale dell'acciaio), di origine ebraica (i nonni s'erano convertiti al protestantesimo); la madre invece era divenuta cattolica e fara' battezzare il figlio.

A Linz fu compagno di classe di A. Hitler. Pare che nel Mein Kampf il Fu'hrer accenni alla figura di un giovane ebreo di Linz, presentato come causa del proprio antisemitismo. Egli vedeva in lui un giovane omosessuale, "poco sviluppato", "traditore" e "molto indiscreto". L'aspetto piu' curioso e' che, secondo Kimberlev Cornish, un allievo di Paul Feyerabend, anche Wittgenstein era razzista e proprio da lui Hitler maturo' le proprie considerazioni.

Studia ingegneria a Berlino e durante la giovinezza medita il suicidio piu' volte. Nel 1908 si trasferisce a Manchester per studiare ingegneria, aeronautica e matematica. Qui un docente di logica e matematica, Frege, gli consiglia, nel 1911, di andare a Cambridge a studiare logica da Russell.

Russell rimane cosi' impressionato dalla sua intelligenza che e' convinto d'aver trovato in lui il suo successore, ma Wittgenstein, nel biennio 1913-14, preferisce recarsi in Norvegia a studiare logica per conto suo: e' qui che inizia a scrivere il Trattato logico-filosofico.

Quando scoppia la prima guerra mondiale decide di partecipare come volontario per fare qualcosa di diverso dal lavoro intellettuale e per mettere alla prova se stesso in un'esperienza drammatica. Durante la guerra scrive i Diari segreti, pubblicati postumi. Combatte sul fronte russo e su quello italiano (altopiano di Asiago), dove ottiene diverse onorificenze e medaglie al valore militare, ma nel 1918 viene fatto prigioniero presso Trento dagli italiani e portato a Cassino, dove completa il Trattato, in cui sono evidenti influenze dalla filosofia di Schopenhauer e dalla logica di Frege, Whitehead, Moore e Russell.

Finita la guerra rientra a Vienna, si mette a leggere alcune opere di L. Tolstoj e i vangeli, poi regala ai fratelli l'ingente eredita' lasciatagli dal padre, morto nel 1913, e, dopo aver preso un diploma magistrale, si mette a fare il maestro elementare in alcuni villaggi austriaci, scrivendo un Glossario tedesco per le scuole elementari e continuando uno scambio epistolare con Russell. E' infatti grazie a lui che il suo Trattato, dopo essere stato pubblicato in una rivista austriaca nel 1921, viene tradotto in inglese l'anno successivo.

Viene contattato nel 1924 da M. Schlick, il fondatore del Circolo neopositivistico di Vienna (1), perche' considera il Trattato un capolavoro. Ma Wittgenstein continua a fare il maestro elementare fino al 1926, pur in mezzo a varie contestazioni (anche giudiziarie) da parte dei genitori dei suoi alunni; dopodiche' si mette a fare il giardiniere presso un convento viennese di frati ospitalieri di Hu'tteldorf, pensando anche di prendere i voti religiosi. Non solo non aderisce ufficialmente al Circolo, ma spesso lo accusa d'averlo frainteso. In ogni caso s'incontra qualche volta, nel 1927, con Schlick, Carnap, Feigl e Waismann.

Tuttavia, dopo un biennio trascorso a fare il progettista e l'architetto per la nuova casa della sorella Margarethe, decide - sotto pressione dell'economista J. M. Keynes - di ritornare a Cambridge nel 1929, per conseguire il dottorato accademico di filosofia, discutendo le tesi del suo Trattato, in cui aveva fatto a pezzi la metafisica, riducendo tutto a una questione di logica e di linguistica, benche' fosse gia' avviato a superare, dentro di se', i limiti del Trattato, proprio grazie alla sua esperienza di maestro elementare.

Egli infatti inizia a rivedere le tesi del Trattato gia' nel 1929, anche sulla scia delle critiche mossegli dal suo supervisore del dottorato, F. P. Ramsey, che riteneva insufficiente la dottrina delle proposizioni elementari, in forza delle quali non era possibile dimostrare l'assoluta indipendenza della logica dalla fisica. Anche l'economista italiano Piero Sraffa, docente a Cambridge, l'aveva criticato.

Negli anni 1930-36 svolge la funzione di Fellow (ricercatore) presso il Trinity College di Cambridge, dettando agli allievi i suoi appunti, che saranno pubblicati postumi nel 1958 col titolo di Libro blu e Libro marrone (dal colore della copertina dei quaderni). Da notare che Wittgenstein, oltre al Trattato e a un articolo di logica poco significativo, non pubblico' mai nulla, perche' si lamentava continuamente d'essere frainteso.

Nel Libro blu (1934-35) appare evidente il passaggio a una seconda fase del suo pensiero, molto diverso da quello del Trattato, in quanto il linguaggio viene considerato non piu' in maniera puramente logica e matematica, ma come un "gioco" in funzione dell'uso quotidiano che se ne fa.

Nel 1938 subentra alla cattedra di G. E. Moore a Cambridge e, dopo l'Anschluss di Hitler, non fa piu' ritorno in Austria. Quando scoppia la seconda guerra mondiale vuole partecipare come assistente medico in Inghilterra, perche' dopo il 1930 aveva preso a studiare medicina.

Le sue ultime lezioni a Cambridge le tiene nel 1947, dopodiche' va a vivere in Irlanda, in una capanna sulla costa occidentale, stando coi pescatori e addomesticando un gran numero di uccelli. Nel 1949 scopre di avere un cancro e muore nel 1951 a Cambridge.

Le Ricerche filosofiche pubblicate nel 1953 influirono enormemente sulla filosofia analitica anglo-americana, non meno del Trattato sul Circolo di Vienna. Mentre sul "primo Wittgenstein" e' unanime il giudizio ch'egli appartenga a una corrente di pensiero logico che va da Leibniz a Hume fino a Russell, riguardo invece al "secondo Wittgenstein" si ritiene che non vi siano precedenti nel pensiero filosofico occidentale. A tutt'oggi vengono ritenuti decisivi i suoi contributi alla filosofia del linguaggio e alla filosofia della mente, ma anche in campi non strettamente filosofici come la teoria dell'informazione e la cibernetica (dagli algoritmi agli operatori booleani sino ai linguaggi formali dell'informatica). Altri testi rilevanti ricavati dagli scritti inediti del filosofo sono le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1937-44), le Osservazioni sui fondamenti della psicologia (seconda meta' degli anni '40), Zettel (1945-48), Della certezza (1950-51) e le Osservazioni sul 'Ramo d'oro' di Frazer (composte nel 1931, ma con alcune aggiunte molto posteriori). Ulteriori pagine diaristiche e autobiografiche e altre di interesse etico, religioso ed estetico sono state pubblicate in tempi e luoghi diversi (molto importanti sono anche le epistole).

(1) Il Circolo duro' dal 1923 al 1938, anno dell'Anschluss hitleriano: Schlick fu ucciso da uno studente nazista; gli altri emigrarono negli Usa. Il suo manifesto programmatico e' del 1929, le cui principali tesi sono analoghe a quelle dei positivisti: l'unico metodo capace di fornirci conoscenze valide e' quello basato su esperimenti, ripetibilita' dei controlli e rigore concettuale. La metafisica quindi non e' considerata in alcun modo scientifica. Il neopositivismo tuttavia nega che possa esistere una stretta continuita' tra pensiero ed esperienza, in quanto la scoperta della relativita' e delle geometrie non-euclidee avevano rivoluzionato la fisica e la matematica, nel senso che non tutto cio' che e' vero in teoria puo' essere vero anche nella realta'. Di qui l'interesse per i problemi del linguaggio: per stabilire una qualunque verita' logica bisogna prima definire il senso delle espressioni che si usano, ovvero le condizioni in cui il loro senso puo' essere verificato. Sulla base di questi presupposti i neopositivisti apprezzavano del Trattato di Wittgenstein l'idea che di cio' di cui non possiamo parlare e' meglio tacere; solo che mentre per loro risultava significativo solo quanto si poteva dire, per Wittgenstein invece anche il mistico aveva il suo significato, benche' non lo si potesse esprimere. Di qui il suo rifiuto di partecipare ai loro incontri.

IL "PRIMO WITTGENSTEIN"

Il titolo latino Tractatus logico-philosophicus, dato alla sua principale opera del primo periodo, fu proposto da G. E. Moore, quando si decise di pubblicarla in inglese, in omaggio al Tractatus theologico-politicus di Spinoza, benche' la stesura formale assomigli di piu' all'Etica di quest'ultimo.

Il Trattato, che si pone come obiettivo quello di porre dei criteri per definire "sensato" un qualunque linguaggio, si presenta come un insieme di sette proposizioni basilari, brevi e perentorie, cui seguono altre proposizioni: suo compito e' quello di tracciare un limite linguistico all'espressione dei pensieri, nel senso che se vi e' qualcosa che puo' essere detto, bisogna dirlo chiaramente; su cio' invece di cui non si puo' parlare, perche' va al di la' dell'esperienza, e' meglio tacere. Quindi la metafisica non ha per lui alcun senso e le uniche proposizioni sensate sono quelle delle scienze della natura.

Le sette proposizioni sono le seguenti: 1) Il mondo e' tutto cio' che accade; 2) Cio' che accade, il fatto, e' il sussistere di stati di cose; 3) L'immagine logica dei fatti e' il pensiero; 4) Il pensiero e' la proposizione munita di senso; 5) La proposizione e' una funzione di verita' delle proposizioni elementari; 6) La forma generale della funzione di verita' e': ; 7) Su cio' di cui non si puo' parlare, si deve tacere.

Cerchiamo di spiegarle: 1) non ci sono mondi ultraterreni (o, se ci sono, non sono comprensibili) e il passato non puo' influire piu' di tanto sulla comprensione del presente; 2) il fatto e' determinato da condizioni di spazio, tempo e colore (cromaticita'), che sono frutto di combinazioni di elementi semplici, irriducibili tra loro; 3) il pensiero ha un senso quando da' un senso logico ai fatti; 4) il senso logico dei fatti e' il senso della proposizione minima (atomica, molecolare); 5) il senso logico della proposizione minima decide la verita' dei fatti (primato della logica sulla realta'); 6) la tecnica per stabilire le proposizioni minime e' puramente logica e si basa su determinati assunti (che Wittgenstein descrive con tre simboli, i quali rispettivamente vogliono dire: tutte le proposizioni atomiche, qualsiasi insieme di proposizioni scelte, la negazione di tutte le proposizioni scelte): gli assunti devono portare alla conclusione che tutto cio' che e' complesso puo' essere ricavato da cio' che e' semplice, ovvero il semplice si ricava per sottrazione. L'oggetto semplice e' il fisso, il sussistente; la configurazione e' il vario, l'incostante. 7) Tutto quanto non appartiene alla logica, non da' conoscenza certa, per cui non va neppure affrontato ipoteticamente.

La filosofia serve soltanto per dire alle scienze naturali quando le loro proposizioni vanno oltre il limite della verificabilita'. La filosofia non e' una dottrina ma un'attivita' che deve aiutare a chiarire i limiti delle proposizioni che si presentano scientifiche o logiche. Tutto quanto riguarda l'etica e' attivita' pratica che non puo' essere descritta in maniera logica: fa parte dell'esperienza interiore ed e' indicibile, ovvero si mostra in un'esperienza di vita ma non si spiega.

Il Trattato e' dunque una teoria del linguaggio (2), visto come totalita' di proposizioni che danno significato ai fatti, i quali, senza interpretazione, sono muti. Il linguaggio s'identifica col pensiero: siccome non e' pensabile nulla di sensato che vada al di la' del mondo, il linguaggio assume una funzione logica solo per i fatti del mondo. Si puo' pensare a cio' che va oltre il mondo, ma non lo si puo' definire in una conoscenza certa. La teoria del linguaggio e' basata sull'idea che gli enunciati dotati di senso sono solo quelli descrittivi, cioe' confrontabili coi fatti: i nomi sono etichette da porre sugli oggetti (isomorfismo).

Il mondo e' composto di fatti atomici, tra loro indipendenti e composti da oggetti semplici, indecomponibili e che si possono combinare in varie forme di spazio, tempo e colore. Se infatti non fossero atomici, ma strettamente interconnessi, una interpretazione logica sarebbe impossibile, in quanto bisogna ridurre tutto all'unita' piu' semplice, da cui non si possa dedurre altro. P. es. una proposizione complessa come questa: "oggi piove e tira vento", va scomposta in proposizioni elementari: "piove" e "tira vento".

Anche in grammatica - come noto - una frase complessa puo' essere suddivisa in frasi semplici, in cui e' sufficiente che vi sia un verbo, e qualunque grammatico sostiene che il significato semantico di una frase semplice dipende appunto dal suo significato sintattico, che e' appunto determinato dal fatto che le parole sono strutturate attorno a un verbo.

Una proposizione ha senso se esprime la possibilita' di un fatto, che e' l'esistenza o la struttura di uno stato di cose. P. es. se dico "fuori piove", lo sguardo degli studenti di un'aula si rivolgera' verso la finestra per trovare una conferma immediata. Se dico "oggi piovera'", gli stessi studenti guarderanno nei loro cellulari le previsioni del meteo. Ma se dico "se fuori piove, piovera' anche dentro", gli alunni penseranno che io non sappia quel che dico. Eppure quella proposizione puo' essere interpretata in due maniere: fisica (nell'aula accanto il tetto e' guasto e in effetti piove dal soffitto), simbolica (il tempo brutto rende gli studenti depressi). Questo secondo significato e' estraneo al Trattato, ma non alle Ricerche filosofiche, che appunto parlano di un uso del linguaggio che va al di la' dei sensi specifici di natura logica, anche se Wittgenstein non arrivera' mai a dire che la frase "oggi piove dopo un anno di siccita'" vuole indicare una dipendenza dell'uomo dalla natura o da dio: questi nessi causali restano per lui di tipo mistico o superstizioso.

Poiche' Wittgenstein ammette un senso solo alle proposizioni piu' semplici, relative a fatti atomici, vuole spingersi a formulare delle proposizioni logiche che possono anche non trovare riscontri effettivi nella realta', ma che si giustificano di per se stesse. Egli infatti arriva a sostenere che determinate proposizioni (p. es. "piove o non piove") possono esprimere tutte le possibilita' che si riferiscono al tempo, a prescindere dal tempo che fa, per cui non possono essere ne' confermate ne' contraddette: sono proposizioni tautologiche e quindi sempre vere. E' il trionfo della sintassi sulla semantica. Una frase rapportata alla realta' puo' non avere senso, pur appartenendo al senso della logica formale.

Anche la frase "piove e non piove" non ha senso nella realta', eppure e' un esempio valido di contraddizione da usarsi nella logica, in quanto essa risulta sempre falsa, qualunque cosa accada. Sono frasi prive di senso ma lecite. La logica non e' che la teoria della forma delle proposizioni del linguaggio, che prescinde dalla realta', anzi la spiega.

Dunque, se da un lato esistono proposizioni significanti come quelle delle scienze naturali, dall'altro esistono proposizioni tautologiche, da usarsi nella logica formale. Tutta la filosofia, quando pretende di essere una "visione del mondo", e' composta di frasi senza senso. L'unica cosa ch'essa puo' fare e' quella di porre un limite tra cio' che si puo' dire in maniera sensata e cio' che invece non si puo' dire. Se non si hanno risposte sensate da dare alle proprie domande, significa che le domande sono mal poste.

Nessuna risposta e' sensata quando pretende di stabilire delle leggi universali e necessarie: la scienza naturale si deve limitare a cio' che e' contingente. Non possiamo proiettare sul mondo, mentre lo descriviamo, i nostri schemi di rappresentazione, come se esistesse un nesso causale necessario tra la teoria e la realta'. Le teorie scientifiche hanno soltanto un valore convenzionale: fuori della logica tutto e' casuale e accidentale.

(2) E' impossibile non vedere in questo Trattato i richiami alle teorie linguistiche dell'ultimo Platone, alla Logica di Aristotele e al dibattito medievale sugli Universali.

IL "SECONDO WITTGENSTEIN"

Quando inizia l'insegnamento al Trinity College di Cambridge, a partire dagli anni Trenta, gli intellettuali successivi alla generazione di Russell avevano cominciato a respingere l'atomismo logico, cioe' la riduzione del linguaggio a una mera denominazione degli oggetti. Wittgenstein vi partecipo' modificando nettamente le sue posizioni: lo attestano le Ricerche filosofiche.

Parti' dal presupposto che l'uso dei nomi, soprattutto nella vita quotidiana, non e' cosi' costante come quando si devono definire dei fatti o degli oggetti scientifici. A volte addirittura certe espressioni linguistiche non indicano alcun oggetto ma piuttosto degli stati d'animo, al punto che con talune espressioni linguistiche non parliamo di cose ma facciamo le cose. Questo e' ben visibile nell'uso grammaticale delle interiezioni: ciao, uffa, accidenti, ehi, toh, mah, eccetera. Ma si puo' arrivare sino alla differenza tra significato denotativo (indicativo di un oggetto) e significato connotativo o figurato, il quale puo' diminuire il tasso di informazione delle parole, ma aumentare quello di espressivita', in quanto coinvolge la sfera emotiva.



Il problema che, a questo punto, si pone e': si puo' fare della logica formale con un linguaggio connotativo? Ovviamente no. Ma Wittgenstein si chiede: quando parliamo di linguaggio dobbiamo per forza dare un primato assoluto a quello logico formale? Non si puo' dire nulla di scientifico su quello che si usa quotidianamente? Si', si puo' farlo, ma a condizione di stabilire preventivamente il campo semantico, chiamato da Wittgenstein gioco linguistico, in cui una determinata parola o espressione viene usata. Il linguaggio denominativo e' solo uno dei campi linguistici.

Wittgenstein elenca varie funzioni di linguaggio: dare ordini ed eseguirli, inventare una storia e leggerla, recitare in teatro, cantare in girotondo, sciogliere indovinelli, raccontare una barzelletta, tradurre da una lingua all'altra, chiedere, invocare, ringraziare, imprecare, salutare, pregare, fare congetture su un evento riportato, fare un disegno di un oggetto, rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi, decidere dei segnali stradali, ecc. Tutti questi campi li chiama "giochi" perche' ogni gioco deve sottostare a regole ben definite.

Il linguaggio ha una molteplicita' infinita di funzioni, che nascono e muoiono di continuo. L'importante e' convincersi che il significato di una parola spesso dipende proprio dall'uso che se ne fa a seconda del contesto semantico scelto. Usare una parola o un'espressione in un contesto sbagliato puo' ingenerare confusione, equivoci, malintesi... Oppure una parola o un'espressione puo' apparire priva di senso non perche' in se' sia davvero insensata, ma solo perche' e' stata estrapolata arbitrariamente dal suo contesto oppure perche' e' caduta in disuso.

Ci si rende quindi facilmente conto che al secondo Wittgenstein interessa analizzare il linguaggio non tanto per identificare le regole logiche cui obbedisce, quanto per individuare l'ambito pre-logico su cui si fonda. Per capire la differenza basta vedere con quanta facilita' una mamma possa comprendere il proprio neonato, nel momento in cui inizia a emettere le prime sillabe o le prime parole, che risultano a un estraneo del tutto incomprensibili. Lo stesso neonato non impara il linguaggio attraverso l'apprendimento di regole, ma mediante l'addestramento all'uso.



Quindi la concordanza tra linguaggio e realta' non puo' essere stabilita una volta per tutte, ma va individuata di volta in volta, a seconda del campo semantico. Alla fine si scopre che c'e' una verita' diversa all'interno di ciascun gioco linguistico. Si pensi soltanto a quante parole la religione ha monopolizzato attribuendo ad esse un significato diverso da quello originario o da quello che potrebbe dare una concezione della vita non religiosa: fede, comunione, anima, spirito, credere, paradiso, inferno, ecc.

Dunque, siccome usiamo parole identiche in diversi campi semantici, deve per forza esistere tra loro una certa affinita' familiare o parentale, altrimenti le analogie sarebbero impossibili. A puo' somigliare a B in una determinata caratteristica, B a C in un'altra. Questo per Wittgenstein significa che non esistono dei concetti universali che possiamo usare in qualunque gioco linguistico con lo stesso significato (p. es. le idee di mondo, essere, io, esperienza, ecc.).

Wittgenstein comunque continua a escludere, come nel Trattato, che possano esistere dei mezzi conoscitivi in grado di farci provare sensazioni o sentimenti altrui. Non e' cioe' possibile, in generale, stabilire una relazione precisa tra il linguaggio e il comportamento, tra l'intenzione manifestata con le parole e la veridicita' o meno del proposito. La stessa natura mistica, che riguarda l'etica, l'estetica, la religione..., non puo' neppure essere espressa con un linguaggio, ma solo "mostrata".

La filosofia non deve aspirare soltanto a un linguaggio perfetto (artificiale, logico-simbolico), ma anche a eliminare la confusione, nell'uso quotidiano delle parole, che puo' derivare dalla mancata distinzione dei campi semantici.

IL FORMALISMO LOGICO

Per il primo Wittgenstein le cose hanno senso solo nella misura in cui vengono descritte con proposizioni logiche, coerenti (il suo e' un formalismo logico). Paradossalmente, le tautologie - a suo giudizio - sono sempre vere, anche se non ci danno alcuna informazione sugli avvenimenti del mondo, perche' non dipendono, per la loro verita', da questi avvenimenti. Cioe' le tautologie non sono sempre false, se non hanno riscontri nella realta', ma sempre vere, appunto perche' logiche, e la logica, per essere vera, non ha bisogno della verifica pratica.

In realta', una definizione e' vera solo se e' vero l'avvenimento o il fenomeno da cui dipende (benche' la verita' di un avvenimento non sia cosa che possa essere stabilita una volta per tutte, a prescindere dalla liberta' del soggetto che l'osserva). Pretendere una verita' teorica incontrovertibile quando la si nega a livello pratico, significa fare professione di idealismo, seppure a livelli visibilmente esasperati.



Il fatto che una definizione sia vera non dovrebbe in realta' implicare ch'essa debba possedere una grande coerenza (logica formale). La vera coerenza e' fra teoria e prassi: se la (verita' della) prassi e' minima, minima dev'essere anche la (verita' della) teoria. Solo cosi' una teoria puo' pretendere d'essere credibile, verificabile... Purtroppo l'intellettualismo occidentale ci ha abituato all'idea di credere che una verita' affermata in sede teorica sia anche automaticamente vissuta a livello pratico.

Una tautologia non e' sempre vera, perche' tutto dipende dal termine di riferimento concreto. La verita' non e' mai in se', ma in relazione a qualcos'altro. Stesso discorso vale per le contraddizioni, che di per se' non sono mai false. E' un mito quello di credere che vi possa essere una discriminante in grado di stabilire, a priori, quando una definizione e' vera o falsa. Il neo-positivismo, che ha voluto considerare insensata la metafisica, e' diventato esso stesso metafisico, poiche' non ha voluto cercare un rapporto con la realta'. La metafisica borghese potra' essere parziale, riduttiva, falsa, ma certo non e' insensata.

Il neo-positivismo e' partito da una considerazione negativa della realta': la realta' - esso afferma - non ha senso, per cui l'unico vero senso e' quello che si puo' trovare nella coerenza formale del linguaggio (da notare che questa corrente neo-positivistica ritiene che il problema del senso non sia un falso problema: esso va soltanto contestualizzato, storicizzato).

Di fronte al problema del senso della vita e' meglio tacere - diceva Wittgenstein -, poiche' qui una risposta convincente, esauriente, non esiste. La realta' e' cosi' incomprensibile che nemmeno la matematica e' in grado di conoscerla o descriverla.

Il neo-positivismo sfocia cosi' nell'irrazionalismo (seppur a livello teorico). Le premesse, naturalmente, erano gia' in Galilei. L'aver ridotto tutto a misura e quantita', non poteva portare che al nichilismo. La nascita della scienza moderna parte da un presupposto maligno.

Nel migliore dei casi, il neo-positivismo del Circolo di Vienna afferma che il senso di una proposizione e' dato dal modo specifico con cui essa puo' essere sottoposta a verifica nell'esperienza. E tuttavia i neo-positivisti partono dal presupposto (pregiudizievole) che solo una determinata esperienza (elementare, sensibile) e' in grado di verificare l'attendibilita' di certe proposizioni.

Non e' singolare che il piu' alto sviluppo dell'epistemologia (cioe' il neo-positivismo logico) debba andare a ricercare l'attendibilita' di certe proposizioni in un'esperienza sensibile elementare? La realta', per questi cultori della scienza fine a se stessa, e' ritenuta un fenomeno cosi' complesso, ch'essi pensano di poterla vivere solo a condizione di limitarsi alle esperienze piu' primitive, piu' primordiali, piu' semplici, quelle meno equivocabili, ritenute piu' universali. Come se potesse esistere un'esperienza intorno alla quale l'equivoco possa essere ridotto al minimo ope legis! Il neo-positivismo da un lato sembra auspicare il ritorno all'esistenza dell'uomo primitivo, dall'altro pero' si comporta come una filosofia borghese stanca e decadente (quella tipica del primo dopoguerra).

Il neo-positivismo logico ha ridotto la filosofia a un'ancella della scienza. Allontanatisi dalla politica, questi filosofi della scienza hanno accettato, nel metodo, l'identita' di filosofia e metafisica, anche se, nel contenuto, hanno cercato di subordinare la filosofia alla scienza.

E' vero che il neo-positivismo esclude qualsiasi questione di ordine metafisico, nell'esame dei procedimenti seguiti dalla scienza, ma e' anche vero ch'esso riproduce in se' i limiti della tradizionale metafisica idealistica, poiche' non e' riuscito ne' a valorizzare l'umanesimo integrale, ne' ad accettare una pratica scientifica vera e propria.

Il neo-positivista, sostenendo che ogni proposizione metafisica non ha senso, rinuncia a qualsiasi tentativo di storicizzare la filosofia, per cui inevitabilmente ricade nella metafisica. Egli non fa "scienza" come lo scienziato, poiche' crede di poter dire qualcosa di piu' con la propria filosofia; pero' non svolge neppure una filosofia di vasto respiro, poiche' teme di cadere nella metafisica. E cosi' non si rende conto che nella metafisica ci si ricade ogni volta che si stacca la riflessione teorica dall'esperienza pratica.



Questa filosofia borghese e' come se fosse bloccata, destinata a impoverirsi (tant'e' ch'essa si limita al simbolismo matematico e all'analisi del linguaggio). Nell'emanciparsi in modo individualistico e intellettuale dalla metafisica e dalla religione, essa stessa e' diventata una religione, poiche' ha fatto della scienza il proprio idolo da adorare.

SUL LINGUAGGIO

Tutto l'interesse che i neo-positivisti hanno avuto per il linguaggio (si pensi soprattutto a Wittgenstein) e' nato da una semplice domanda: l'insignificanza della realta' e' assoluta o relativa? di sostanza o di forma? Se e' relativa o di forma, essa dipende forse dal fatto che non parliamo tutti lo stesso linguaggio? Cioe' nel senso che, pur dicendo le stesse cose, non le diciamo alla stessa maniera o con lo stesso scopo? E' insomma possibile che, lavorando sul linguaggio (trovando un linguaggio il piu' possibile neutro, scientifico) l'insignificanza venga ridotta al minimo?

Il neo-positivismo - come si puo' notare - cerco' nel linguaggio una risposta alla disperazione della vita. Di questo sforzo bisogna rendergli atto. Tuttavia, esso diede una risposta piuttosto povera alle suddette domande: solo un certo tipo di linguaggio - affermarono i neo-positivisti - risulta accettabile, comprensibile, quello logico-formale della matematica; e solo un tipo di esperienza risulta veramente attendibile, quella della fisica sperimentale. Per timore di cadere in un'astratta metafisica, i neo-positivisti finirono col cadere in una metafisica, per cosi' dire, "concreta".

Il secondo Wittgenstein (e non Popper) ha elaborato un abbozzo di alternativa alla poverta' matematizzante e fisicalista-essenzialista del neo-positivismo. Egli infatti arrivo' a dire che se anche il linguaggio scientifico della logica-formale e' il migliore possibile, tutti gli altri linguaggi, pur non essendo scientifici, non per questo sono privi di logica. Di qui la necessita' di studiarli in maniera seria, approfondita.

Ovviamente si trattava solo di un abbozzo di alternativa. Il neo-positivismo, in Wittgenstein, aveva attenuato le proprie pretese di iper-scientificita', ma ancora non s'era posto il problema (ne' lo ha fatto oggi) di sapere se nei linguaggi non logico-formali esiste un significato in grado di giudicare validamente le stesse scienze esatte e sperimentali.

Per il secondo Wittgenstein il significato di una parola non-scientifica coincide con il suo uso, per cui si tratta di collegare le varie parole tra loro in riferimento a un determinato contesto semantico (in grado di inglobarle tutte). Wittgenstein non e' mai uscito dai limiti del formalismo.

Dire che un'esperienza linguistica ha senso solo in quanto e' logica (se riferita a un contesto semantico) non significa ancora che quella logica sia vera. Per non parlare del fatto che la ricostruzione formale della coerenza di un'espressione linguistica puo' essere il frutto di un'interpretazione distorta del contesto semantico.

La filosofia come "critica del linguaggio"

4 Il pensiero e' la proposizione munita di senso.
4.002 L'uomo possiede la capacita' di costruire i linguaggi, con i quali ogni senso puo' esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. - Cosi' come si parla senza sapere come i singoli suoni siano emessi.
4.003 Il piu' delle proposizioni e questioni che sono state scritte su cose filosofiche non e' falso, ma insensato. Percio' a questioni di questa specie non possiamo rispondere, ma possiamo stabilire la loro insensatezza. Il piu' delle questioni e proposizioni dei filosofi si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio,
4.0031 Tutta la filosofia e' "critica del linguaggio".
4.112 Scopo della filosofia e' la chiarificazione logica dei pensieri.
La filosofia non e' una dottrina, ma un'attivita'.
Un'opera filosofica consiste essenzialmente d'illustrazioni.
Risultato della filosofia non sono "proposizioni filosofiche", ma il chiarirsi di proposizioni.
4.113 La filosofia limita il campo disputabile della scienza naturale.
4.114 Essa deve delimitare il pensabile e con cio' l'impensabile.
4.116 Tutto cio' che possa esser pensato puo' esser pensato chiaramente. Tutto cio' che puo' formularsi puo' formularsi chiaramente.
4.023 La realta' dev'essere fissata dalla proposizione al si' o no.
4.024 Comprendere una proposizione vuol dire saper che accada che se essa sara' vera.
4.3 Le possibilita' di verita' delle proposizioni elementari significano le possibilita' di sussistenza e d'insussistenza degli stati di cose.
4.4 La proposizione e' l'espressione della concordanza e discordanza con le possibilita' di verita' delle proposizioni elementari.
4.46 Tra i possibili gruppi di condizioni di verita' vi sono due casi estremi.
Nel primo caso la proposizione e' vera per tutte le possibilita' di verita' delle proposizioni elementari. Noi diciamo che le condizioni di verita' sono tautologiche.
Nel secondo caso, la proposizione e' falsa per tutte le possibilita' di verita': le condizioni di verita' sono contraddittorie.
Nel primo caso chiamiamo una proposizione tautologia; nel secondo, una contraddizione.

(L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1979)

Il Mistico

5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.
6.41 Il senso del mondo deve essere fuori del mondo. Nel mondo tutto e' come e', e tutto avviene come avviene; non v'e' in esso alcun valore - ne' se vi fosse, avrebbe valore.
Se un valore che abbia valore v'e', esso dev'essere fuori d'ogni avvenire ed essere-cosi'. Infatti, ogni avvenire ed essere-cosi' e' accidentale.
Cio' che li rende non accidentali non puo' essere nel mondo, che' altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale.
Dev'essere fuori del mondo.
6.421 E'chiaro che l'etica non puo' formularsi.
L'etica e' trascendentale.
(Etica ed estetica sono un tutt'uno.)
6.4312 L'immortalita' temporale dell'anima dell'uomo, dunque l'eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non e' per nulla garantita, ma a supporla, non si consegue affatto cio' che supponendola, si e' sempre perseguito. Forse e' sciolto un enigma percio' che io sopravviva in eterno? Non e' forse questa via eterna cosi' enigmatica come la presente? La risoluzione dell'enigma della vita nello spazio e nel tempo e' fuori dello spazio e del tempo.
6.432 Come il mondo e', e' affatto indifferente per cio' che e' piu' alto. Dio non rivela se' nel mondo.
6.44 Non come il mondo e', e' il Mistico, ma che esso e'.
6.5 D'una risposta che non puo' formularsi non si puo' formulare neppure la domanda.
L'enigma non v'e'.
Se una domanda puo' porsi, puo' avere risposta.
6.52 Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo allora non resta piu' domanda alcuna; e appunto questa e' la risposta.
6.522 Ma v'e' dell'ineffabile. Esso si mostra, e' il Mistico.
6.53 Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non cio' che puo' dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare -, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l'altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo la filosofia -, eppure esso sarebbe l'unico metodo rigorosamente corretto.
6.54 Le mie proposizioni illuminano cosi': Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se e' salito per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per cosi' dire gettar via la scala dopo che v'e' salito).
Egli deve trascendere queste proposizioni; e' allora che egli vede rettamente il mondo.
7 Su cio', di cui non si puo' parlare, si deve tacere.

(L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1979)

Introduzione alla filosofia del linguaggio

Fonti

Gottlob Frege, Senso, funzione e concetto, ed. Laterza, Bari 2007
Gottlob Frege, Ricerche logiche, ed. Guerini e Associati, Milano 1999
Frege Gottlob, Scritti postumi, 1987, Bibliopolis
Gottlob Frege, Logica e aritmetica, ed. Boringhieri, Torino 1965
Wittgenstein Ludwig, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, 2009, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Ricerche filosofiche, 2009, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Lezioni di filosofia (1930-1933). Annotate e commentate da George E. Moore, 2009, Mimesis
Wittgenstein Ludwig, Lezioni sui fondamenti della matematica, 2002, Bollati Boringhieri
Wittgenstein Ludwig, Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa, 1967, Adelphi
Wittgenstein Ludwig, Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, 2007, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, 1990, Adelphi
Wittgenstein Ludwig, Ultimi scritti 1948-1951. La filosofia della psicologia, 2004, Laterza
Wittgenstein Ludwig, Esperienza privata e dati di senso, 2007, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Della certezza. L'analisi filosofica del senso comune, 1999, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937, 1999, Quodlibet
Wittgenstein Ludwig, Causa ed effetto-Lezioni sulla liberta' del volere, 2006, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Note sul "Ramo d'oro" di Frazer, 1975, Adelphi
Wittgenstein Ludwig, Osservazioni sui colori, 2000, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Osservazioni filosofiche, 1999, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Pensieri diversi, 1980, Adelphi
Wittgenstein Ludwig, Diari segreti, 2001, Laterza
Wittgenstein Ludwig, Libro blu e Libro marrone, 2000, Einaudi
Wittgenstein Ludwig, Lettere a Ludwig von Ficker, 1989, Armando Editore
Wittgenstein Ludwig, Ludwig e gli amici. Lettere, 2010, Quattroventi
Wittgenstein Ludwig, Vostro fratello Ludwig. Lettere alla famiglia (1908-1951), 1999, Archinto
Wittgenstein Ludwig, Lettere a C. K. Ogden. Sulla traduzione del "Tractatus logico-philosophicus", 2009, Mimesis
Wittgenstein Ludwig; Bouwsma Oets K., Ludwig Wittgenstein. Conversazioni annotate da Oets K. Bouwsma, 2005, Mimesis
Wittgenstein Ludwig, Lezioni 1930-1932. Dagli appunti di John King e Desmond Lee, 1995, Adelphi
Wittgenstein Ludwig, Conversazioni e ricordi, 2005, Neri Pozza
Wittgenstein Ludwig, Lecture on ethics, 2007, Quodlibet
Wittgenstein Ludwig, La filosofia. Testo tedesco a fronte, 2006, Donzelli
Wittgenstein Ludwig, The Big Typescript, 2002, Einaudi
Rudolf Carnap, Analiticita', significanza, induzione, ed. Il Mulino, Bologna 1982
Carnap Rudolf, Lo spazio. Un contributo alla teoria della scienza, 2009, Morcelliana
Carnap Rudolf, Filosofia e sintassi logica, 1996, ETS
Enriques Federigo; Carnap Rudolf; Schlick Moritz, Filosofia scientifica ed empirismo logico (Parigi, 1935), 1993, Unicopli
Carnap Rudolf, Introduzione alla logica simbolica, 1978, La Nuova Italia
Carnap Rudolf, La costruzione logica del mondo, Utet 1997
A. Bonomi, La struttura logica del linguaggio, ed. Bompiani, Milano 1973
Ludwig Wittgenstein, Colloqui al circolo di Vienna, Mimesis, 2011
Wittgenstein e il Circolo di Vienna, ed. La Nuova Italia, Firenze 1979
Friedrich Waismann, Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna. Colloqui annotati, La Nuova Italia 1975
Siti

it.wikipedia.org/wiki/Ludwig_Wittgenstein
www.youtube.com/watch?v=i5IVnlOJ8ec
www.youtube.com/watch?v=1LYTYKgGVxE
www.lettere.unimi.it/dodeca/piana01/tr_indice.htm
plato.stanford.edu/entries/wittgenstein/
www.emsf.rai.it/percorsi_tematici/wittgenst/
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Prassi, prassi produttive e crisi. Gramsci, Wittgenstein e Sraffa (pdf)
Morale e linguaggio in Wittgenstein. Il riscatto della metafisica (pdf-zip)


Commenti:
Sipolino Fabio
Monday 2nd of August 2021 08:36:15 AM

http://www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=198
Commenti:
Sipolino Fabio
Tuesday 3rd of August 2021 12:07:36 PM

L'essere umano non ha il dono di poter "dimostrare" la verita' di cio' che dice.
Commenti:
Sipolino Fabio
Tuesday 3rd of August 2021 12:56:21 PM

Rudolf Carnap (1891-1970) fece notare che un qualunque enunciato scientifico non puo' mai pretendere di essere dimostrato in maniera assoluta.


N° Post: 438
Sipolino Fabio
Sunday 1st of August 2021 08:37:27 AM


Convegno Nazionale dei Dottorati di Ricerca in Filosofia






La logica come domanda verso l'essenza del linguaggio: etica e linguaggio in
M.Heidegger

Vorrei prima di tutto chiarire in questa relazione quelle che sono le motivazioni
piu' generali che reggono lo sviluppo di questo progetto di ricerca. E' oramai un
assunto comune che le questioni fondamentali della contemporaneita' si giocano
sul piano del linguaggio. La seconda meta' del '900 e' caratterizzata dall'esaurirsi
degli strascichi di quelle che erano le ideologie e le certezze del secolo precedente:
la religione prima e la storia poi lasciano il posto ad un vuoto che chiede di volta
in volta d'essere definito. Il confronto con qualcosa che e' per definizione
indefinibile in modo aprioristico diventa una sfida cruciale per chi non voglia
accontentarsi di quelle che sono le lusinghe dello scientismo tecnologico.
L'urgenza d'una comprensione del presente si e' fatta ancora piu' pressante dopo
che alla fine degli anni '80 la caduta dei blocchi mondiali ha fatto dilagare in tutto
il pianeta la concezione di una democrazia basata sulla comunicazione e
sull'informazione1. Oggi l'urgenza di un confronto sul piano del linguaggio sembra
non essere avvertita solo da profetici pensatori2 che a loro volta hanno accelerato
il processo d'una riduzione linguistica del mondo. Il piano del linguaggio che ha

1
Si veda per queste questioni D.Zolo Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, 1995; S. Rodota'
Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari, 1997. Per una visione piu' ampia
sulle questioni della globalizzazione si veda Z. Bauman In search of politics,, 1999,;tr. It. La solitudine del cittadino
globale, Milano, 20002
sostituito il piano della nazione e del paese d'appartenenza e' diventato il luogo
d'un confronto.
Ma tra chi o tra che cosa si da' il confronto?
Il confronto mi sembra che possa esserci tra una gia' avvenuta planetarizzazione
del linguaggio visto come mero mezzo di comunicazione e scambio di
informazioni, e una concezione piu' ampia, o se si vuole piu' originaria, del nostra
comune matrice linguistica. Questo confronto deve mirare innanzitutto a non
contrapporre sulla base di passate gerarchie metafisiche livelli piu' o meno alti di
linguaggio. Si deve piuttosto tentare una comprensione del nuovo orizzonte
linguistico all'interno del quale ci muoviamo. Questo e' un appunto utile per non
ricadere in un isolamento apocalittico che scaturisce dal rifiuto aprioristico del
linguaggio della comunicazione. Quello che si vuole cercare e' una terza via alla
dialettica proposta da Eco di apocalittici ed integrati. L'assunzione di questa terza
via vuole in pratica chiarire che la globalizzazione della concezione del linguaggio
nella sua veste utopica di mezzo di comunicazione che annulla le differenze
poggia, per dirla con Wittgestein, su un misunderstanding. La maggiore diffusione
e la sempre maggiore velocizzazione dei mezzi di comunicazione non devono
essere confusi con il livellamento delle differenze. Se questa confusione e' ancora
possibile significa che, a dispetto di una conclamata simbiosi di tecnologia e
comunicazione, giace ancora alla base della nostra concezione del linguaggio una
languente fondamento metafisico3. Per scogliere questi nodi bisogna quindi fare i

2
R. Rorty vede in Dewey, Wittgestein e Heidegger i pensatori che hanno dato una spinta in questo senso al pensiero. Io,
seguendo quanto dice E. Mazzarella in Nietzsche e la stotia, aggiungerei anche Nietzsche in quest'elenco.
3
Del resto sembra essere caratteristica propria di una visione scientista del linguaggio, quella del simbolismo logico di
Frege e Russel, tentare sulla base di una semiotica dualistico platonica, la riduzione della questione del linguaggio a
calcoli aritmetici. Questa concezione presuppone che le parole siano ridotte appunto a simboli per garantire attraverso
una maggiore astrazione anche una loro maggiore forza intuitiva: la forza piu' propria della logica formale. Si puo' allora
osservare come la velocita' di questo linguaggio e' direttamente proporzionata alla sua forza di riduzione delle differenze.
In questo senso si puo' interpretare anche l'algebra di Boole-Schroder che alla base dei calcolatori moderni. Ma per dirla
con Heidegger questo linguaggio preso dai suoi calcoli non si cura piu' del suo fondamento.3
conti fino in fondo e seriamente con "la questione del linguaggio". Solo in questo
modo e' possibile risolvere la scollatura tra l'effettivo funzionamento
dell'articolazione umana in parole e le pretese metafisiche, puntualmente
frustrate, che crescono nei suoi confronti. L'impegno deve essere quindi quello di
dimostrare l'impossibilita' dell'articolazione d'un linguaggio che voglia prescindere
dalle differenze.
Il percorso di pensiero di M. Heidegger penso che possa esser letto in questa
direzione. Il filosofo tedesco ha fatto della "differenza ontologica" il nucleo
portante di tutta la sua opera. La "differenza" che qui viene interpellata ha una
necessita' sia ontologica che ontica.4 Entrambi gli aspetti legati a quello che il
fulcro della Seinsfrage possono essere secondo me compresi solo se si fa
chiarezza sulla priorita' della questione del linguaggio in M. Heidegger. La prima
parte del progetto di ricerca, che costituisce la parte sostanziale del lavoro, sara'
quindi impegnato nel tentativo di mostrare come in Heidegger la questione della
differenza sia necessariamente connessa con quella del linguaggio e come questo
rapporto abbia anche delle dirette ricadute etiche. Ci sara' poi una seconda parte
dove si tentera' un accostamento di quanto e' scaturito dalla ricerca sul linguaggio
in Heidegger con i risultati piu' maturi della meditazione sul linguaggio di L.
Wittgestein. Questi due autori rappresentano in due ambiti di pensiero differenti,
quello storicistico continentale e quello analitico, il confronto piu' serrato e piu'
redditizio con le tematiche del linguaggio. E' evidente del resto la lontananza
d'impostazione tra il filosofo tedesco e quello viennese ma e' anche vero che la

4
Per la co0nsiderazione delle prospettive ontiche del pensiero heideggeriano si fa primario riferimento all'opera di E.
Mazzarella ma prima di tutto al suo scritto critico Ermeneutica dell'effettivita'. Prospettive ontiche dell'ontologia
heideggereiana., Napoli, 1993.4
corrente critica degli ultimi quarant'anni5, che tende a porli in relazione, e' per me
un valido supporto morale. Il confronto critico finale tra i due autori e' funzionale
allo stesso tentativo di dimostrare la necessita' logica delle differenze.
Reputo che un punto d'osservazione ideale per la comprensione della "differenza
ontologica" di Heidegger siano i suoi corsi sulla logica Aristotelica. Questi infatti
oltre ad essere la testimonianza dell'interesse del filosofo di confrontarsi con
quelle che sono le origini della logica Occidentale, permettono di guardare con
maggiore chiarezza gli sviluppi successivi della meditazione sul linguaggio dello
stesso. Fin dalle prime lezioni sulla logica aristotelica degli anni '20 e' chiara
l'intenzione di Heidegger di portarsi oltre la riduzione a disciplina logistica che
viene fatta nel medioevo cristiano dell'Organon. Qualche anno dopo in un corso
estivo del '34 Heidegger dice:< besseren oder schlechteren Denkverfahren, sondern das fragende Abschreiten der
Abgru'nde des Seins, nicht die vertrocknete Sammlung ewiger Denkgesetze,
sondern Stätte der Fragwu'rdigkeit des Menschen, seiner Gro? e.>>6 Gli interessi
che muovono il pensatore tedesco verso Aristotele sono di altra natura. I
riferimenti critici che aiutano il nostro nel suo compito interpretativo sono
Brentano ed Husserl. Tali critici della logica aristotelica hanno avuto il merito di
aprire nuove possibili prospettive in questo campo; entrambi hanno indicato ad
Heidegger la via di una logica antipsicologistica7. Grazie a loro Heidegger ha
potuto avviare, all'interno dei corsi sulla logica aristotelica, quella "critica del
significato" che gli ha permesso di riproporre la domanda sul senso dell'essere.

5
L.Perissinotto Heidegger e Wittgestein. Quarant'anni di studi in <>, n.s.
151, pp. 3-20, 1994
6
Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache Frankfurt a. M., 1998
7
Queste connessioni sono rese note da Heidegger in un corso tenuta Marburgo nel semestre invernale 1925-26, Logik.
Die Frage nach der Wahrheit. Frankfurt a. M., 1976. Nella traduzione italiana del testo si puo' vedere la sezione
Psicoloismo e problema della verita' pp.23-84, Milano, 1986 5
Questa domanda doveva ripartire da li' dove la logica e' divenuta consapevole di se
stessa, formalizzando il logoV di Parmenide e di Platone. La logica di Aristotele era
la possibilita' di reinterpretare la tecnica del discorso. Questi corsi, tenuti per lo
piu' a Freiburg, sono la preparazione di Sein und Zeit. Nell'opera del'27 avrebbe
dovuto esserci sulla base della lezione aristotelica la riproposizione della domanda
sul senso dell'essere. Ma proprio quanto Heidegger aveva appreso nelle sue lezioni
sulla logica gli manifestano l'impossibilita' di porre questa domanda senza
ricadere a sua volta in una fondazione metafisica del senso. Da qui la famosa
Kehre che indica la priorita' del linguaggio in ogni questione filosofica. La Kehre
che porta il linguaggio ad essere questione originaria di ogni filosofare, fa con
questo della Differenza, scorta nelle lezioni su Aristotele, lo stesso nucleo
inamovibile di ogni articolazione. L'interesse di questa parte della ricerca si
concentra sugli aspetti salienti di questo passaggio.
Una delle espressioni che maggiormente rendono il senso del dialogo che
Heidegger aveva intrattenuto con Aristotele negli anni '20 e' Formale Anzeige.
Questi termini sono resi in italiano con la locuzione "indicazione formale"8.
Il corso universitario che contiene questa espressione e' in realta' un corso sul
metodo e sulla giusta misura. Infatti Heidegger avvia una critica alla
"sopravvalutazione"(della logica formale) e alla "sottovalutazione"(delle scienze
concrete) dell'impostazione dei principi conoscitivi in filosofia. Ai due
atteggiamenti definitori della filosofia classica che hanno "occultato la differenza
ontologica" Heidegger risponde:< caratterizza nello stesso tempo come una definizione che appunto non da'
pienamente e propriamente l'oggetto da determinare ma lo indica soltanto; in

8 Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einfu'hrung in die phänomenologische Forschung, Frankfurt a.
M., 1922; tr. It. a cura di De Carolis M., Napoli 1985.6
quanto pero' autenticamente indicativa, essa lo prospetta in senso di
principio[...]indicato in modo tale che cio' che viene detto ha la proprieta' d'essere
formale[...]Cio' che e' vuoto nel contenuto e' al tempo stesso nella sua struttura di
senso cio' che da' la direzione all'attuazione.>>9 Cio' che Heidegger evidenzia mi
sembra essere l'impossibilita' di definire sul fondamento d'una significazione
egotica (che si basi metafisicamente sulla presenza fondante di un "io" logico) il
senso di una "definizione". Il senso in quanto indicazione e' sempre precedente
rispetto alla significazione, o e' per lo meno differente. Cio' che resta come
indicazione logica in questo corso e' lo spazio di differenza che permette il gioco di
appropriazione e dis-propriazione di senso e significato. La logica precedente
aveva sempre in vario modo usato indistintamente i due termini, operando una
riduzione del senso a significato. Solo Frege, nel campo della logistica, aveva
mostrato questa differenza (Sinn und Bedeutung) sottolineando, anche se sempre
in una declinazione soggettivistica, della quale del resto neanche Heidegger si e'
ancora completamente liberato, la diversa accezione dei due termini10. Questa
differenza e' la stessa che permettera' la scoperta della Differenza ineludibile della
Kehre. Oltretutto in queste pagine dei corsi giovanili si da' inizio a quella che e'
una interpretazione sostanzialmente cinetica della vita; in quanto il basamento
(bedrock per dirla alla Apel) egotico della riduzione a significato del senso
direzionale viene compreso nel nuovo nucleo logico che vive di energia propria
grazia alla distonia di senso e significato. In questa coppia terminologica si puo'
gia' leggere quella che sara' la coppia "ente ed essere" dello Heidegger successivo al

9
Opera cit. p. 67
10 < appartiene alla denotazione. Tuttavia non arriviamo mai a questo punto.>> da Sinn und Bedeutung in La struttura
logica del linguaggio .a cura di A. Bonomi, p. 11, Milano, 1995.7
'27. Quello che resta di questo rapporto e' il movimento che esso sprigiona
essendoci si' frizione tra i due ma non un aderenza che fissa.
Ora pero' bisogna capire come la differenza qui prospettata, mutuata poi nella
Hermeneutik der Faktizität11 ossia nella declinazione ermeneutica della
fenomenologia husserliana, significa per lo Heidegger di questi anni la liberazione
del senso della domanda sull'essere. Il risultato e' appunto la possibilita' di
concepire un discorso non definitorio che possa rendere attraverso
"l'interpretazione della fatticita'" il senso storico dell'essere. Il valore pre-logistico e
non definitorio del senso del linguaggio interrompe ogni pretesa aprioristica nei
confronti del significato dell'essere per riporlo nella temporalita' (Zeitlichkeit)
dell'esistenza. Nelle prime pagine di Sein und Zeit Heidegger riepiloga i risultati di
quei primi corsi attraverso la lettura del "discorso apofantico" di Aristotele.
Questo processo ora piuttosto che portare ad una ennesima trattazione
dell'essere, come se esso fosse appunto ancora una volta un ente da fissare
tramite una definizione, conduce alla interruzione di Sein und Zeit. I motivi di
questa interruzione devono essere cercati piu' dettagliatamente proprio nei
paragrafi dell'opera che riguardano, "la comprensione", "l'interpretazione" e
"l'asserzione"(pr. 29-34). L'impossibilita' d'una sezione dell'opera del '27
sull'essere fa della Differenza in quanto tale il nucleo stesso della riflessione di
Heidegger: non si puo' definire il senso dell'essere.
Questa avvenuta consapevolezza del limite del linguaggio umano apre ad
Heidegger la via della comprensione piu' ampia della nostra matrice linguistica.
Con la Svolta il Linguaggio in quanto Differenza viene alla parola. Come dira'
Heidegger "viene portato il linguaggio in quanto linguaggio al Linguaggio". Quello

11 Ontologie. Hermeneutik der Faktizität (Sommersemester 1923), Klostermann, Frankfurt a. M., 1995.8
che avviene e' cio' che R. Rorty chiama reification of language12. Heidegger fa dei
suoi sentieri interpretativi, aperti dalle parole liminari dei poeti e dai detti
dell'origine dei presocratici, il luogo dove praticare di volta in volta lo spazio di
differenza di cui aveva parlato nei corsi sulla logica di Aristotele. In questi scritti
lo spazio di differenza tra senso e significato si da'13 come il "tra" (zwischen) che
permette la Differenza stessa. La pratica del pensiero poetante e' la Differenza
presente a se stessa. La ricerca di un linguaggio antipsicologistico e non egotico
ha portato Heidegger ad essere il testimone delle differenze.
Anche sul piano grammaticale e linguistico egli cerca una verita' non
proposizionale, non lineare. Le parole centrali dei suoi scritti sono parole mai
definitorie. Le stesse locuzione sono un nucleo di differenza. La "reificazione del
linguaggio" e' infatti dovuta dalla avvenuta consapevolezza dell'impossibilita' di
trovare un essere che stesse aldila' dello stesso linguaggio. La linea del linguaggio
e' il luogo (topica dell'essere) del nostro essere. Questa riduzione dell'essere a
linguaggio e' dovuta dall'avvenuto atteggiamento d' "abbandono" (Gelassenheit)
rispetto all'eccedenza rivelata nel corso del '22 su Aristotele. Il "passo indietro" di
Heidegger rispetto alle pretese nei confronti dell'essere comporta che i se'mata
rilevati da Aristotele e prima ancora da Platone vengano calati nella luce del to
auto parmenideo. Le "differenze" sono riferimento del "medesimo". Questo e'

12 In questa ricerca si parte dal punto che lo stesso lavoro di filosofi quali Heidegger e Wittgestein abbiano
concretamente contribuito alla formazione di un mondo ridotto a linguaggio. Ma lo stesso rapporto tra questi due autori
deve evidenziarecome e' possibile stabilire dei punti fissi e inamovibili nel gioco del linguaggio che pongono a questo
stesso gioco dei limiti invalicabili. Sono punti che quindi vanno anche oltre lo stesso logos. Con questo si vuole
prendere la distanza dalla "interpretazione infinita" e dalla "semiosi infinita" che sembrano allo stesso modo complici di
un mondo che gira all'infinito e che rischia di perdere trazione.
13 Questa locuzione "si da'" (es gibt) e' usata da Heidegger nella conferenza Zur Sache der Denkens (Tempo ed Essere,
Napoli, 1986) per sostituire il verbo "essere". La prospettiva e' cambiata. "La temporalita'" trascendentale, mutuata dal
Kant della prima edizione della Critica della ragion Pura in contrasto con la scuola di Marburgo (Che cos'e' la verita'?
Pp.178-275 in Logica il problema della verita' opera cit.), si accorda con la "spazialita'". Si passa dalla priorita' del tempo
nell'esperienza dell'essere, che e' ancora esperienza ridotta alla dimensione dell'uomo, alla cooriginarieta' con lo spazio:
la quarta dimensione del tempo introdotta da Heidegger rispetto alla tridimensionalita' di Sein und Zeit indica il costante
permanere della Differenza. Si passa cosi' alla interpretazione della forme del linguaggio (poesia, architettura, pittura).
Per questa interpretazione si veda E. Mazzarella La Seinsfrage come Kehre e come Denkweg itr. op. cit.9
osservabile anche sul piano semantico. Heidegger riponendosi agli albori del
linguaggio rivive la composizione metafisica operata da Platone: il "passo indietro"
ridispone la linearita' proposizionale del linguaggio iniziata da Platone nel Cratilo.
Qui l'essenza nomotetica dell'uomo e' caratterizzata come la fuoriuscita dalla
mimesi naturalistica di Eraclito, che ancora confonde le parole con le cose, e dal
convenzionalismo relativistico dei sofisti. Heidegger pur dovendo conservare la
linearita' proposizionale, guadagnata da Platone nel nome delle idee, cerca di
rendere dignita' ad ogni singola parola: come Eraclito non interpreta le parole
come mezzo del processo dialettico. Le "avventure della differenza" si giocano
tutte sulla linea del linguaggio.
Cio' che a me interessa rilevare aldila' della riduzione linguistica di Heidegger,
come dettame esemplare per chi vive nell'epoca di un mondo ridotto a parole, e' il
nucleo che ne viene fuori.: Il nucleo che permette gia' sempre l'articolazione del
linguaggio, in quanto forza cinetica, e' la significazione di un senso mai
definitivamente afferrabile: questa forza produce le differenze.
Il piccolo scritto Identität und Differenz puo' essere considerato la sintesi degli
scritti logici di Heidegger; in queste pagine egli scrive:< proposizione di Parmenide, lo stesso (to auto ), resta oscura. Ma noi ci lasciamo
dare pero' un cenno dalla proposizione, nel cui inizio essa sta.>>14 Il "cenno" di
cui parla Heidegger e' stato guadagnato grazie alla riproposizione della logica
aristotelica. La differenza rivelata sul piano orizzontale dei discorsi come fulcro di
ogni articolazione diventa ora il presupposto ineliminabile, che' si afferma da se, per
la dignita' comune delle differenze :< nell'uguale scompare la diversita'. Nello stesso appare la diversita'.>>15 La

14 Identität und Differenz Stuuttgard, 1957; tr. It. p 6, 1981.
15 Ibidem p. 2810
costituzione di mondi paralleli e autonomi, nel caso di Heidegger i diversi "sentieri
interrotti" che sono i suoi scritti interpretativi della tradizione, ci lasciano
comunque scorgere in prospettiva la possibilita' di una vicinanza16.
Ora sulla base di questa cooriginarieta' dei mondi indicata da Heidegger si puo'
penso tentare l'accostamento con i "giochi linguistici" di Wittgestein. La
"differenza ontologica", intesa nel modo che sinteticamente si e' tentato di
illustrare, puo' costituire il riferimento per una lettura critica del Wittgestein delle
Philosophische Untersuchungen.. L'accostamento e' motivato dalla convinzione che
si possa addirittura ricercare una complementarita' tra il discorso ontologico di
Heidegger e quello analitico di Wittgestein. In questo e' noto l'apporto che K.O.Apel
ha dato con suoi studi17 tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70
effettuando quello che considero un prezioso avvicinamento tra la filosofia
continentale e la filosofia analitica anglofona meno preoccupata della storia. Negli
studi di Apel ritrovo quella che e' la mia preoccupazione etica: il problema di
affermare nei confronti del "linguaggio ideologico", il linguaggio acriticamente
scientista che annulla le differenze, la verita' di un linguaggio che vive di
differenze. Per arrivare a rendere manifesto il "l'angolo etico" universale c'e'
bisogno prima di tutto di una descrizione puntuale della complessita'. Questa
possibilita' e' offerta dalle opere dell'ultimo Wittgestein. Apel contrappone alla
tendenza omologante del linguaggio universale "il gioco linguistico trascendentale
della comunita' della comunicazione" ripreso da Peirce. La capacita' riflessiva della
filosofia, occultata secondo Apel da Heidegger e Wittgestein, deve garantire le

16 Questo progetto veniva definito cosi' da Heidegger sul piano esistenziale:< determinate dalla fine, cioe' comprese come finite, l'Esserci sfugge al pericolo di disconoscere, a causa della
comprensione finita propria dell'esistenza, le possibilita' esistenziali degli altri che lo superano; oppure,
misconoscendole, di ricondurle alle proprie, per sfuggire cosi' alla singolarita' assoluta della propria effettiva esistenza..
Come possibilita' insuperabile, la morte isola l'Esserci ma solo per renderlo, in questa insuperabilita', consapevole del
poter-essere degli altri che ci con-sono.>> Sein und Zeit Tu'bingen, 1927; tr. It., Milano, 1976 p. 321
17 Transfomzation der Philosophie, Frankfurt a. M., 1973; tr. It. in Comunita' e comunicazione, Torino, 197711
differenze: essa in quanto tale ha gia' immediatamente un compito etico:<< Essa
[la scienza dello spirito] dovrebbe allora occuparsi degli altri uomini, non come
oggetti intramondani dell'intenzione linguistica, bensi' come partecipi di tale
intenzione, come partner della comunicazione, in breve: essa sorgerebbe sul
piano dell'intersoggettivita'. Il suo compito sarebbe all'incirca quello di
ripristinare, dove la comunicazione tra soggetti e' disturbata, questa
comunicazione oppure, prima di tutto, di rendere possibile una comunicazione la'
dove essa manca tra soggetti reciprocamente estranei.>>18.
Su questa linea interpretativa vorrei tentare come ulteriore apporto critico al mio
lavoro di ricerca un confronto aperto con la concezione del linguaggio emersa
nell'ultimo Wittgestein.
I "giochi linguistici" trovano le loro regole nell'applicazione aldila' di qualsiasi
ragione fondativa e di qualsiasi "proposizionalita' trascendentale". Essi sono
l'espressione di un linguaggio che ha abbandonato l'impostazione scientista che
pure era ancora presente nel Tractatus19. Il valore terapeutico della filosofia di cui
parla Wittgestein sta nella descrizione stessa del funzionamento di tali "giochi" :
<< Ogni spiegazione deve essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve
prendere il suo posto.>>20 La critica al linguaggio metafisico ha quindi questa
funzione pratica: eliminare la frustrazione di una eccedenza nei confronti del
mondo attraverso la remissione dei giocatori al loro gioco. Questo e' possibile
rilevando che non esistono essenze metafisiche esterne ai giochi che possano
garantire un senso metalinguistico. Il senso di ogni giocatore si ritrova nello

18 Lo sviluppo della <> e il problema delle <> p.59 in
Opera cit.
19 Il passaggio dalla concezione del linguaggio del Tractatus e quella delle Ricerche filosofiche dovra' essere affrontata
nel lavoro tenendo presente soprattutto: K.O. Apel Lo sviluppo della <> e il
problema delle <> pp. 47-104 in Comunita' e comunicazione ; Janik A. -Toulmin S. La grande
Vienna, Milano, 1980
20 Philosophische Untersuchungen, Oxford, 1953; cit. tr. it. p.66 (109), Torino, 199512
stesso utilizzo del gioco, il senso e' di volta in volta nel gioco stesso21. La
descrizione concreta di questa certezza e' terapeutica, perche' riporta il linguaggio
alla sua stessa applicazione evitando la frustrazione di una ricerca
metalinguistica di senso: << Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico,
indietro al loro impiego quotidiano.>>22 Anche nel progetto delle Ricerche
filosofiche abbiamo quindi il tentativo di affidare gli uomini alla loro essenza
linguistica sulla base di una convinzione: non esiste un linguaggio valido sempre
e comunque ma ci sono diversi mondi linguistici che hanno la loro giustificazione
nel loro stesso funzionamento. Anche Wittgestein descrive di fatto mondi
linguistici che hanno il loro nucleo nella differenza d'applicazione. Contro le
pretese dello psicologismo definisce il senso come qualcosa di inafferrabile un
volta e per tutte dal significato di un "io" :
454. <> Com'e' che la freccia ? indica? Non sembra che, oltre
se stessa, porti in se' qualcosa? -< significato puo' farlo>>.-Questo e' vero e falso. La freccia indica soltanto
nell'applicazione che l'essere vivente ne fa.
Questo indicare non e' una stregoneria che solo l'anima puo' compiere.>>23
Capiamo quindi che anche in Wittgestein c'e' una differenza che regge il gioco del
linguaggio e che questa differenza e' come una funzione negativa che permette la
pluralita' dei giochi. Wittgestein dice ancora:
432. Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli da' vita? Nell' uso esso vive.
Ha in se' l'alito vitale? -- O l'uso e' il suo respiro?24

21 Questo e' quanto prospetta anche Gadamer che ammette la vicinanza del suo concetto di gioco a quello di Wittgestein
nella sua introduzione a Wahreit und Methode.
22 Ibidem p. 67 (116)
23 Ibidem 174
24 Ibidem 16813
L'uso, che e' sempre un uso linguistico, e' quello che allo stesso tempo applica ed
evidenzia le differenze. Tutte le Ricerche sono la proposta d'un linguaggio piu'
complesso rispetto a quello della metafisica classica. Il pluralismo linguistico di
Wittgestein, applicato di fatto nelle sue opere, puo' rappresentare un
completamento della teoria del linguaggio di M. Heidegger. Il discorso ontologico
di Heidegger ha la tendenza a ripiegarsi troppo sulla tradizione facendo poca
attenzione alla varieta' dei linguaggi possibili; d'altra parte pero' l'opera di
Wittgestein e' retta da un eccesso di antiumanismo che lo porta a trascurare
aspetti sostanziali del linguaggio. Il pluralismo, adottato come apporto critico nei
confronti di Heidegger, puo' prima di tutto aiutare ad affrontare l'ambiguita' sorta
intorno al valore effettivo delle parole dell'origine e d'un loro presunto senso
assolutistico25; con questo il pluralismo rende con maggiore efficacia l'idea d'un
linguaggio, sradicato da nazionalismi o da qualsiasi altra regola a priori, che si
tiene sui nuclei d'articolazione di ogni singolo gioco; si vedra' poi attraverso questo
stesso confronto che i nuclei dei giochi linguistici conservano un nucleo
inamovibile come principio non fondato e non compreso integralmente dal
linguaggio.
La relazione critica tra questi due autori, stimolata anche dalle riflessioni di Apel
su questo rapporto, puo' offrirci la possibilita' di porre delle questioni piu' generali
sul linguaggio. Wittgestein fa delle regole dei giochi la loro stessa condizione
d'essere, questa tendenza e' dettata da quanto gli resta dalla impostazione del
Tractatus e degli scritti di mezzo. Le regole pero' non sono niente di trascendentale

25 Le parole dell'origine hanno un valore liminare e quindi non sono mai soggette ad invecchiamento. Questa che e' una
conquista del pensiero di Heidegger non deve pero' portare ad un aut aut nei confronti della contemporaneita'. I
neologismi in quanto funzionano hanno di volta in volta un loro senso. Inoltre l'attenzione sacrificale di Heidegger alle
singole parole lo porta a trascurare il senso seriale, e quindi comunque rituale-sacrale, di alcune locuzioni: la linguistica
parla a questo proposito di sintagmi cristallizzati. A questo proposito sono interessanti le indicazioni offerte da G.
Giometti sull' "uso intensivo asignificante" di Deleuze e H. Vidal Sephiha in relazione al linguaggio di Heidegger: si
veda Der Mensch ist ein Selbst ,pp. 315-316; in <> n. 2, Quodlibet, 1999.14
ma si danno differentemente nei diversi contesti. Questo e' quanto mi sembra si
possa intendere dalla lettura del libro come Bemerkungen u'ber Frazers < Golden Bough>> e soprattutto dell'ultimo libro di Wittgestein, cioe' quello a cui il
filosofo lavorava ancora pochi giorni prima della morte, On Certainty. In questo
libro il pensatore viennese vuole rispondere alla teoria dei truismi che Moore stava
esponendo in quel tempo a Cambridge nelle sue lezioni universitarie. Il testo si
presenta come una trattazione del "senso comune". Gargani dice a proposito di
questo: < nel senso comune, nel pensiero popolare e ha sostituito codici grammaticali,
addestramenti, convenzioni, e stipulazioni linguistiche in luogo di quelle che
erano da sempre apparse come espressioni cognitive naturali, spontanee e
immediate del senso comune.>>26 La riflessione di Wittgestein mira soprattutto a
dimostrare l'infondatezza metafisica dell' "io":
58. Se <> si concepisce come una proposizione grammaticale,
naturalmente l' <> non puo' essere importante. E vuol dire, propriamente:
<>, ossia, in questo caso: < non so' non hanno senso>>. E di qui segue certamente che non ha senso neppure
<>
59.Qui <> e' una penetrazione [Einsicht] logica. Soltanto che il realismo
non puo' essere provato da questa penetrazione.27
Gli scritti del dopo Tractatus, anche per correggere quanto Wittgestein aveva
teorizzato intorno al '14, mostrano una particolare tensione antipsicologista. Cio' e'
giustificato dalla volonta' antimetafisica, non egotica, dell'autore. Le regole sono la
funzione dei giochi linguistici e del mondo-vita al quale noi di volta in volta
apparteniamo.

26 A. Gargani Scienza, filosofia e senso comune, p. 23; in L. Wittgestein Della certezza, Torino, 199915
Da cio' sorgono delle perplessita' di tipo piu' generale: come e' possibile oggi
riconoscere le regole del gioco? Come si puo' partecipare ad un gioco quando gli
stessi luoghi linguistici tendono a confondersi e a perdere di consistenza nel
nome della comunicazione totale? Come e' possibile riconoscere il senso del nostro
mondo-vita quando la comunicazione globale come "linguaggio ideologico" tende
proprio ad andare oltre i confini di un mondo? Inoltre non e' forse proprio la
pretesa di quest'ultimo a portarsi oltre le identita' a creare la frustrazione della
mancanza di mondo28?
Non e' forse l'idea della spersonalizzazione delle regole a contribuire alla ideologia
di un mondo unico privo di identita'?
Il "mondo unico" equivale naturalmente alla mancanza di mondo. La cura delle
differenze che fa Wittgestein mi sembra appunto sacrificare eccessivamente le
identita' in nome dell'antipsicologismo29. Non sono forse anche le differenze
effettive quelle che permettono il funzionamento di un gioco?
Wittgestein scrive:< W. James ricavo' l'idea che l'io consiste principalmente di pecular motions in the
head and between the head and throat.>>30 L' "io" e' interpretato come il punto in
cui deve essere inteso il funzionamento del gioco e per il quale "ci si deve
addestrare". L'io e' attraversato dal gioco e dalla sua regola: < immaginare che gli uomini intorno a me siano automi privi di coscienza, anche se
il loro comportamento e' lo stesso di sempre? [...] Il vedere un uomo vivo come un
automa e' analogo al vedere una figura come caso-limite, o variante, di un'altra;

27 Ibidem p. 13
28 Si puo' intendere la parola "mondo" come il coorispettivo del mit-welt del Dasein heideggeriano o del mondo-vita dei
giochi linguistici wittgesteiani.
29 Si veda quanto scrive Mario Ruggenini a proposito della necessita' d'un ritorno, dopo le speculazioni metafisiche sul
soggetto e sulla desoggettivizzazione del mondo sempre interna a questo stesso gioco, ad una considerazione della
identita' della persona nella sua appartenenza al linguaggio: IL pensiero e l'ascolto p. 90, in I fenomeni e le parole
Genova, 1992; dello stesso autore si puo' vedere a questo proposito Il soggetto e la tecnica Roma, 1978.16
per esempio, il telaio a crociera d'una finestra come una svastica.>>31 Queste
affermazioni di Wittgestein denunciano la concezione di un forte antiumanismo
retto dalla "teologia della grammatica". Dove l'uomo e' ridotto a variante mi
sembra si debba denunciare una poca considerazione delle differenze effettive che
puo' oltremodo invalidare lo stesso funzionamento dei giochi linguistici. Nella
"teologia della grammatica" si puo' per questo scorgere la possibilita' d'una
impostazione metafisica che giustifica "il linguaggio ideologico" antinomico delle
differenze. Anche se Wittgestein fa dei giocatori la giusta prerogativa perche' ci sia
un gioco, mi sembra poi che la tendenza antistoricista e antinominalista32, che
sta alla base della concezione delle regole, portata agli estremi provochi la
riduzione ideologica delle differenze. Lo stesso rischio mi sembra minacci il
concetto di comunita' di Apel. La comunita' e' anche la comunita' mondiale della
comunicazione e non vedo come la statistica o la scienza sociale, ad esempio,
possa salvaguardare le differenze effettive. Bisogna allora ricercare di fronte alla
ideologia di un gioco unico, che equivale alla mancanza di gioco e alla
impossibilita' del riconoscere delle regole, la certezza d'un punto d'articolazione
ineliminabile: questo punto e' stato precedentemente individuato nella Seinsfrage.
La necessita' e' di riconoscere effettivamente la differenza originaria che lo
"sguardo intento" nel seguire una regola puo' intravedere. La riduzione
antimetafisica che giustifica la riduzione del mondo a linguaggio e a "semiosi
infinita"33, ha un limite concreto nella necessita' di nominare che e' propria
dell'uomo. W. Benjamin, che gia' ragionava sulla "riproduzione tecnica" e sulla

30 Ibidem p.164 (413) [...moti peculiari nella testa e tra la testa e la gola.]
31 Ibidem p. 166 (420)
32 << I nominalisti commettono l'errore di interpretare tutte le parole come nomi, e in questo modo non descrivono
realmente il loro impiego, ma da'nno, per cosi' dire, una cambiale in bianco per una tale descrizione.>> Ibidem p. 156
(383)17
serialita', scrive: < significato e questa funzione incomparabilmente alta: di essere l'essenza piu'
intima della lingua stessa [...] E' cio' che fonda la differenza tra la lingua umana e
quella della cosa..>>34 Solo il nome e' la funzione inequivocabile che fonda le
differenze in quanto esso e' il vero portatore del nucleo d'articolazione originario del
dire. Nel "nome" si rende esperibile sul piano del linguaggio la differenza
ontologica; e Benjamin sembra volercelo indicare: < questa parola divina, e il punto in cui la lingua umana realizza la piu' intima
partecipazione all'infinita' divina del semplice verbo, il punto in cui essa non e'
parola finita e non puo' avere conoscenza- e' il nome umano. La teoria del nome
proprio e' la teoria dei limiti della lingua finita rispetto a quella infinita. Di tutti gli
esseri l'umano e' il solo che nomina egli stesso i suoi simili, come il solo che Dio
non ha nominato.>>35
Le trame del mondo si fanno visibili come intrecci di giochi linguistici retti dal nucleo
d'articolazione inamovibile del nome. Scrive E. Mazzrella sulla scia di Benveniste:
< compiutamente predicabile nel logos. Perche' l'individuo non e' qualcosa, ma e'
semplicemente, innanzi tutto cioe' c'e', le sue proprieta' non sono deducibili da una
legge che le prescrive determinatamente [...] Come esistenza, l'individuo e' sempre
la sporgenza sulla superficie liscia della legge, che a toccare possiamo farci male.
[...] L'individuo e' propriamente il fenomeno come cio' che si mostra e il cui
mostrarsi costituisce un avvenimento di singolarita' e come tale, sempre, in modo

33 In campo letterario e' gia' noto l'esperimento Luther Blisset. Sulla scia dell'ipertesto e del romanzo postmoderno, alla
Eco, e' sperimentato un romanzo senza autore. Questo esperimento e' il corrispettivo artistico di quanto avviene in linea
quando si chatta (la parola italiana e' "chiacchiera") usando nomi inventati.
34 W. Benjamin Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955; tr. It. Torino, 1995; cit. nel saggio Sulla lingua, p. 57 (i corsivi sono
tutti miei)
35 Ibidem. P.6218
implicito un avvenimento di cui tener conto.>>36
Il nome differenzia appunto "il linguaggio finito da quello infinito", in esso il gioco
linguistico deve trovare di volta in volta il suo senso come liberazione da un
intesa col vuoto. "Si', intendere e' come dirigersi verso qualcuno."37 Dice
Wittgestein. Ma questo qualcuno ha ogni volta un determinato nome, che egli non
ha scelto, e che tu non puoi scegliere di non chiamare. Lo spazio del gioco tra i
giocatori e' il campo della differenza ontologica che permette di raccontare, ogni
volta, la storia d'un mondo.

36 E. Mazzarella Ermeneutica e odologia, p. 178; in <> op. cit.
37 Ricerche filosofiche, p. 174 (457.)


Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 1st of August 2021 08:38:33 AM

Frungillo Vincenzo


N° Post: 437
Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 08:16:47 PM


Husserl-Heidegger: Elementi separanti




Husserl critichera' Heidegger per il suo antropologismo, e Heidegger critichera' Husserl per il suo
teoreticismo e trascendentalismo.
La distanza e' posta tra la "coscienza" husserliana e l'Esserci di Heidegger quale radicalizzazione di
quella. Il dibattere verte quindi sulla questione del "soggetto trascendentale" retaggio del cogito
cartesiano.
Anche la questione del "metodo" e' oggetto del contendere, poiche' e' strettamente connesso col
contenuto: il soggetto e il mondo.
Entrambi tuttavia convergono vero una soluzione paradossale della soggettivita', anche se sembra
che l'ultimo Husserl sia stato influenzato da Heidegger (si veda a riguardo il concetto di "mondodella-vita").
Entrambi annunciano il loro intento di dirigersi, con la loro ricerca, alla "cosa stessa" (die sache
selbst). Ma e' proprio sul significato di essa che le due opinioni divergono. Heidegger appunta la sua
critica sull'analisi trascendentale e sui suoi presupposti fenomenologici: tempo, verita', fenomeno
(cosa stessa), ma soprattutto su Soggetto, l'idea di Mondo, il concetto di trascendentale, la
Riduzione.
HEIDEGGER
In riferimento all'ontologia, si innesta sulla carenza ontologica della fenomenologia di Husserl.
Fenomenologia indica il metodo e ontologia indica il contenuto. Ma ora questa non e' piu'
subordinata e derivata da quella (e dal metodo eidetico), ma la fenomenologia diventa, anzi e'
ontologia. Heidegger intende muovere verso un concetto d'essere che superi la metafisica
tradizionale, mentre per lui il concetto d'essere husserliano e' inteso proprio in quel senso. Anche
ammettendo che la riduzione (l'epoche') non sia un mero rimaneggiamento dell'operazione
egologica cartesiana questa concezione metafisica dell'essere si traduce in un limite del metodo
utilizzato "di fatto" da Husserl.
L'Esserci (l'uomo) di Heidegger rappresenta una metamorfosi esistenziale radicale della "coscienza
intenzionale" di Husserl. Il trascendentalismo di Husserl viene rivitalizzato dall'aspetto mondano
della soggettivita'. La rielaborazione della fenomenologia e ontologia all'interno di una filosofia
dell'alterita' conferisce una connotazione etico-pragmatica (nel senso di prassi) al soggetto. La
dimensione esistenziale costituirebbe cosi' l'allargamento di senso, un superamento del razionalismo
della costituzione fenomenologica husserliana
HUSSERL
Accusa i suoi allievi, tra cui Heidegger, di essere ricaduti dalla purezza della fenomenologia al
realismo e all'antropologismo. L'impostazione di Heidegger che affronta il problema delle radici
antiche (esistentive) dell'indagine ontologica (esistenziale) dell'ente chiamato uomo, appare ad
Husserl inadeguata a fondare una "conoscenza assoluta". Per Heidegger infatti l'uomo e' sempre
legato all'esistenza, esiste e quindi ogni indagine che parte dall'uomo non puo' prescindere, come
vorrebbe Husserl, da un'analisi esistenziale. Una tale trasformazione dell'ego nell'Esserci e' per
Husserl filosoficamente oscura e inaccettabile. Laddove Husserl "purifica", Heidegger "sporca" con
elementi mondani (a giudizio di Husserl).Tuttavia non bisogna leggere Heidegger secondo l'idea di "traduzione", suggerita da Husserl stesso,
dei concetti fenomenologici in quelli ontologico-fondamentali. Se interpretiamo il passaggio da
Husserl ad Heidegger come un semplice trasferimento di concetti da un piano coscienzialistico a
uno esistenzialistico, come se l'esserci umano non sia altro che una "concretizzazione" dell'astratto
concetto di coscienza di Husserl, fraintendiamo entrambi i pensatori. L'essenza umana e' pensata da
Heidegger in modo radicalmente diverso. La filosofia di Heidegger non puo' essere ridotta ad
antropologismo in quanto nell'idea di una costituzione d'essere di un ente che esiste (l'Esserci=
l'uomo), nell'idea di esistenzialita', si trova gia' sempre l'idea di essere. D'altra parte anche
un'analisi esistenziale dell'essere dell'esserci non puo' prescindere da un'analisi del senso
dell'essere in generale. Sarebbe quindi errato parlare di eliminazione tout court della trascendenza o
della metafisica da parte di Heidegger, a meno di non intenderle nel senso classico e cartesiano.
Secondo Husserl la fenomenologia conduce ad una "ontologia universale" a partire dalla
"originarieta' trascendentale". Ma questi sono termini che suonano all'orecchio di Heidegger
alquanto falsi, ovvero non autenticamente antimetafisici, come sembra annunciare Husserl. Ecco
perche' egli si ostina a vedere nella fenomenologia un ipotecante residuo metafisico. Il nucleo della
fenomenologia ha a che vedere con il discorso della metafisica: la riduzione conduce, di necessita',
ad un'immagine evocatrice del fantasma filosofico: 1'ego, fonte di equivoco e di oblio. Teniamo
ferme le quattro tematiche di fondo: soggetto, mondo, "trascendentale" e "riduzione". Vediamo
innanzitutto un passo husserliano: "[la mia impostazione del problema] esige la riduzione al piano
di validita' che presuppone questo problema come tale: la soggettivita' pura in quanto fonte del senso
e della validita'. Io non ho dunque, in quanto fenomenologo trascendentale, il mio ego come psiche,
parola che gia' presuppone nel suo senso un mondo essente o possibile, ma possiedo quell'ego
trascendentalmente puro in cui anche questa psiche, con tutto il suo senso trascendente, ottiene, a
partire da nascoste operazioni di coscienza, il senso e la validita' che essa ha per me". Solo grazie
alla riduzione trascendentale -- dice Husserl -- il filosofo puo' raggiungere puntualmente 1'elemento
originario. La soggettivita' pura, demondificata, si svela solo mediante 1'epoche'. Porre in
discussione quest'ultima significa permettere, ancora una volta, al fondamento trascendentale di
eclissarsi".
E proprio su questo gioco di rischiaramenti ed eclissi si insinua il sospetto di Heidegger: "ma
all'essenza dell'ego puro non appartiene forse un mondo in generale? Non manca forse alla
fenomenologia 1'attenzione per la totalita' concreta dell'uomo? Quell'ego puro e ancora il mio stesso
io? Questo si chiede Heidegger, e mentre risponde negativamente, Husserl confonde ancor piu' le
carte: si e no, dice; "1'ego ridotto e' certamente il mio io nella totale concrezione della mia vita [...]
ma e' anche il presupposto assoluto per qualsiasi trascendenza per "me" valida".
Ma, obietta ancora Heidegger, come puo' il soggetto fattuale perdere i suoi contorni esistenziali e
fisici, arrivare all'ego puro ed essere ancora "nella totale concrezione della vita"? Il paradosso
fenomenologico si mostra in tutta la sua problematicita'. La sequenza: epoche', soggettivita'
trascendentale, vita nel senso piu' completo (vita filosofica) non e' piu' cosi' scorrevole quando la si
osserva con la lente di Heidegger: il soggetto che attua la riduzione e' uguale al soggetto
trascendentale che con la riduzione viene scoperto? L'ambiguita' husserliana, che tuttavia
rappresenta 1'unico modo per pensare "fenomenologicamente", viene dissolta: certo, il soggetto,
l'Esserci (leggi l'uomo), non e' divisibile al pari di un concetto o di qualsiasi altro ente. Il mistero
della soggettivita' non e' indagabile per via chirurgica: il senso del suo essere va colto a partire
dall'essere stesso.
"E'in questo modo [mediante la riduzione] che io posso e devo ottenere -- scrive ancora Husserl --
perfino la mia attivita' psicologica, il mio intero lavoro scientifico, in breve, tutto cio' che mi e'
inerente in maniera pura dal punto di vista soggettivo. Ma nell'abitualita' dell'atteggiamento psicologico, che noi definiamo la positivita' di tale atteggiamento, risiede appunto il fatto che [...]
viene realizzata 1'appercezione del mondo". E Heidegger esclama: "Semplicemente presente! Ma
1'Esserci umano "e'" tale che, sebbene sia un ente, non e mai solo semplicemente presente". Cosi'
appare a Heidegger il soggetto husserliano, privo di quella densita' esistenziale che in seguito tanto
avrebbe affascinato. Dove Husserl si concentra per rendere la "cosa stessa" piu' trasparente
possibile, Heidegger riscontra uno spessore imponente.
Osserviamo di nuovo il metodo di Husserl: 1'atto della riduzione coinvolge 1'individuo in un
processo infinito, che si snoda nel modo seguente: "la caratteristica di principio della riduzione
trascendentale e' sia il fatto che essa, anticipatamente e d'un sol colpo, in una volonta' teoretica
universale inibisce questa ingenuita' trascendentale, che ancora domina nella psicologia pura; sia il
fatto che con questa volonta' essa abbraccia 1'intera vita attuale e abituale: questa volonta' impone di
non far agire alcuna appercezione trascendente, alcuna validita' trascendente (l'esperienza naturale
di un oggetto "fuori di noi"), ma di "metterle fra parentesi" e di prenderle solo per cio' che esse sono
in se stesse, in quanto cioe' appercepire soggettivo in senso puro, intenzionare, porre in validita' ecc.
Se io faccio la stessa cosa verso me stesso, allora io non sono un io umano sebbene io non perda
nulla del contenuto essenzialmente proprio della mia psiche pura (nulla dunque del mio insieme
psicologico in senso puro). Cio' che e' posto fra parentesi e' solo quel porre-in-validita' che io avevo
realizzato nell'atteggiamento espresso dalle proposizioni "io, quest'uomo" e "la mia psiche nel
mondo"; non pero' questo porre e questo avere-in-validita' in quanto Erleibnis". "Questa e' -- osserva
Husserl --, nel mio pensiero, la via per giungere ad una psicologia intenzionale della personalita' nel
suo senso piu' ampio a partire dalla vita mondana personale: per giungere cioe' a un tipo personale
fondante. Io ho contrapposto alla concezione naturale del mondo collocata nella vita mondana
naturale (ovvero entro questa stessa vita) la concezione filosofico-trascendentale del mondo, e
quindi una vita che non e naturalmente un vivere-dentro il mondo gia' valido ingenuamente e
neppure un avere-in-validita' ingenua se stessi in quanto uomini, ma e' 1'idea di una vita filosofica,
determinata a partire dalla filosofia".
All'enunciato husserliano "io non sono un io umano", Heidegger contrappone: "o forse io sono
proprio tale, nella sua piu' autentica, meravigliosa, possibilita' di esistenza". Poco prima Heidegger
aveva gia' messo in evidenza, con una semplice domanda, l'incerto equilibrio fra l'uscir fuori da se
stessi, operando L'epoche, e il rimanere soggetti concreti: la riduzione "abbraccia -- scrive Husserl --
l'intera vita [...] con questa volonta'", e Heidegger chiede: "E questa volonta' stessa?". Qual e' la sua
natura, qual e' la sua origine, il suo luogo e il suo destino? Il suo profilo, insomma, va riconosciuto
in quello del soggetto o e' la silhouette di una presenza estranea? A questo interrogativo si riallaccia
il successivo quesito di Heidegger. Riferendosi sempre all'espressione husserliana "io non sono un
io umano", egli aggiunge: "Perche' no? Questa attivita' [la riduzione] non e' una possibilita' dell'uomo
ma, appunto perche' quest'ultimo non e mai semplicemente-presente, e' un comportamento, vale a
dire un modo d'essere che egli per sua natura procura appunto a se stesso, e che dunque non
appartiene mai alla positivita' della semplice presenza". E'possibile, ma ancor piu', e' necessario
contrapporre io puro e io umano, considerando l'uno esclusione fenomenologica dell'altro?
Rispondere negativamente significa porre in discussione la tematica centrale della fenomenologia.
"La riduzione trascendentale rappresenta una sorta di variazione dell'intera forma di vita, che sale
piu' in alto di tutte le esperienze vitali che si sono date fino a quel momento, superandole
completamente".
Husserl e' esplicito: la rottura fenomenologica non e' paragonabile ad alcuna esperienza precedente.
Ma secondo Heidegger si tratta di una "ascesa nel senso di un salire che rimane tuttavia
"immanente"; si tratta cioe' di una possibilita' umana, in cui 1'uomo perviene proprio a se stesso".
L'Umdeutung fenomenologica, il ripensamento e la riscrittura del rapporto soggetto-oggetto non
farebbero altro che trasformare in senso trascendentale tutto l'insieme degli enti positivi. "Tutto --scrive Heidegger--, lo stesso ambito psichico e 1'ente (il mondo) che in esso si costituisce", viene
reinterpretato trascendentalmente. Heidegger e' critico: la riduzione non lo convince. C'e qualche
cosa che non puo' venire ridotto; questo qualcosa e' l'essere.
In effetti, la polemica che si sviluppa nell'ambito della tormentata collaborazione per la stesura della
voce "fenomenologia" dell'enciclopedia Britannica, per quanto riguarda Heidegger, e' centrata
essenzialmente sul problema dell'essere. "Tutto -- dice Heidegger -- ruota attorno al concetto di "e'".
Secondo Husserl il termine "e'" rappresenta un sinonimo di essente mondano, e poiche' tutto
1'ambito mondano deve essere messo fra parentesi, anche il concetto di "e'" deve essere posto fra
parentesi. [...] Heidegger critica fondamentalmente la non-differenziazione husserliana dell' "e'"",
perche' in tal modo Husserl riduce il problema ontologico a mero oggetto della fenomenologia.
Come mette in evidenza in una lettera, a partire da una certa armonia di vedute, si sviluppano
differenze sostanziali. "Concordo -- scrive Heidegger -- sul fatto che l'ente inteso nel senso di cio'
che Lei definisce "mondo", non puo' essere chiarito nella sua costituzione trascendentale mediante
un regresso ad un ente che abbia un identico tipo di essere. Tuttavia questo non significa che cio' che
stabilisce il luogo del trascendentale non sia in generale un ente, anzi, e' proprio qui che sorge il
problema: qual e' il modo di essere dell'ente nel quale il "mondo" si costituisce? Questo e' il
problema centrale di Essere e tempo: quello di un'ontologia fondamentale dell'Esserci. Si tratta di
mostrare che il tipo di essere dell'Esserci umano e' totalmente diverso da quello di tutti gli altri enti e
che esso, in quanto tale, racchiude in se' la possibilita' della costituzione trascendentale". Dell'uomo,
Heidegger nega la semplice presenza, l'uomo non puo' essere considerato alla stregua di una
semplice cosa, e dunque nega la possibilita' di essere posto fra parentesi, come invece vorrebbe
Husserl: "1'uomo concreto come tale, come ente, non e mai un "fatto mondano reale", poiche' non e
mai solo semplicemente presente, ma esiste". Attorno a questa proposizione avversativa si sviluppa
l'intero discorso heideggeriano.
Con la critica di Heidegger alla ripresa dell'ontologia cartesiana, Husserl si vede accusata la sua
fenomenologia di essere ontologia tradizionale-metafisica del mondo, e ritiene che essa sia stata
aggredita da nuove tendenze antropologico-filosofiche. "Si deve, quindi -- afferma amareggiato --
poter prendere una decisione di principio scegliendo fra antropologismo e trascendentalismo".
Anche se con la elaborazione di nuovi concetti della maturita' (mondo-della-vita), Husserl fa
implicitamente trasparire che forse il discorso di Heidegger ha un qualche fondamento, egli tuttavia
ha ormai assunto un atteggiamento difensivo scaturito dalla intima esigenza di dover respingere
quella che lui considera "l'oscura mistica della filosofia dell'esistenza"




N° Post: 436
Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 06:33:07 PM


Il linguaggio come casa dell'essere




L'uomo e' piuttosto "gettato" dall'essere stesso nella verita' dell'essere , in modo che, cosi' e-sistendo,
custodisca la verita' dell'essere, affinche' nella luce dell'essere l'ente appaia come quell'ente che e'. Se e
come esso appaia, se e come Dio e gli de'i, la storia e la natura entrino nella radura dell'essere, si
presentino e si assentino, non e' l'uomo a deciderlo. L'avvento dell'ente riposa nel destino dell'essere.
All'uomo resta il problema di trovare la destinazione con-veniente alla sua essenza, che corrisponda a
questo destino; perche' conformemente a questo destino, egli, in quanto e' colui che e-siste, ha da
custodire la verita' dell'essere. L'uomo e' il pastore dell'essere. Questo soltanto e' cio' che Essere e tempo
si propone di pensare la' dove esperisce l'esistenza estatica come "cura". Ma l'essere - che cos'e'
l'essere? Esso "e'" lui stesso. Questo e' quanto il pensiero futuro deve imparare a esperire e a dire.
L'"essere" non e' ne' Dio ne' un fondamento del mondo. L'essere e' essenzialmente piu' lontano di ogni
ente nondimeno e' piu' vicino all'uomo di qualunque ente, sia questo una roccia, un animale, un'opera
d'arte, una macchina, un angelo o Dio. L'essere e' cio' che e' piu' vicino. Eppure questa vicinanza resta
per l'uomo cio' che e' piu' lontano. L'uomo si attiene innanzitutto e solamente all'ente; e anche se,
quando si rappresenta l'ente come ente, il pensiero si riferisce in effetti all'essere, in verita' esso pensa
sempre e solo l'ente come tale e mai l'essere come tale. La "questione dell'essere" rimane sempre la
questione dell'ente. La questione dell'essere non e' ancora assolutamente la domanda dell'essere, come
potrebbe far pensare questa ingannevole denominazione. La filosofia, anche la' dove diviene "critica",
come in Cartesio e in Kant, segue sempre la linea del rappresentare metafisico. Essa pensa a partire
dall'ente in direzione dell'ente, passando attraverso uno sguardo sull'essere. Infatti, ogni partenza
dall'ente e ogni ritorno all'ente sta gia' nella luce dell'essere.
Ma la metafisica conosce la radura dell'essere o soltanto come la vista di cio' che e' presente
nell'"aspetto" (ijdeva) oppure, in senso critico, come cio' che e' avvistato nel ri-guardo del rappresentare
categoriale della soggettivita'. Cio' significa che la verita' dell'essere come la radura stessa rimane velata
alla metafisica. Questa velatezza non e' pero' un'insufficienza della metafisica, ma il tesoro della sua
specifica ricchezza, che le e' sottratto e pure prospettato. Ma la radura stessa e' l'essere. Essa sola
consente, entro il destino metafisico dell'essere, una veduta della quale cio' che e' presente tocca l'uomo
che viene alla sua presenza in modo tale che solo nell'apprensione (noei?n) l'uomo stesso puo' toccare
l'essere. (...)
L'oblio della verita' dell'essere a favore dell'imporsi dell'ente, non pensato nella sua essenza, e' il senso
di cio' che Essere e tempo chiama "decadimento". La parola non si riferisce a un peccato originale
dell'uomo inteso da un punto di vista della "filosofia morale" e contemporaneamente secolarizzato, ma
indica un rapporto essenziale dell'uomo con l'essere in seno al riferimento dell'essere all'essere umano.
Analogamente i termini che preludono a tale concetto, ossia "autenticita'" e "inautenticita'", non
significano una differenza ne' morale-esistentiva ne' "antropologica", bensi' cio' che va pensato prima di
ogni latra cosa perche' finora e' rimasto nascosto alla filosofia, cioe' il riferimento "estatico" dell'essere
umano alla verita' dell'essere. Ma questo riferimento e' cosi' com'e' non sul fondamento dell'e-sistenza,
bensi' l'essenza dell'e-sistenza e' destinalmente estatico-esistenziale in base all'essenza della verita'
dell'essere.
L'unica cosa che il pensiero che tenta di esprimersi per la prima volta in Essere e tempo vorrebbe
conseguire e' qualcosa di semplice. In quanto tale l'essere rimane misterioso, la semplice vicinanza di
un dominare non invadente. Questa vicinanza e' essenzialmente come linguaggio. Sennonche' il
linguaggio non e' meramente linguaggio, giacche' noi ci rappresentiamo il linguaggio, nei migliori dei
casi, come unita' di forma fonetica (segno scritto), melodia, ritmo e significato (senso). Noi pensiamo la
forma fonetica e il segno scritto come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come l'anima, e lasignificativita' come lo spirito del linguaggio. Siamo soliti pensare il linguaggio in base alla
corrispondenza con l'essenza dell'uomo inteso come animal rationale, cioe' come unita' di corpo, anima
e spirito. Ma come nell'humanitas dell'homo animalis resta nascosta l'e-sistenza, e con essa il
riferimento della verita' dell'essere all'uomo, cosi' l'interpretazione metafisica del linguaggio sul
modello "animale" ne occulta l'essenza che gli e' propria secondo la storia dell'essere. In conformita'
con questa essenza il linguaggio e' la casa dell'essere fatta avvenire come propria e disposta dall'essere.
Percio' occorre pensare l'essenza del linguaggio partendo dalla sua corrispondenza all'essere, e
intenderla proprio come questa corrispondenza, cioe' come dimora dell'essere umano.
Ma l'uomo non e' solo un essere vivente che, accanto ad altre facolta', possiede anche il linguaggio.
Piuttosto il linguaggio e' la casa dell'essere, abitando la quale l'uomo e-siste, appartenendo alla verita'
dell'essere e custodendola.
( M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, a cura di F. Volpi, Adelphi edizioni, Milano 1995)In cammino verso il linguaggio, casa dell'essere
Il linguaggio parla in quanto suono della quiete. La quiete acquieta portando mondo e cose alla
loro essenza. Il fondare e comporre cosa nel modo dell'acquietamento e' l'evento della dif-ferenza. Il
linguaggio, il suono della quiete, e', in quanto la dif-ferenza e' come farsi evento. L'essere del linguaggio
e' l'evenire della dif-ferenza.
Il suono della quiete non e' nulla di umano. Certo l'uomo e' essenza parlante. Il termine "parlante"
significa qui: che emerge ed e' fatto se stesso dal parlare del linguaggio. In forza di tale evenire, l'uomo,
nell'atto che e' dalla lingua portato a se stesso, alla sua propria essenza, continua ad appartenere
all'essenza del linguaggio. al suono della quiete. Tale evento si realizza in quanto l'essenza del
linguaggio, il suono della quiete, si avvale del parlare dei mortali per essere dai mortali percepita come
appunto suono della quiete. Solo in quanto gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete, i
mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni.
Il parlare dei mortali e' nominante chiamare, e' invito alle cose e al mondo a farsi presso muovendo
dalla semplicita' della dif-ferenza. La parola pura del parlare mortale e' la parola della poesia.
L'autentica poesia non e' mai un modo piu' elevato della lingua quotidiana. Vero e' piuttosto il contrario:
che cioe' il parlare quotidiano e' una poesia dimenticata e come logorata, nella quale a stento e' dato
ancora percepire il suono di un autentico chiamare.
Il contrapposto della parola pura, della poesia, non e' la prosa. La prosa pura non e' mai "prosaica".
E'altrettanto poetica e percio' altrettanto rara quanto la poesia.
Se si fissa l'attenzione esclusivamente al parlare umano, se si considera questo semplicemente
come la manifestazione della interiorita' dell'uomo, se si considera il parlare cosi' concepito come la
vera realta' del linguaggio, certo allora l'essenza del linguaggio puo' continuare ad apparire soltanto
come espressione e attivita' dell'uomo. Ma il parlare umano, in quanto parlare dei mortali, non ha il
proprio fondamento in se stesso. Il parlare dei mortali ha il suo fondamento nel rapporto col parlare del
linguaggio.
A un certo momento si porra' come inevitabile il problema di come dal parlare del linguaggio in
quanto suono della quiete della dif-ferenza possa emergere il parlare mortale e il suo farsi suono. In
questo farsi suono - non importa se il suono sia parola pronunciata o scritta - la quiete resta infranta.
Contro che si infrange il suono della quiete? Come la quiete, in quanto infranta, giunge al suono della
parola? Come l'acquietare, che e' stato infranto, impronta di se' il discorso mortale che risuona in versi e
proposizioni?
Posto che al pensiero sia dato un giorno di rispondere a queste domande, esso deve comunque
guardarsi dal considerare il momento fonico o anche espressivo come l'elemento determinante del
parlare umano.
L'interno legame del parlare umano puo' essere soltanto la melodia nel cui dominio il parlare del
linguaggio, il suono della quiete della dif-ferenza, riporta, con la Chiamata della dif-ferenza, i mortali.
Il modo con cui i mortali, quando la dif-ferenza li chiama a se', a loro volta parlano e' il
corrispondere. Il parlare mortale presuppone l'ascolto della Chiamata, identificandosi con la quale la
quiete della differenza chiama mondo e cose nella cesura della sua semplicita'. Ogni parola del parlare
mortale parla sul fondamento di questo ascolto e solo come questo ascolto.
I mortali parlano in quanto ascoltano. Essi prestano attenzione al richiamo della quiete della differenza, anche quando non lo conoscono. L'ascolto prende dalla Chiamata della dif-ferenza cio' che
immette nella parola percepibile. Questo parlare ascoltando e recependo e' il cor-rispondere.
Nell'atto che il parlare mortale prende quel che viene dicendo dalla Chiamata della dif-ferenza,
esso ha gia' a suo modo assentito alla Chiamata. Il corrispondere, in quanto ascoltante recepire, e', altempo stesso, assenziente rispondere. I mortali parlano in quanto cor-rispondono al linguaggio in
duplice maniera: recependo e rispondendo. La parola mortale parla in quanto in molteplice senso
corrisponde.
Ogni autentico ascoltare, insieme con il suo proprio dire, e' concentrazione. Poiche' l'ascoltare e'
permanere nel dominio del suono della quiete, come appartenenti a quello. Ogni corrispondere
s'accorda a tale concentrazione e a tale permanere. A quest'ultimo deve pertanto stare a cuore tenersi
pronto, in ascolto, alla Chiamata della dif-ferenza. Non solo, ma esso deve badare a che il suo ascolto
del suono della quiete non si limiti a seguirne, ma ne prevenga in certo qual modo la Chiamata.
Tale prevenire determina il modo col quale i mortali corrispondono alla dif-ferenza. Cosi' i mortali
dimorano nel parlare del linguaggio.
Il linguaggio parla. Il suo parlare chiama la dif-ferenza, la quale porta mondo e cose nella
semplicita' della loro intimita', consentendo loro d'essere se stesse.
Il linguaggio parla.
L'uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere e' ascoltare. L'ascoltare e'
possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da un vincolo di appartenenza.
Non ha alcuna importanza proporre una nuova concezione del linguaggio. Quel che solo conta e'
imparare a dimorare nel parlare del linguaggio. Perche' cio' sia possibile, e' necessario un continuo esame
di se stessi per vedere se e fino a che punto siamo capaci di un autentico corrispondere: di prevenire la
Chiamata permanendo nel suo dominio. Poiche':
L'uomo parla soltanto in quanto corrisponde al linguaggio.
Il linguaggio parla.
Il suo parlare parla per noi nella parola detta.
Una sera d'inverno
Quando la neve cade alla finestra,
A lungo risuona la campana della sera,
Per molti la tavola e' pronta
E la casa e' tutta in ordine.
Alcuni nel loro errare
Giungono alla porta per oscuri sentieri.
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
Il dolore ha pietrificato la soglia.
La' risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.
(M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti)Il sacro e la poesia
".... e perche' i poeti nel tempo della poverta'?", chiede l'elegia di Holderlin Pane e vino. Oggi
comprendiamo a stento la domanda. Come potremo intendere la risposta che Holderlin da'? ".... e
perche' i poeti nel tempo della poverta'?". La parola "tempo" allude all'epoca di cui noi oggi facciamo
ancora parte . Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di
Holderlin, la fine del giorno degli Dei. E'caduta la sera. Da quando i "tre che sono uno": Ercole,
Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del
mondo distende le sue tenebre. Ormai l'epoca e' caratterizzata dall'assenza di Dio, dalla "mancanza di
Dio". La mancanza di Dio, come venne sentita da Holderlin, non nega la persistenza di un
atteggiamento cristiano verso Dio, da parte dei singoli e delle Chiese e non valuta questo rapporto in
modo negativo. La mancanza di Dio significa che non c'e' piu' nessun Dio che raccolga in se',
visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale
e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora.
Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si e' spento lo splendore di dio nella storia universale. Il tempo
della notte del mondo e' il tempo della poverta' perche' diviene sempre piu' povero. E'gia' diventato tanto
povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza. [...] Poeti sono i mortali che,
cantando gravemente il Dio del vino, seguono le tracce degli dei fuggiti, restano su queste tracce e cosi'
rintracciano la direzione della svolta per i loro fratelli mortali. L'Etere, nel quale soltanto gli Dei sono
Dei, e' la loro divinita'. L'elemento di questo Etere, in cui la divinita' stessa e' presente, e' il Sacro.
L'elemento dell'Etere per il ritorno degli Dei, il Sacro, e' la traccia degli Dei fuggiti. Ma chi sara' in
grado di rintracciare questa traccia? Le tracce, sovente, sono ben poco visibili, e sono sempre il retaggio
di un'indicazione appena presentita. Essere poeta nel tempo della poverta' significa: cantando, ispirarsi
alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perche' nel tempo della notte del mondo il poeta canta il sacro. Ecco
perche', nel linguaggio di Holderlin, la notte del mondo e' la notte sacra.
(M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1996




N° Post: 435
Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 04:45:14 PM


EDMUND HUSSERL E LA FENOMENOLOGIA









Quadro culturale

Con l'inizio del Novecento vari movimenti filosofico-culturali evidenziano i limiti del positivismo, considerandolo una scienza schematica, astratta, estranea alle problematiche piu' profondamente umanistiche.

In effetti, dalla fondazione razionale di scienze come l'economia, la sociologia e la psicologia si stava ormai decisamente passando all'organizzazione tecnica dell'economia, della convivenza umana, del comportamento psicologico. Il passaggio dalla scienza alla tecnica, avvertito positivamente quando si trattava di ottenere il dominio della natura fisica e biologica, ora viene avvertito come una minaccia, poiche' esso ha investito il campo piu' propriamente "umano". Di qui l'esigenza di mettere in crisi il concetto di ragione scientifica, quella ragione che non sa cogliere l'originalita' dell'esistenza umana nella sua individualita' e liberta', quella ragione che si limitava a consacrare i fini dominanti della societa' borghese delle nazioni coloniali di fine Ottocento.



Sara' soprattutto l'esperienza catastrofica della I guerra mondiale a favorire la consapevolezza della crisi del modello culturale borghese fondato sul positivismo (la fiducia assoluta nelle scienze, nella tecnologia, nel capitalismo, nell'organizzazione razionale della societa').



Il movimento fenomenologico prima e l'esistenzialismo dopo (ivi incluso l'ontologismo di Heidegger) furono le correnti filosofiche che tentarono di uscire dall'impasse in cui era caduto il positivismo. L'esistenza umana ora veniva considerata irriducibile a semplice oggetto della ragione scientifica: benche' la fenomenologia accentui di piu' i valori oggettivi di tale esistenza, mentre l'esistenzialismo quelli soggettivi.

Il testo fondamentale per comprendere questo periodo storico e' quello di Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: "crisi" riconducibile al fatto che tutte le scienze hanno voluto far trionfare una ragione tecnico-utilitaristica che ha poi ridotto l'uomo a semplice oggetto tra oggetti. Solo con la riscoperta della ragione filosofica l'uomo potra' diventare soggetto di scienza e artefice della propria storia.

Iter biografico

E. Husserl nasce in Moravia nel 1859, da famiglia ebrea della medie borghesia. Dopo aver studiato astronomia a Lipsia, nel 1878 e' all'universita' di Berlino, per dedicarsi alla ricerca matematica sotto la guida di due famosi docenti, Kronecker e Weierstrass.

Nell'83 discute la sua tesi Sul calcolo delle variazioni a Vienna e s'incontra col filosofo F. Brentano, grazie al quale passa alla psicologia.

La sua carriera universitaria inizia pero' con l'esame di libera docenza, sostenuto nell'87, con uno studio Sul concetto di numero. Diventa libero docente all'universita' di Halle dall'87 al '901.

Nel '91 pubblica la Filosofia dell'aritmetica, con la quale cerca di chiarire i concetti fondamentali dell'aritmetica (unita', molteplicita', numero...) rifacendosi agli atti psichici corrispondenti, cioe' tenta di fondare l'oggettivita' dei numeri riportandola all'oggettivita' dell'atto psichico. Lo strumento che usa e' la psicologia analitico-descrittiva di Brentano, secondo cui, mediante la descrizione delle intenzioni interiori si raggiunge la fonte della certezza. Il concetto fondamentale di cui egli si serve e' "intenzione", mutuato da Brentano (il quale a sua volta si era ispirato alla logica scolastica medievale).



Per Brentano il carattere specifico dei fenomeni psichici sta nella loro intenzionalita', cioe' nella loro direzione verso l'oggetto (dotato di assoluta autonomia rispetto alle rappresentazioni della coscienza). L'oggetto dell'intenzionalita' e' sempre un oggetto reale: ogni fenomeno psichico e' sempre "coscienza di qualcosa". L'oggettivita' sta dunque nell'atto intenzionale, immediato, che solo la psicologia puo' studiare.

Husserl tuttavia e' piu' complesso. Egli cerca una corrispondenza fra la struttura necessaria e immutabile delle proposizioni logico-matematiche e la struttura oggettiva che Brentano aveva creduto di ravvisare nell'atto intenzionale, psicologico. Ma, cosi' facendo, Husserl si distacca dallo psicologismo di Brentano e cerca di indirizzare l'attivita' psicologica verso la logica matematica. Egli infatti riteneva che il soggetto delle operazioni aritmetiche deve essere posto al di sopra dei limiti del soggetto psicologico. Secondo Husserl le forme a-priori dell'intuizione spazio-temporale poste da Kant a fondamento della geometria e dell'aritmetica, sono condizioni necessarie a originare il concetto logico-matematico, ma non sufficienti. Sono cioe' condizioni psicologiche preliminari, ma non garantiscono l'oggettivita' del concetto.

D'altra parte Husserl nega che l'oggettivita' possa essere raggiunta per via logico-matematica senza il supporto del soggetto. L'oggetto per lui ha valore nella misura in cui rinvia, correlativamente, all'intenzionalita' del soggetto. Egli insomma cercava di ricomporre l'antitesi fra empirico e razionale, fra psicologismo e logicismo.

Tuttavia, la dura critica di G. Frege alla Filosofia dell'aritmetica lo porta ad assumere un atteggiamento ambivalente. Infatti nel vol. I delle Ricerche logiche (Prolegomeni alla logica pura) del 1900, egli rifiuta nettamente lo psicologismo, abbracciando le tesi del logicismo di Bolzano, che attribuiva alle verita' logiche l'oggettivita' in se', ma nel II vol. rivaluta lo psicologismo. Questa, in fondo, e' anche una caratteristica della sua filosofia, che e' articolata in maniera flessibile, essendo accessibile a punti di vista diversi se non opposti (di qui l'accusa d'essere una "filosofia senza presupposti").

Husserl giunge alla conclusione che le leggi logiche non dipendono dagli eventi psichici, in quanto hanno valore a prescindere dalla nostra consapevolezza. Cioe' a dire non e' possibile, per Husserl, ridurre le descrizioni di cio' che il soggetto pensa alle descrizioni dei processi interni attraverso i quali egli pensa un determinato oggetto. Tuttavia, il valore delle leggi logiche -a suo giudizio- dev'essere "ontologico" non formale o convenzionale. Le condizioni ideali che rendono possibile la conoscenza sono non solo logiche, ma anche "noetiche", cioe' in grado di fondare il senso profondo della conoscenza.

Alla fine del 1901 Husserl viene nominato prof. straordinario a Gottinga e nel 1906 viene promosso prof. titolare. Restera' in questa universita' sino al 1915. In questo periodo, oltre a dirigere la polemica anti-psicologistica, Husserl partecipa al movimento filosofico della fenomenologia, divenendone l'esponente piu' significativo.

Nel 1911 pubblica La filosofia come scienza rigorosa e nel '13 Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, di cui uscira' solo il I vol., mentre gli altri due, inediti, subiranno per circa 20 anni continue revisioni.

Nel saggio dell'11 Husserl afferma la vocazione della fenomenologia al rigore scientifico, senza pero' nascondersi che cio' implicava una ridefinizione del concetto di "scientificita'". In tal senso egli decide di sottoporre a critica tre correnti della filosofia contemporanea: il naturalismo, che in nome della scienza mortifica il valore della coscienza; il vitalismo, che esalta l'individualismo; il relativismo storicistico, che nega ogni scientificita'. La fenomenologia deve scavare sotto questi pregiudizi e "tornare alle cose".

Presupposti culturali della fenomenologia di Husserl

L'opera di Husserl si riallaccia alla tradizione neokantiana, come effetto dello sviluppo della tematica positivista in Germania. In particolare essa ha in comune col neo-criticismo di Natorp (scuola di Marburgo) la tematica "coscienziale", secondo cui la coscienza dev'essere libera da pregiudiziali matematiche e scientifico-naturali e dev'essere in grado di unificare tutte le sfere culturali e tutte le forme di coscienza (percepire, pensare, ricordare, simbolizzare, amare, volere...). Natorp sviluppo questa tematica col metodo logico-trascendentale, Husserl invece usera' quello fenomenologico-trascendentale. (La fenomenologia e' l'analisi della coscienza nella sua intenzionalita': essa esamina tutti i modi in cui qualcosa puo' essere dato alla coscienza ed esamina la validita' riconoscibile agli oggetti di coscienza).



In comune i due neokantiani hanno anche l'interesse per i rapporti tra la filosofia e le scienze. Tuttavia, Husserl, ha origini culturali indipendenti (scuola di Brentano). Da notare che la discussione tra fenomenologia e neo-kantismo sara', dal 1900 in poi, uno dei dati piu' costanti e fecondi nel dibattito filosofico tedesco di questo secolo.



Per "movimento fenomenologico" s'intende quel gruppo di ricercatori che pubblicarono tra il 1913 e il 1950 una serie di volumi nell'annuario di filosofia e ricerca fenomenologica, diretto da Husserl. Le figure piu' rappresentative: M. Scheler, A. Pfänder, O. Becker, A. Reinach, M. Geiger. A questi nomi di deve aggiungere N. Hartmann e soprattutto B. Bolzano e F. Brentano (da Bolzano Husserl trae l'esigenza di determinare delle proposizioni che abbiano validita' in se', a prescindere dal loro riconoscimento soggettivo; da Brentano trae l'idea d'intenzionalita' della coscienza, la quale non ha bisogno di misurarsi con la realta' per sentirsi vera).

Obiettivi della fenomenologia

Il principale bersaglio della critica di Husserl e' l'impostazione empiristica/psicologistica della logica e in generale della teoria della conoscenza. L'analisi fenomenologica della coscienza parte dal presupposto che ogni apriorismo idealistico, cosi' come ogni forma riduttiva di empirismo, hanno fatto il loro tempo, e che la coscienza non e' una "realta'" come le altre realta' (la realta' e' solo uno dei modi in cui l'oggetto puo' essere dato alla coscienza). La coscienza, nei confronti del mondo, e' uno spettatore disinteressato, al quale gli oggetti sono presenti come fenomeni (nel movimento dei quali essa non e' coinvolta).

La fenomenologia pretende d'essere un ritorno alle cose, e' il tentativo di lasciar parlare le cose, cogliendo, nel loro dire, quegli aspetti che piu' interessano la coscienza umana (come i valori, le essenze, ecc.). Per poterli cogliere il ricercatore deve liberarsi da tutte le opinioni preconcette (sospensione del giudizio o epoche'). Il fenomeno non e' visto in antitesi al noumeno ma, al contrario, come una manifestazione immediata dell'essere alla coscienza. I fenomeni che la fenomenologia deve interpretare sono quelli essenziali, lasciando quelli empirici alle altre scienze. Essa si serve appunto dell'intuizione essenziale o eidetica. Per cogliere l'essenza del fenomeno (qui sta il lato idealistico della fenomenologia) il ricercatore deve compiere la riduzione eidetica, cioe' deve prescindere dal fatto che l'oggetto possegga un'esistenza reale (dotata di coordinate spazio-temporali e di leggi causali), altrimenti non ne potra' cogliere l'essenza. Le essenze valgono "a priori" (non perche' conferite dal soggetto all'oggetto della conoscenza, come in Kant, ma perche' se sono vere per l'essenza di un fenomeno generale lo sono anche per tutti i casi singoli in cui il fenomeno si esprime).

La fenomenologia e' scienza contemplativa, apofantica (nella ragione si rivela l'essere), rigorosa (perche' fornita di fondamenti assoluti), intuitiva (coglie le essenze delle cose anche attraverso la percezione sensibile), non-oggettiva (prescinde da ogni fatto o realta' e si rivolge alle essenze), soggettiva (perche' l'analisi della coscienza mette capo all'io come soggetto unificante di tutte le intenzionalita' costitutive), scienza delle origini e dei primi principi (perche' la coscienza contiene il senso di tutti i modi possibili in cui le cose possono essere date/costituite), impersonale (perche' al ricercatore si richiedono solo doti teoretiche).

Aspetto sistematico

Psicologismo

A proposito della prima opera di Husserl, cioe' la Filosofia dell'aritmetica, si parla dello psicologismo caratteristico della prima fase del pensiero husserliano. Tuttavia, tale attribuzione necessita di essere meglio chiarita. Come e' noto, Husserl si dedico', in quell'opera, ad approfondire i fondamenti psicologici di una nozione come quella di numero. Questa operazione fu criticata da Frege, che, spinto dall'esigenza di distinguere nettamente la psicologia dalla logica e di fondare l'aritmetica su basi rigorosamente formali, accusa Husserl di psicologismo. Egli rifiuto', percio', tutta la problematica husserliana, diretta a definire il carattere e i limiti delle operazioni psicologiche che sono alla base dei concetti elementari dell'aritmetica. Tuttavia lo psicologismo husserliano non va confuso con quello psicologismo, di tipo strettamente empiristico e naturalistico, che misconosce la validita' oggettiva e la necessita' ideale dei concetti matematici e delle leggi logiche. Fondare certi concetti elementari dell'aritmetica su alcune fondamentali operazioni non significava di fatto, per Husserl, risolvere il razionale nell'empirico, l'oggettivo nel soggettivo. Egli era d'accordo nel salvaguardare, contro gli empiristi, il valore di oggettivita' e idealita' dei principi logici e matematici, ma non era invece disposto a cedere a quella forma di platonismo che separava le idealita' matematiche dall'attivita' del soggetto.

Logicismo

In seguito alle critiche mossegli da Frege, Husserl e' spinto ad una severa critica dello psicologismo (e quindi anche dei presupposti della sua prima opera) che svolge nel primo volume delle Ricerche logiche (1900), che ha come sottotitolo Prolegomeni alla logica pura. Gli aspetti e le argomentazioni diverse che vengono sviluppati nella critica al psicologismo sono riconducibili ad un nucleo fondamentale di pensiero, che si e' formato in Husserl anche sotto l'influenza di Bolzano, il quale nella sua Dottrina della scienza, identifica le verita' logiche con oggettivita' ideali, che hanno il carattere di oggettivita' in se'. La reazione a qualsiasi forma di psicologismo conduce Husserl, nella prima parte delle Ricerche Logiche, al logicismo. Il pensiero fondamentale, da cui si sviluppa la critica allo psicologismo, scaturisce dall'esigenza di sottrarre le proposizioni e le leggi logiche alle interpretazioni relativistiche e convenzionalistiche, che le riducevano a "leggi naturali" del pensiero. Se le leggi logiche avessero una fondazione empirico-induttiva, esse non sarebbero altro che leggi empiriche, con un carattere di mera probabilita'; ma esse, al contrario, non hanno nulla in comune con i fatti empirici.

Logica e teoria della conoscenza

Il secondo volume delle Ricerche logiche segna un ritorno all'aspetto soggettivo della logica, il tentativo si esplorare il rapporto tra la coscienza e le oggettivita' ideali della logica, attraverso l'elaborazione di una teoria della conoscenza.

Questa teoria, se riferita alla logica, deve procedere anzitutto ad un esame del linguaggio, cioe' delle espressioni in cui le forme logiche si trovano incorporate e con cui formano un'unita' fenomenologica. L'indagine sul linguaggio, compiuta sul piano della fenomenologia si propone di giungere all'essenza delle espressioni e degli enunciati, colti direttamente in una intuizione essenziale. La teoria della conoscenza delle verita' logiche ha come presupposto soggettivo, l'atto intuitivo, e, come presupposto oggettivo l'essenza come contenuto dell'intuizione. Il terreno proprio dell'indagine fenomenologica e' quello dell'astrazione. Uno dei compiti fondamentali di questa teoria sara' quello di definire la conoscenza dell'astratto, l'intuizione e la visione dell'astratto.



Nel II volume delle Ricerche logiche comincia a portare contributi alla soluzione positiva del problema "che cosa e' l'ente logico?". Il logico appartiene alla sfera del significato e non a quella del significare, ma il significato non si identifica con la cosa conosciuta. L'erronea identificazione tra significato e cosa conosciuta ha indotto l'empirismo a negare l'esistenza di concetti universali: poiche' le cose sono tutte individue, infatti, argomentano gli empiristi, l'universale non esiste. La seconda delle Ricerche logiche mette in rilievo l'esistenza di significati universali: si possono aver presenti oggetti individuali, come questa cosa o questo rosso, ma si possono aver presenti anche significati universali come "il rosso" o "il numero due". Fra i primi e i secondi non c'e' solo una differenza di grado, quasi che i secondo fossero solo immagini sbiadite dei primi, ma una differenza specifica: l'oggetto individuale e' questo, determinato hic et nunc, il significato universale prescinde dall'hic et nunc, e' puramente un quid (Was) o, come dira' Husserl, a partire dalle Idee, una essenza (Wesen), un eidos. L'atto col quale cogliamo l'universale, l'essenza, e' ancora chiamato astrazione, nelle Ricerche Logiche, ma Husserl osserva che tale atto non consiste nel separare da un oggetto una qualita' che sarebbe comune anche ad altri, poiche' le qualita' di un oggetto individuo sono tutte individuali, e per considerare una qualita' come comune bisogna gia' averla universalizzata e considerarla appunto nella sua essenza e non nella sua individualita'. L'astrazione, che porta a cogliere l'universale o essenza, non e' un processo di confronto o mediazione, ma e' un originario modo di vedere: per questo Husserl, a partire dalle Idee, parla di intuizione delle essenze (Wesensschau). L'essenza e' pero' sempre colta in un dato di fatto: l'intuizione di un'essenza presuppone quindi sempre un'intuizione individuale. Le essenze, i significati formano quindi una classe di "oggetti-generali", senza per questo essere ipostatizzati in un iperuranio o in uno spirito divino. Il loro essere coincide con il loro essere irreali. Tuttavia, osserva Husserl, poiche' siamo in grado di esprimere giudizi veri su numeri o entita' logiche, siamo autorizzati a parlare di numeri ed entita' logiche come oggetti.

L'intuizione delle essenze e' per Husserl la radice dell'apriori: infatti, sono possibili proposizioni universali e necessarie, ossia a priori, in quanto i termini sui quali si fondano sono essenze e non fatti. Cio' che e' vero di un'essenza, infatti, e' vero sempre e dovunque, ossia e' vero di qualsiasi individuo in cui quella essenza si attui. Le proposizioni che hanno per soggetto un'essenza sono di tipo specificamente diverso da quello delle proposizioni induttive , delle generalizzazioni di fatti sperimentati, come sono le leggi scientifiche (delle scienze naturali). La logica e la matematica sono costituite di proposizioni a priori, esprimenti rapporti tra essenze.

L'apriori, comunque, assume nella filosofia di Husserl un significato del tutto diverso dall'apriori kantiano, non e' infatti discorsivo e deduttivo, bensi' un apriori intuitivo.

Intenzionalita'

Ogni attivita' di pensiero e di conoscenza tende a degli oggetti, a degli stati di cose. Quando l'intuizione ha di mira l'essenza, la forma logica di questi oggetti, quest'ultima e' identificabile solo come unita' di una molteplicita' di atti di pensiero, o di significazioni. Questa unita' o identita' di significato, che e' l'oggetto dell'intenzione conoscitiva della coscienza, viene presa in esame attraverso un'analisi del rapporto espressione-significato. L'espressione, per Husserl, e' quella che conferisce un significato a cio' di cui e' espressione, in altri termini essa esprime una relazione oggettiva. Il riferimento dell'espressione all'oggetto, vale a dire il suo significato, assume il valore di unita' ed identita' ideale della specie, di fronte ai singoli atti espressivi. Il significato, idealmente uno, si comporta in relazione a ciascuno degli atti del significare come la specie "rosso" in rapporto alle "cose rosse", che non sono altro che casi particolari della specie del colore rosso. Ebbene, tale identita' di significato, che e' il significato della specie, costituisce per Husserl una oggettivita' puramente ideale ed irreale, che non si trova ne' al di fuori della conoscenza ne' negli atti reali della coscienza, bensi' nella coscienza come atto intenzionale. Dire che la coscienza e' essenzialmente intenzionale significa affermare che essa rinvia a qualcosa di diverso da se', che essa e' sempre diretta verso un contenuto che in qualche modo e' il suo opposto. L'atto di coscienza, quindi, non e' pensabile ed analizzabile che in relazione con l'oggetto, e lo stesso oggetto non e' pensabile ed analizzabile che in relazione al soggetto, alla coscienza.

Muovendo da una determinata concezione della coscienza, Husserl intende liberare la filosofia da tutte quelle tendenze, empirismo, positivismo, soggettivismo, psicologismo, che pongono, piu' o meno consapevolmente, le basi della conoscenza nella relazione di un io con la realta' esterna e trascendente della natura. Il punto di vista intenzionale considera come un'assurdita' il presupposto teorico che l'io e il mondo oggettivo debbano entrare in relazione nell'atto conoscitivo, sussistendo gia' come io e come realta' oggettiva prima di entrare in questa relazione.

Riduzione fenomenologica

Le Ricerche Logiche ci hanno fatto conoscere due tipi di oggetti, con i quali e' in relazione la coscienza come intenzionalita': le cose reali, cioe' le cose della percezione sensibile, esterna o interna, e gli oggetti ideali, vale a dire le specie o essenze e le formazioni logiche. Delle cose reali si ha un'evidenza che Husserl definisce inadeguata. Idee I introduce la nozione di orizzonte di intenzionalita', che costituisce, rispetto alle Ricerche, un approfondimento del concetto di evidenza, nell'ambito della percezione sensibile. della cosa esterna si ha una percezione che coglie la cosa nella sua corporea presenza, e, tuttavia, e' una percezione adombrante. La cosa percepita e' percepita solo per singoli aspetti o adombramenti. Intorno ad un nucleo centrale, effettivamente rappresentato, c'e' un orizzonte di altri elementi da apprendere, dei quali e' possibile un'anticipazione secondo una regola e una maniera che sono preventivamente e necessariamente tracciate. Le diverse percezioni, in quest'orizzonte di determinabilita' delle cosa, si unificano nell'unita' di una percezione, in seno alla quale al perdurante continuita' della cosa si rivela in aspetti e lati sempre nuovi. Da cio' consegue che la percezione della cosa reale sia sempre, essenzialmente, inadeguata. In Husserl si hanno quindi due specie di evidenza, o intuizione, la prima che consiste nella visione di una individualita' empiricamente determinata, la seconda che si identifica con la visione intellettuale di una essenza o di un rapporto di essenze.

Si vede quindi come in Husserl il divario incolmabile tra la cosa percepita e la cosa percepibile si risolve nella conseguenza che al di la' della cosa percepita vi e' sempre una cosa percepibile, un'unica e medesima determinabile x, la cui compiuta determinazione non puo' mai essere raggiunta. Il significato della trascendenza della cosa naturale e' in questo "al di la'" del percepito e del determinato. Ma in che senso si parla qui di trascendenza della cosa naturale? L'oggetto, qualsiasi oggetto e' soltanto un fenomeno all'interno della relazione intenzionale. Che relazione ci sara' fra l'oggetto come fenomeno, semplice correlato dell'atto intenzionale della coscienza, e la cosa naturale intesa come una realta' trascendente nel senso tradizionale del termine?



La peculiarita' della riduzione fenomenologica (od epoche') consiste proprio nel sospendere nel neutralizzare tal problema, cioe' nel mentre tra parentesi l'atteggiamento naturale, cioe' la persuasione dell'esistenza di un mondo spazio-temporale che sia indipendente da noi, dalla nostra coscienza. La riduzione fenomenologica ha come presupposto l'io, la coscienza, ma non un io psicologico, il cui vissuto sia nel mondo al pari degli altri oggetti naturali. Il suo principio non puo' essere altro che un io puro che non e' nel mondo, ma e' il fondamento assoluto, nella sfera dell'intenzionalita', del senso di qualsiasi fenomeno e, percio', anche del mondo.

Questo potrebbe far pensare ad una tesi idealistica berkeleyana, in cui il mondo e' trasformato in "apparenza soggettiva". Ma di fatto, afferma Husserl, nella riduzione fenomenologica, la realta' effettiva non e' stata ne' snaturata, ne' negata, ne e' stata eliminata solo un'interpretazione assurda, che consiste in definitiva nel realismo dogmatico. La tesi naturale, di pensare un mondo esistente al di fuori della nostra coscienza, non e' assurda in se' stessa, ma solo a condizione che ci si accorga che il mondo stesso ha il suo essere in un certo "senso", che presuppone la coscienza assoluta, l'io puro, come sfera di conferimento di quel "senso". La difficolta' di interpretazione sta tutta nella necessita' di dare un significato definito e non equivoco a questo "conferimento del senso" da parte della coscienza. Husserl scarta l'interpretazione dettata dall'idealismo soggettivo, per cui l'oggetto o la realta' non sarebbero nulla all'infuori del senso che viene loro conferito dal soggetto, la quale comporterebbe la negazione della tesi naturale. Rifiuta pero' anche l'interpretazione dettata dal trascendentalismo kantiano, perche' la posizione del noumeno non e' altro che una radicale affermazione della tesi naturale. L'analisi fenomenologica si limita invece a parlare soltanto del fenomeno, che si identifica con l'oggetto intenzionale.

Per Husserl l'oggetto intenzionale, come unita' di senso, implica si' gli atti costitutivi della coscienza che conferisce il senso, ma non viene dissolto nella realta' assoluta del soggetto (come nell'idealismo berkeleyano). L'oggetto, il mondo, e' semplicemente cio' che ha un senso in virtu' dell'attivita' costitutiva dell'io, ovvero, secondo la terminologia usata nelle Idee, un noema in rapporto alla noesi, cioe' all'insieme degli atti della coscienza, la quale, in virtu' della struttura e della forma dei suoi atti, condiziona la struttura e la maniera in cui e' dato il correlato della coscienza. Anche se qui sembrerebbe di trovarsi di fronte ad una soluzione kantiana, Husserl se ne dichiara lontano, in quanto, avverte, Kant ha teorizzata sulla conoscenza prendendo come base un soggetto psicologico, mondano, anche se astrattamente formale.

Logica trascendentale

Il significato e la funzione dell'a priori, non ben chiariti nelle opere precedenti, vengono esplicitati nelle Idee I e II ed inoltre viene messa in evidenza la distanza che li separa dall'a priori formale kantiano. Mentre l'a priori Kantiano e' solo condizione formale di possibilita' della conoscenza, e, come tale, non costituisce scienza, l'a priori husserliano e' scienza, scienza fenomenologica delle essenze, e, come tale, e' il fondamento teorico, che conferisce significato e legittimita' al sapere specifico e particolare delle singole scienze della natura.

Tale fondamento puo' essere dato solo dalla logica, intesa come teoria della scienza, a patto che essa sia svolta in modo fenomenologico. La logica tradizionale si presentava erroneamente come qualcosa di precostituito ed accettato senza discussione, senza una giustificazione. Kant stesso era caduto nell'illusione che la logica formale non avesse bisogno di alcuna spiegazione e fondazione a priori: la logica formale era l'a priori per definizione, un fatto, una necessita' e non un principio o insieme di principi da giustificare. La fenomenologia, con la sua analisi critica e trascendentale, respinge questo pregiudizio: anche la logica esige una fondazione e giustificazione. Con l'opera Logica formale trascendentale, Husserl si muove esattamente in questa direzione.

Intuizione delle essenze

Nella Logica Husserl da' per la prima volta una soluzione perspicua ad uno dei problemi fondamentali dell'indagine fenomenologica: l'intuizione delle essenze. Nelle Idee la visione dell'essenza risultava essere di la' dalla semplice intuizione sensibile o individuale, ma non si comprendeva in che cosa essa consistesse. Qui, invece, si afferma che l'essenza generale viene colta attraverso l'intuizione sensibile, ma, allo stesso tempo, non si identifica con cio' che e' intuito da una singola percezione sensibile. Pero' e' ormai chiaro che l'essenza non viene neppure colta da una intuizione non sensibile o sovrasensibile. A fondamento della intuizione delle essenze c'e' un processo di variazione. Attraverso una libera ed arbitraria variazione dell'immaginazione che puo' essere effettuata senza limiti e a piacere- si coglie cio' che persiste necessariamente nonostante tutte le deformazioni possibili operate su una oggettivita' scelta a titolo di esempio. Tale procedimento, che per Husserl non ha assolutamente carattere empirico o contingente, da' come risultato l'intuizione dell'eidos, che e' cio' che rimane invariante in tutte le possibili variazioni. L'intuizione coglie la struttura necessaria ed insopprimibile di una oggettivita' nelle infinite possibili variazioni prodotte dall'immaginazione su di essa. Ogni oggettivita' particolare rinvia ad una forma, a un tipo essenziale che le corrisponde, e che viene definito come forma costitutiva nei confronti di questa oggettivita'. L'eidos, nel suo carattere di generalita' specifica, e' un tipo che riassume tutte le esperienze passate ed anticipa quelle future.

Evidenza del cogito

Nelle Meditazioni cartesiane il principio della riduzione fenomenologica raggiunge la sua formulazione piu' radicale.

L'epoche' e', per sua natura, orientata alla ricerca di un'evidenza: si sospende l'assenso a tutto cio' che non e' apoditticamente evidente proprio per riservarlo solo a cio' che si presenti in modo assolutamente indubitabile. E' qui evidente il legame con il dubbio cartesiano, e Husserl riconosce a Cartesio il merito di avere, per primo, posto il problema della riduzione. Ma il filosofo francese non ne ha colto il significato veramente originale ed autentico. L'errore principale che egli ha commesso e' quello di aver considerato il cogito come una particella del mondo, come substantia cogitans, dalla cui esistenza indubitabile, per un procedimento deduttivo, si giunge alla conclusione logica dell'esistenza del resto del mondo. Anzitutto, per Husserl, il cogito non e' una particella del mondo, anche se di natura e dissonanza diversa da tutto il resto. Considerare l'io come una parte del mondo significa includere l'io nella realta' della tesi naturale e quindi farne un presupposto, mentre, per Husserl, l'io trascendentale deve scaturire come una certezza dalla negazione di ogni presupposto. In secondo luogo, la convinzione che il ragionamento filosofico si identifichi con un procedimento avente una necessita' deduttiva costituisce quello che Husserl chiama un "a priori ingenuo", il quale, a sua volta, e' un presupposto da respingere. Infatti, sul suo fondamento, Cartesio ha costruito quella filosofia assurda che e' "il realismo trascendentale": egli ha creduto, cioe', che una volta afferrata la realta' indubitabile dell'ego, su questa base si possa raggiungere la realta' di un mondo esterno e trascendente. Il controsenso della ipotesi realistica consisterebbe nel fatto che essa ammette come possibile che cio' che e' esistente per me sia nello stesso tempo esistente per se'. La libera riduzione che viene effettuata in rapporto all'esistenza del mondo, che e' una semplice sospensione della tesi naturale, deve darci il significato genuino dell'io.

Husserl afferma che io stesso e la mia vita rimaniamo intatti nel nostro valore di essere, qualunque giudizio io possa dare dell'esistenza del mondo. Ma quest'io e la sua vita, che risultano dall'epoche', non sono un pezzo del mondo. Considerare l'io come un pezzo del mondo significa identificare il cogito con la coscienza empirica. Il mondo oggettivo con tutti i suoi oggetti, compreso l'io empirico, psicologico, attinge il suo senso e il suo valore d'essere al mio io trascendentale. Come l'io ridotto fenomenologicamente non e' una parte del mondo, cosi', reciprocamente il mondo stesso ed ogni oggetto mondano non sono pezzi del mio io, non si possono trovare realmente nel mio vissuto come sue parti reali. Gli oggetti del mondo potrebbero essere parti del mio io psicologico, se li intendessimo come un complesso di dati sensoriali o di atti psichici. Ma non possono essere parti del mio io trascendentale, e quindi sono necessariamente trascendenti. Percio' il carattere della trascendenza appartiene al senso specifico dell'essere nel mondo in virtu' del carattere trascendentale dell'io, che conferisce all'essere del mondo tale senso di trascendenza. E' la scoperta dell'io trascendentale che, secondo Husserl, evita alla fenomenologia la caduta nel realismo o nell'idealismo psicologico e soggettivo. Essere trascendente dell'oggetto e io trascendentale sono termini "intenzionalmente" correlativi. Dal mondo dell'atteggiamento naturale, in cui solo il mondo ha senso, sia passa al mondo come fenomeno del soggetto trascendentale, in cui il mondo ha senso per il soggetto trascendentale.

Il passaggio tra questi due mondi avviene tramite il riconoscimento della necessita' dell'epoche': l'esistenza del mondo, cosi' come e' inteso nell'atteggiamento naturale, non e' apoditticamente evidente: quel mondo potrebbe apparire cosi' com'e' senza avere un'esistenza indipendente dal suo apparire. Ma che esso appaia e' apoditticamente evidente e, se appare, c'e' una coscienza alla quale appare. Ecco il residuo fenomenologico dell'epoche', cio' che resiste ad ogni tentativo di dubbio e quindi e' apoditticamente evidente: la coscienza, la coscienza trascendentale. Essa e' una coscienza personale, un ego.

Angelo Papi

Fonti

Husserl Edmund, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 2008, Il Saggiatore Tascabili; I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo, 2008, Quodlibet; La teoria del significato. Testo tedesco a fronte, 2008, Bompiani; Esperienza e giudizio. Testo tedesco a fronte, 2007, Bompiani; Fenomenologia e psicologia, 2007, Filema; Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, 2007, Rubbettino; Lezioni sulla sintesi attiva. Estratto dalle lezioni sulla "logica trascendentale" (1920-21), 2007, Mimesis; Storia critica delle idee, 2007, Guerini Scientifica; Fichte e l'ideale di umanita'. Tre lezioni, 2006, ETS; La filosofia come scienza rigorosa, 2005, Laterza; Ricerche logiche. Vol. 1, 2005, Net; Ricerche logiche. Vol. 2, 2005, Net; Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), 2004, Franco Angeli; La storia della filosofia e la sua finalita', 2004, Citta' Nuova; La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 2002, Net; Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Vol. 1, 2002, Einaudi; Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Vol. 2, 2002, Einaudi; Lineamenti di etica formale, 2002, Le Lettere; Meditazioni cartesiane. Con l'aggiunta dei Discorsi parigini, 2002, Bompiani; Filosofia dell'aritmetica, 2001, Bompiani; Fenomenologia e teoria della conoscenza. Testo tedesco a fronte, 2000, Bompiani; Crisi e rinascita della cultura europea, 1999, Marsilio; Fenomenologia, 1999, Unicopli; L'idea di Europa, 1999, Cortina Raffaello; Logica, psicologia e fenomenologia, 1999, Il Nuovo Melangolo

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Commenti:
Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 04:46:23 PM

https://www.homolaicus.com/teorici/husserl/husserl.htm


N° Post: 434
Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 03:05:18 PM


MARTIN HEIDEGGER E L'ESISTENZIALISMO LAICO (1889-1976)







Premessa

Heidegger si pone sulla scia di Husserl perche' esamina l'esistenza dell'uomo, osservando cio' che si rivela immediatamente alla sua coscienza, alla sua vita concreta (i fenomeni), ma si allontana da Husserl perche' colloca l'esistenza (temporale e contingente) nel mondo, evitando di ricercare il significato dell'essere nelle essenze universali e necessarie (nelle forme eidetiche). L'ultimo Husserl s'era posto il problema di concretizzare il soggetto trascendentale, ma era finito su posizioni idealistiche. Alla fenomenologia dell'essenza, Heidegger oppone una fenomenologia dell'esistenza o dell'esistente (ontologia fondamentale), la quale pero' non vuole essere una filosofia esistenziale, in quanto - a suo giudizio - il problema centrale e' quello ontologico dell'essere (che coincide col senso dell'uomo o esserci, Dasein).

In questo tentativo di superare la fenomenologia, Heidegger in realta' mira a superare tutta la metafisica razionalistica occidentale, che secondo lui s'e' persa nell'oggettivita', degradandosi a conoscenza scientifica e tecnica, identificandosi con la logica, offrendo un essere come "semplice presenza" (evidenza), mentre l'esigenza piu' vera e' quella di fondare la filosofia sulla condizione drammatica dell'esistenza, sul modello di Kierkegaard, Nietzsche e Dilthey, le cui opere si erano molto diffuse nella Germania degli anni precedenti la I guerra mondiale.



Non dobbiamo pero' dimenticare che Heidegger cerco' anche di elaborare una risposta filosofica, in chiave borghese-reazionaria, alla crisi del movimento operaio tedesco (vedi la repubblica di Weimar) e alla riuscita della rivoluzione russa.

Biografia

Nasce nel 1889, nel Baden. Nel 1909 s'iscrive all'universita' di Friburgo, diventando un allievo di Rickert. Nel 1913 si laurea con una tesi sullo Psicologismo (pubblicata a Lipsia nel 1914), che viene contestato dal punto di vista della fenomenologia di Husserl. Lo psicologismo, che si riallaccia a Mill, dominava nella cultura filosofica tedesca post-hegeliana. Heidegger rivendica la validita' della logica, contro la pretesa di ridurre le leggi logiche a leggi empiriche sul funzionamento della mente umana: preferisce la logica perche' gli offre garanzie di stabilita' e immutabilita'.

Nel 1915 diventa libero docente all'universita' di Friburgo con una dissertazione su Duns Scoto. La prolusione invece e' sul concetto di Tempo nella storiografia. Nella dissertazione pone il problema della fondazione della validita' obiettiva delle categorie nella vita della coscienza, caratterizzata da temporalita' e storicita'. Heidegger cioe' rivendica la necessita' di un passaggio oltre la logica, rifiutando di considerare le categorie solo come funzioni del pensiero (nasce la polemica anti-neokantiana).

Heidegger non era ancora avverso a Husserl, perche' mentre il neokantismo privilegiava la scienza, nel suo carattere costruttivo e matematizzante (come unica forma di conoscenza valida), per Husserl invece l'atto conoscitivo si risolveva nell'intuizione delle essenze, che non si riduce alla conoscenza scientifica, ma e' un incontrare le cose. La fenomenologia appare quindi a Heidegger come un modo per allargare il discorso neokantiano in direzione della storicita', della concretezza.

Nel 1916 Husserl viene chiamato all'universita' di Friburgo. Heidegger ne diviene assistente. Dal '17 al '23 lavora intensamente col maestro su Kant, Aristotele, Fichte, Mistica medievale, Fenomenologia della religione, Agostino e Neoplatonismo... Dal '23 al '27 e' professore a Marburgo: tiene corsi e seminari su Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Cartesio, Droysen, sull'ontologia medievale, sul concetto di Tempo... Nel '27 pubblica la prima e unica parte di Essere e tempo. Rompe con la filosofia di Husserl, ma contrasti ve n'erano stati anche prima, poiche' Husserl mal sopportava l'antisemitismo di Heidegger. Nel '28 gli succede a Friburgo. Nel '29 pronuncia la prolusione Che cos'e' la metafisica? Pubblica anche Kant e il problema della metafisica e L'essenza del fondamento.



Nel '33 e' nominato rettore dell'universita' di Friburgo; aderisce al partito nazista, pronunciando il discorso Autoaffermazione dell'universita' tedesca (vedi anche l'Appello agli studenti tedeschi), ma l'anno dopo, per dissensi col governo, si dimette a cessa di occuparsi di politica. Pur tenendo regolarmente i corsi accademici, non pubblica quasi nulla fino al 1942. Oggi nessuno sostiene che l'esplicita adesione al nazismo sia stata una casuale sbandata di un impolitico. Fin dagli anni '20 Heidegger aveva manifestato aperte simpatie verso i cd. "resistenti" tedeschi al trattato di Versailles del 1919; non solo, ma egli intendeva anche che il suo pensiero avesse un'espressivita' pubblica di carattere politico.

Heidegger, proprio come il nazismo, critichera' sia il liberalismo che la democrazia, espressioni per lui del moderno soggettivismo, cioe' dell'integrale nichilismo: il liberalismo, perche' finge la democrazia, tenendo il popolo in una situazione di chiacchiera, curiosita' ed equivoco; la democrazia, perche' rappresenta il dominio della massa sul pensiero (qui Heidegger ripete Kierkergaard e Nietzsche). Tuttavia egli si distacco' dal nazismo perche' non ne condivideva il biologismo razzista (vedi la lettera a Jaspers del 1950).

Naturalmente nella critica della democrazia Heidegger includeva anche quella del socialismo. Come tutti i tedeschi di destra degli anni '20 e '30, chiamava "socialismo" solo la socialdemocrazia della SPD (di Kautsky e Hilferding), mentre chiamava "bolscevichi" tutti i comunisti, compresi quelli tedeschi. In realta' i conflitti interni al comunismo non gli sono mai interessati. Il marxismo, per lui, non era che una forma di soggettivismo esasperato (il collettivismo forzato come sublimazione dell'umanesimo astratto). Sara' nel '47 che tentera' una cauta rivalutazione del marxismo definendolo una teoria dell'alienazione come allontanamento dall'origine (le origini tradite o rovesciate nel loro contrario). Tesi per cui l'ultimo Heidegger affermera': "Solo un Dio puo' ancora salvarci!".

Durante il suo rettorato nel '33-'34 chiese alle autorita' naziste di revocare, con "destituzione", dall'insegnamento il collega H. Staudinger, chimico di fama internazionale (poi premio Nobel nel 1953), adducendo il suo atteggiamento "pacifista" e "antinazionalista" durante la I guerra mondiale e quindi la sua inaffidabilita' per il nazismo. Heidegger si oppose anche a mantenere nell'insegnamento E. Baumgarten, da lui denunciato per i suoi rapporti con alcuni ebrei. Rompe anche con K. Jaspers, i cui rapporti erano stati mantenuti dal '20 al '33.



Il secondo Heidegger inizia con un corso di Introduzione alla metafisica, del '35, pubblicato nel '53. La svolta non e' politica, perche' sia qui che nel Discorso del '33, Heidegger assegna alla Germania nazista il compito di salvare i valori della tradizione europea dalla barbarie tecnocratica degli USA e dall'ideologia comunista dell'URSS. Ma e' di tipo filosofico, in quanto il tema fondamentale diventa quello del nulla, per il quale l'esserci prova solo angoscia. Heidegger cioe' mira a trovare un fondamento dell'essere nel nulla. Heidegger comincia a dare della metafisica occidentale un giudizio assolutamente negativo, mentre in Essere e Tempo aveva avuto la pretesa di riformarla. Non dobbiamo pero' dimenticare che Essere e Tempo - a detta dello stesso Heidegger - era rimasto incompiuto perche' la metafisica tradizionale non aveva il linguaggio adatto per concluderlo. Nell'analisi dei concetti di nulla e di angoscia Heidegger dipende in toto da Kierkegaard (gia' in Essere e tempo s'era capita questa dipendenza). Il pensiero del secondo Heidegger diventa meno organico, appunto perche' si presenta come tentativo di superare la metafisica (questa esigenza verra' ripresa da tutta la Scuola di Francoforte). Heidegger si rifiutera' di trovare una definizione esaustiva dell'essere; l'essere anzi risulta indefinibile, in quanto coincide col nulla; per cui il pensiero deve adeguarsi in modo diverso all'essere, non in maniera concettuale, per definizioni, ma in maniera contemplativa, apofatica, mettendosi in ascolto, poiche' l'essere si nasconde.

La svolta prosegue nel biennio '35-'36, allorche' gli interessi di Heidegger si spostano sul terreno dell'arte, dell'estetica, della poetica e del linguaggio. Tiene una conferenza a Roma su Holderlin e l'essenza della poesia e due conferenze a Friburgo e Zurigo sull'Origine dell'opera d'arte (che costituisce il nucleo del piu' ampio saggio pubblicato in Sentieri interrotti).

Dal '36 al '42 tiene una serie di corsi e seminari su Nietzsche, pubblicati nel '61. Nel '42 esce anche La dottrina platonica della verita'.

Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli impedisce qualunque attivita' accademica. Nel '52 scrive una lettera al suo fedele amico W. Petzet affermando, appena dopo essere stato reintegrato nell'insegnamento, che era pronto a rinunciarvi se avessero affidato al filosofo K. Lowith (gia' suo allievo) una cattedra nella Germania occidentale. (Lowith, al tempo del nazismo, era emigrato prima in Giappone, poi negli USA). Jaspers si pronuncio' contro la reintegrazione di Heidegger.

Pubblica L'essenza della verita' nel '43, un libro di saggi su Holderlin nel '44, la famosa Lettera sull'umanismo nel '47, in cui dichiara di non aver nulla a che fare con l'esistenzialismo francese, e Senteri interrotti nel '50. Sempre nel '50 tiene una conferenza sul Linguaggio. Dal '51 al '58 riprende, dapprima in forma privata, corsi e seminari all'universita', su Parmenide, Hegel, Aristotele, Leibniz e sul Linguaggio. Muore nel 1976. Nei suoi Quaderni neri, in via di pubblicazione, appare evidente che il suo antisemitismo rimase immutato. Egli infatti sostiene una tesi alquanto inquietante: praticamente la shoah sarebbe stata una forma di autoannientamento degli ebrei, in quanto questi, avendo puntato sullo sviluppo della tecnica e sulla distruzione dell'occidente cristiano, si erano creati da soli i propri carnefici, il popolo tedesco, l'unico che avrebbe potuto salvare l'occidente. Grazie comunque alla shoah l'Essere si purifica e rinasce.

Analisi di ESSERE E TEMPO

Il problema ontologico

In Essere e tempo vi e' la critica della metafisica occidentale, da Platone in poi. Heidegger mette in dubbio che tale metafisica abbia mai saputo possedere l'essere. Le risposte ch'essa ha dato alla domanda "che cos'e' l'essere?", sono state tre: 1) l'essere e' il concetto piu' generale, trascendente le categorie (Hegel disse "immediato indeterminato"); 2) il concetto di essere e' indefinibile, incapace di dualizzarsi per lasciarsi comprendere; 3) l'essere e' un concetto evidente.

In realta', dice Heidegger, non si puo' parlare dell'essere senza parlare immediatamente dell'uomo (esserci) che si pone degli interrogativi sull'essere. L'esserci, nella metafisica classica, si chiede cosa sia l'essere dandone per scontata la presenza. Cio' significa che la realta' dell'essere e' a un tempo oscura e desiderata. Chiedersi cos'e' l'essere significa, in verita', chiedersi qual e' il senso dell'esserci. Il rapporto dell'esserci all'essere e' determinato dall'esistenza e l'esistenza e' caratterizzata dalla temporalita'. Questo rapporto e' ontologico: e' un rapporto antecedente alla relazione conoscitiva dell'esserci coll'essere, e' un rapporto che la metafisica tradizionale ha sempre nascosto. L'ontologia, a differenza della metafisica, e' quella scienza che descrive le strutture e i caratteri dell'essere a partire dall'esserci, cioe' impedisce di dare una qualunque definizione di essere che non tenga conto dell'esserci. Essa quindi non e' che una analitica esistenziale. La metafisica che identifica l'essere con la semplice-presenza non ha senso, poiche' l'esserci, che dovrebbe identificarsi con l'essere, non ha le caratteristiche dell'oggettivita'.



Per compiere tale critica Heidegger s'e' servito di Dilthey (con la sua riduzione delle filosofie ad espressivita' temporali), di Nietzsche (che ha mostrato che il fondamento dell'essere dipende dalla volonta' del soggetto), di Kierkegaard (che ha sottratto il soggetto a definizioni astratte).

L'esserci come essere nel mondo

Secondo Heidegger le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le seguenti:

1) l'uomo come progetto. La riproposizione del problema dell'essere si avvale dell'analisi delle maniere (media statistica) in cui i singoli uomini si determinano quotidianamente nel mondo. Si scopre cosi' che l'uomo si determina sempre come poter-essere, in quanto egli fa continuamente delle scelte. Il problema dell'essere e' legato all'esistenza e alla categoria della possibilita'. L'esistenza non e' che un trascendere la realta' per realizzare una nuova possibilita',- cioe' noi esistiamo come un continuo tendere verso una diversa sistemazione della realta'. Essere significa progettare. La conseguenza di cio' e' che le cose non possono essere considerate come puri oggetti, nel loro essere in se', indipendentemente da noi e dai nostri interessi. Le cose non sono mai in se', ma sempre come strumento per l'uomo, che le modifica continuamente, senza astrarle dal contesto cui appartengono. Infatti la totalita' degli strumenti e' il mondo. La manipolazione delle cose e' relativa al modo in cui l'esserci si rapporta al mondo. Le cose dunque esistono non per se stesse ma per l'uomo che le trasforma e le inserisce, come strumenti, in un progetto. Esse dunque vengono all'essere solo in virtu' dell'uomo. Il mondo rimane la condizione perche' le cose siano, non e' la somma delle cose. L'oggettivita' delle cose dipende dall'esserci, non e' in se'. Prima del mondo c'e' l'esserci. La strumentalita' delle cose e' manifesta attraverso il linguaggio e in generale attraverso i segni. Il segno non ha altro uso che quello di rimandare a qualcos'altro. Il rimando del segno e' comprensibile attraverso il linguaggio.

Fin qui Heidegger ripercorre strade gia' battute dall'idealismo tradizionale e dalla fenomenologia. L'unica differenza di rilievo sta nel fatto che mentre per la metafisica tradizionale il soggetto ha anzitutto con la realta' un rapporto conoscitivo (per poterla meglio trasformare), l'esserci di Heidegger invece e' un soggetto che apprende anzitutto emotivamente (precomprensione emotiva), nel senso che il rapporto affettivo col mondo e' il primo modo d'essere dell'esserci. L'esserci fa gia' parte del mondo prima ancora di distinguersi da esso attraverso la conoscenza. Heidegger fa qui una distinzione precisa tra comprendere il significato delle cose (che ci e' possibile in quanto il significato e' in noi) e interpretare il mondo (che e' in fondo un'autointerpretazione. L'uomo ha in se' una pre-comprensione originaria che attraverso l'interpretazione gli fa scoprire le cose che sono gia' in lui. E' il circolo ermeneutico, di derivazione platonica). La situazione affettiva e' una specie di pre-comprensione piu' originaria della comprensione stessa. Le cose, per Heidegger, hanno un significato teorico e una valenza emotiva: noia, gioia, paura, disperazione... che non dipendono sempre dal soggetto, ma anche dall'esterno che lo condiziona. Questo condizionamento viene chiamato deiezione o essere-gettato.

2) L'esistenza come progetto gettato. L'esserci che progetta il mondo progetta se stesso. L'esserci e' anche un progetto "gettato" (consegnato) sul mondo (cioe' progettato in modo da aderire ad una certa strumentazione del mondo gia' esistente). Questo mondo orientato strumentalmente e linguisticamente assume l'esserci e si sottopone a trasformazione. Proprio perche' l'esserci e' gettato nel mondo, il suo progetto ha dei limiti invalicabili: l'uomo si trova ad essere senza averlo deciso, e' in un mondo che condiziona radicalmente le sue scelte, ha di fronte la prospettiva della morte. Il problema per Heidegger e' quello di vedere come tale finitezza puo' condizionare positivamente l'uomo (cosa che la metafisica tradizionale s'era sempre rifiutata di fare). Heidegger vuole dimostrare che solo perche' l'uomo e' "finito", chiuso tra la nascita e la morte, puo' fare la storia.

3) Autenticita' e inautenticita' dell'esserci. Con la nozione di essere-gettato si apre la tematica esistenzialistica vera e propria. Nel progettare il mondo e se stesso, l'esserci si trova di fronte a delle possibilita' equivalenti. Una sola e' obbligata: quella della morte. La differenza tra la morte e le altre opzioni di vita e' che la morte resta permanentemente una possibilita' (quando diventa realta', l'esserci non c'e' piu'). La morte cosi' rende impossibili per l'esserci le altre possibilita'. La possibilita' piu' autentica quindi e' quella della morte. Tutte le altre sono inautentiche.

Generalmente pero' l'esserci rifiuta di mettersi costantemente in rapporto con la morte, e preferisce assolutizzare delle possibilita' particolari, cadendo nell'inautenticita' (l'esperienza dell'anonimo "SI"). Nel mondo del "SI" (MAN) l'esserci si disperde nella CURA delle cose, per cui si lascia dominare dalla CHIACCHIERA (banalita'), dalla CURIOSITA' (oziosa e gratuita), dall'EQUIVOCO (fra cio' che e' autentico e non). Le opinioni comuni si condividono appunto perche' comuni. L'esserci insomma e' deietto.



Viceversa, esistere autenticamente significa assumere come possibilita'-base la morte, la quale ha il compito di relativizzare le scelte particolari, di trascenderle continuamente, tanto nessuna di esse potra' realizzarsi secondo il nostro progetto, poiche' esso resta condizionato dal passato e dal presente.



In sostanza il nulla di tutte le realizzazioni particolari viene smascherato dall'angoscia che l'esserci prova di fronte alla morte. Chi non prova questa angoscia teme la morte e la fugge, ma cosi' ha un atteggiamento illusorio, poiche' la morte non puo' essere fuggita. L'esserci insomma deve trascendere il particolare, non per rifugiarsi in un ideale astratto, ma per non lasciarsi trascinare dal particolare in un'esistenza inautentica. La metafisica quindi sta proprio ad indicare l'essere-per-la-morte dell'esserci. La realta' dell'uomo sta nel saper scegliere la morte prima che la morte scelga l'uomo. La scelta e' per l'autenticita', in quanto se l'uomo non scegliesse, la morte lo coglierebbe di sorpresa. L'uomo non puo' rinunciare allo stato di colpa (angoscia) che e' in lui, puo' soltanto assumerselo consapevolmente. Il contenuto dell'essere e' quindi il nulla (la morte e' il nulla); il tempo stesso lo indica, poiche' nel tempo tutte le cose, anche quelle progettate, muoiono. La temporalita' puo' essere considerata il senso dell'essere dell'esserci. La storicita' dev'essere sostituita con la destinalita'. (Che il nulla sia il contenuto dell'essere, verra' detto esplicitamente in Che cos'e' la metafisica).

Essere e tempo si conclude con la IIa sez. della Ia parte; la IIIa sez. era intitolata "Tempo ed essere" e doveva essere quella piu' concreta e propositiva, ma non e' mai stata scritta. La IIa parte doveva riguardare l'analisi di Kant, Cartesio e Aristotele. Heidegger disse che l'opera rimase incompiuta per il venire meno del linguaggio, condizionato dalla metafisica tradizionale. La conclusione insomma di Essere e Tempo e' che proprio la metafisica impedisce una vera comprensione dell'essere.

Il problema linguistico

Il fallimento di Essere e tempo induce Heidegger ad approfondire il problema del linguaggio: il linguaggio infatti condiziona la possibilita' dell'esserci di fare esperienza del mondo e di elaborare i problemi. Nella conferenza sull'Essenza della verita' (1930) Heidegger dira' che se e' vero che e' l'uomo a parlare il linguaggio, e' anche vero che il patrimonio di parole di cui disponiamo (incluse le regole grammaticali, sintattiche, logiche) pongono dei limiti invalicabili a cio' che possiamo pensare e dire. Il linguaggio non possiamo modificarlo nella sostanza, ma solo nella forma.

In questo senso l'essere non e' ne' l'esserci, ne' il mondo, ma una "luce" (avvento illuminante-proteggente) in cui uomini e cose possono incontrarsi e capirsi. L'essere quindi fa apparire le cose, gli enti, la storia, ma senza rivelarsi, anzi nascondendosi. L'ontologia deve avere un atteggiamento apofatico nei confronti dell'essere, altrimenti lo fa coincidere, banalizzandolo, con le cose (essere come semplice-presenza). La dialettica tra ente ed essere va sostituita con la differenza ontologica.

La tradizionale metafisica ha obliato l'essere livellando tutto sul piano dell'oggettivita' misurabile e organizzabile (di qui il trionfo della tecnica). L'esponente piu' coerente di questa metafisica -secondo Heidegger- e' Nietzsche, che ha fatto dell'essere un valore posto dal soggetto per la propria espansione vitale. L'uomo ha prodotto un essere a sua immagine (in virtu' soprattutto della tecnica).

L'ontologia deve invece restare in ascolto dell'essere decodificando il linguaggio con cui esso si esprime (soprattutto nella poesia e nell'arte). Al limite l'esserci deve rimanere in silenzio lasciando che sia solo l'essere a parlare. La verita' e' rivelazione del nascondimento dell'essere. L'essere che noi conosciamo e' solo quello che permette d'essere conosciuto.

Riassunto

Dopo aver pubblicato, nel 1927, Essere e tempo (la sua opera principale), Heidegger si distacca da Husserl, di cui era assistente universitario, e fonda l'ontologismo esistenziale, cioe' il tentativo di trovare un senso all'essere (metafisico) a partire dall'esistenza dell'esserci (umano). (Husserl era un fenomenologo, ma i contrasti con Heidegger vertevano anche sull'antisemitismo di quest'ultimo).

Il tentativo, in Essere e tempo, fallira', poiche' Heidegger riuscira' a scrivere solo la prima parte, ove critica quasi tutta la metafisica occidentale, da Platone in poi, sostenendo ch'essa ha sempre parlato dell'essere senza tener conto dell'esserci. Di conseguenza l'essere e' diventato un concetto astratto o indefinibile oppure cosi' evidente da risultare ovvio, scontato, mentre in realta' esso e' molto problematico.

Heidegger sostiene che non si puo' rispondere al senso dell'essere se prima non si risponde al senso dell'esserci, la cui esistenza e' caratterizzata dalla temporalita', cioe' da qualcosa che impedisce di stabilire una qualunque oggettivita'. Tuttavia, Heidegger, al momento di spiegare qual e' il senso dell'esserci interrompe il libro, dicendo che il linguaggio era "venuto meno".

Nel '28 Heidegger diventa docente universitario. Nel '33 rettore dell'Universita' di Friburgo. Aderisce al partito nazista, pretendendo che il suo pensiero abbia una rilevanza pubblica. Heidegger fara' espellere dall'Universita' due docenti pacifisti e antinazionalisti. Egli d'altra parte era convinto che solo la Germania nazista potesse salvare i valori della tradizione europea dalla "barbarie" tecnocratica degli USA e dal bolscevismo dell'URSS. Senonche' l'anno dopo, per dissensi col governo (sul suo progetto di riforma universitaria, per il quale andavano perseguitati non solo gli ebrei ma anche gli ingegneri), si dimette e non si occupa piu' di politica. Tiene regolarmente i corsi accademici, ma non pubblica nulla fino al 1942. Heidegger rimarra' antisemita e nazista, in quanto molto netto sara' il suo dissenso da liberalismo, democrazia e socialismo, anche dopo la seconda guerra mondiale e non si pentira' mai dei comportamenti tenuti.

Nel '35, con Introduzione alla metafisica (pubblicata nel '53), si ha una svolta nel suo pensiero. La metafisica non va "riformata", come in Essere e tempo, ma "superata". L'essere non puo' essere definito, poiche' ogni definizione lo limita. L'essere in un certo senso coincide col nulla, poiche' non c'e' nulla che possa comprenderlo. Di fronte al nulla l'esserci non puo' che angosciarsi e attendere in maniera contemplativa che l'essere si sveli spontaneamente. La metafisica non ha davvero alcun senso. Gli interessi filosofici e culturali di Heidegger si spostano verso l'arte, l'estetica, la poetica e il linguaggio. Autori preferiti: Parmenide, Holderlin e Nietzsche. Di Parmenide dira' ch'era l'unico che meritava d'essere considerato sul piano ontologico, poiche', a partire da Platone, col tentativo di definire e oggettivare l'essere, tutta la storia della filosofia era caduta nella metafisica.

Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli impedisce qualunque attivita' accademica. Ma nel '52 viene reintegrato.



In Essere e tempo le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le seguenti:

A. L'uomo come progetto, come poter-essere, in quanto fa continuamente delle scelte. Primato della categoria della possibilita'. La realta' non e' mai oggettiva, perche' soggetta a continue modifiche. Le cose esistono solo per l'esserci che le usa (inserendole in un progetto). Prima del mondo c'e' l'esserci, che da' significato alle cose.

B. L'esistenza come progetto gettato. L'esserci e' costretto a scegliere, perche' viene "gettato" (consegnato) sul mondo senza volerlo. Il mondo condiziona radicalmente le sue scelte. Questo limite pero' garantisce la storicita' all'esserci, che e' chiuso tra la vita e la morte.

C. L'autenticita' dell'esserci. Se l'esserci dovesse pensare solo alla vita, ogni possibilita' scelta sarebbe equivalente a un'altra, perche' non esiste nella vita un criterio oggettivo che ci dice quando una scelta e' migliore di un'altra. L'unica scelta che rende autentico l'esserci, perche' esclude tutte le altre, e' quella per la morte. Scegliendo per la morte, la possibilita' resta possibilita', perche' la morte, quando diventa realta', fa sparire l'esserci. La morte relativizza le scelte particolari, destinate all'insuccesso, poiche' il nostro progetto resta sempre condizionato dal passato e dal presente.

D. L'essere per la morte. Di fronte alla morte l'esserci non deve fuggire, altrimenti la morte lo cogliera' di sorpresa, ma deve provare angoscia, nella convinzione che il senso della vita sta nella morte che vanifica ogni progetto particolare. Chi fugge cade nel mondo generico del "Si'" e si disperde nella cura delle cose, per cui si lascia dominare dalla chiacchiera (banalita'), dalla curiosita' (oziosa) e dall'equivoco (circa l'autenticita' delle cose).

E. Conclusione: la metafisica, pur avendo sempre avuto come oggetto l'essere, ne impedisce letteralmente la comprensione, perche' lo considera al di fuori dell'esserci. Non avendo accettato il presupposto che la temporalita' dell'esserci e' l'unica dimensione della sua vita, essa non e' mai arrivata a capire che l'essere coincide col nulla (Che cos'e' la metafisica?).

Il fallimento di Essere e tempo portera' Heidegger ad approfondire il tema del linguaggio (Essenza della verita'), nella speranza di poter chiarire meglio il significato (positivo) dell'essere. Tuttavia, Heidegger arrivera' solo ad affermare che l'essere e' "luce" (avvento illuminante-proteggente). L'ontologia deve restare in ascolto (apofatismo) dell'essere, che si rivela nascondendosi. L'essere che conosciamo e' solo quello che permette d'essere conosciuto. Poco prima di morire dira' che solo un "dio" avrebbe potuto salvarci dall'autodistruzione, in quanto ne' la filosofia ne' alcun'altra scienza potranno mai modificare il mondo.

Storia della critica

La vera storia della critica heideggeriana comincia solo negli anni '50, quando Essere e tempo non e' piu' l'unica opera cui potersi riferire, com'era successo negli anni '30, allorche' di quest'opera, soprattutto in Francia, con Sartre, Marcel, Lavelle, Le Senne, Wahl, Berdjaev..., si evidenziarono i temi esistenzialistici, mettendo in secondo piano quelli ontologici.

Nella Francia degli anni '30 lo studio dell'esistenzialismo di Heidegger rientrava nell'interesse che si era maturato per quello di Kierkegaard e di Jaspers. Essere e tempo veniva valorizzato in termini antropologici e persino religiosi. Quest'interpretazione riduttiva venne messa in crisi dallo stesso Heidegger, con la pubblicazione nel '47 della Lettera sull'umanismo, che e' un manifesto antiesistenzialistico.

Di Heidegger i francesi avevano colto soprattutto i temi dell'angoscia, della morte, del nulla, della cura e dell'appartenenza al mondo come totalita'. Forse l'unico francese che ne recupero' anche l'ontologismo fu Le'vinas. Il rifiuto di considerare l'ontologismo non dipese dalla scarsa propensione della filosofia francese per le astrazioni metafisiche, quanto dalla convinzione che negli aspetti esistenziali Essere e tempo offriva piu' materiale di riflessione, in quanto maggiore era il realismo che non nell'ontologia, che pareva destinata a fondarsi sul nulla e sull'impotenza.

Non solo, ma fu proprio l'interpretazione esistenzialistica di Heidegger ch'ebbe il pregio di mettere in crisi il neokantismo tedesco e il neoidealismo italiano. In Germania l'influsso piu' positivo dell'esistenzialismo di Heidegger e' riscontrabile nella teologia demitizzante di Bultmann.

In Italia Heidegger viene recepito negli anni '50 e '60 sull'onda delle traduzioni di P. Chiodi e della lettura esistenzialistica di N. Abbagnano. Il successo di Heidegger esistenzialista e' avvenuto proprio dopo il 1947, anno in cui Heidegger si distaccava dall'esistenzialismo. In Italia l'analitica esistenziale del finito e' stata utilizzata contro l'idealismo crociano e gentiliano, e per fondare un'autocoscienza filosofica di tipo laico (piu' moderata e conformista in Abbagnano, piu' radicale e antifascista in Chiodi). Il tentativo era quello di creare una sorta di "terza via" tra il neotomismo (e spiritualismo) del cattolicesimo di Pio XII da un lato e il marxismo gramsciano (e storicistico) di Togliatti dall'altro. Quando le traduzioni del secondo Heidegger, quello della svolta, fatte da Chiodi, resero insostenibile questa interpretazione, il pensiero esistenziale dell'autosufficienza dell'individuo laico gettato nel mondo, prese atto che Heidegger non serviva piu', e lo trasformo' in un irrazionalista tardoromantico, nemico della scienza e della tecnica. L'esistenzialismo italiano rimprovera' sempre ad Heidegger di aver ceduto troppo alla metafisica e di aver tenuto in scarsa considerazione l'assiologia e lo stesso esistenzialismo. L'ontologia addirittura appariva come una sorta di idealismo hegeliano rovesciato. Cioe', in quanto esistenzialista Heidegger appariva progressivo, poiche' rivendicava la finitezza (temporalita') dell'esserci (la sua concretezza storica, solo in virtu' della quale ha senso porsi il problema dell'essere), ma in quanto ontologista Heidegger appariva regressivo, perche' l'impianto costruttivo che avrebbe dovuto dare fondamento all'essere, restava metafisico, idealistico. Anche Lowith condividera' questa analisi. Per alcuni critici italiani, il carattere negativo e apofatico dell'ontologismo, approdando a una via senza sbocchi (irrazionalismo, nazismo, oppure mistica, mitologia), fara' desiderare un ritorno a Husserl.

Una rinascita di Heidegger e' avvenuta in Italia nella seconda meta' degli anni '70 ad opera di alcuni intellettuali vicini o interni al Pci: Cacciari, Vattimo, Boffa... Costoro hanno letto il secondo Heidegger in chiave nichilistica, post-moderna, antidialettica, differenzialistica, paragonandolo a Nietzsche. Il che rovesciava la lettura laico-razional-esistenziale di Chiodi e Abbagnano. In comune pero' c'era l'avversione a Hegel e al Marx economista. In verita', nei confronti di Heidegger il giudizio del marxismo, (cosi' come quello della Scuola di Francoforte) e' sempre stato pesantemente negativo: Luka'cs lo definiva un sintomo della crisi del soggettivismo borghese, Adorno invece una sorta di adeguamento alla societa' massificata, giudicata immodificabile. Non a caso l'uso piu' produttivo dell'ontologismo e' avvenuto in campo teologico-ermeneutico (Gadamer e' il principale continuatore di Heidegger), oppure in campo estetico-ermeneutico.

La problematica del Linguaggio e' stata ripresa da Wittgenstein che prevede pero' il silenzio solo sulle questioni metafisiche, come unico atteggiamento ragionevole, mentre l'unico linguaggio valido resta quello scientifico. Anche Derrida affermera' che nella metafisica razionalistica il significante, nell'ambito del segno, e' tutto subordinato all'idealita' astratta del significato.

Rilievi critici

Heidegger era partito bene quando intui' che il problema dell'essere e' in fondo il problema dell'esserci: in questo senso egli eredita la critica dell'idealismo condotta da parte della sinistra hegeliana e soprattutto di Kierkegaard. Si puo' dire anzi che Heidegger non abbia fatto altro che laicizzare l'esistenzialismo religioso di Kierkegaard, sostituendo al rapporto del singolo con dio il rapporto dell'esserci col mondo.

Tuttavia, l'identita' di essere ed esserci, se puo' essere usata contro la concezione di essere che aveva l'idealismo (in cui l'esserci finiva col perdere la propria identita' umana, vinta dalla conservazione dei rapporti esistenti, che erano borghesi o caratterizzati, come in Germania, dal blocco junkers-borghesia), non poteva pero' essere usata per rifondare una nuova concezione dell'essere, poiche' ne' la sinistra hegeliana ne' Kierkegaard hanno mai considerato equivalenti i due elementi, ma hanno preferito concedere a uno dei due, l'esserci, il primato assoluto, trasformando l'essere in una sua mera proiezione. Anche Heidegger riproduce il forte soggettivismo (piccolo)borghese della opposizione all'idealismo hegeliano, ma, come Kierkegaard, perde il senso oggettivo della realta', quel senso che gli avrebbe permesso di capire che le contraddizioni del capitalismo non possono essere superate in maniera individualistica e tanto meno in maniera filosofica.

L'identita' quindi di essere ed esserci dal punto di vista dell'esserci puo' essere utilizzata in un primo momento, per distaccarsi dall'essere astratto, formalizzato e conservatore dell'idealismo hegeliano, ma subito dopo va affermata una nuova identita', in cui vi sia tra i due elementi un rapporto dialettico, in grado di salvaguardare l'autonomia, la specificita' di entrambi. Non essendo riuscito a farlo, Heidegger si trova alla fine costretto ad ammettere che il suo esserci e' incapace di essere: non solo nel senso che non riesce a conformarsi allo sviluppo del capitalismo monopolistico, ma anche perche' non riesce ad opporsi a questo sviluppo. Egli affermo' che Essere e tempo rimase incompiuto per il venir meno del linguaggio; in realta' e' venuto meno l'esserci, il quale, non sentendosi determinato da un essere alternativo a quello borghese (idealista, hegeliano), non poteva avere un linguaggio adeguato alla problematica dell'essere. Tutto lo sviluppo posteriore a Essere e tempo non fa che girare attorno a questo problema senza mai risolverlo: ecco perche' Essere e tempo resta l'opera piu' significativa. Esso e' la testimonianza (piu' o meno indiretta) che nell'ambito della filosofia borghese una qualunque pretesa di autenticita' dell'esserci, che voglia restare in tale ambito, non puo' che portare all'irrazionalismo (teorico, come appunto in Heidegger, o pratico, come in Kierkegaard e soprattutto in Nietzsche, verso i quali Heidegger ha sempre avvertito una forte attrattiva, specie per il secondo, poiche' piu' coerente e ateistico). Da questo punto di vista Essere e Tempo e', a un tempo, il tentativo e il fallimento del tentativo di superare la crisi dell'identita' borghese dal punto di vista borghese. Esso quindi e' anche la testimonianza che dopo l'idealismo hegeliano, la filosofia borghese puo' essere solo una filosofia della crisi e che la crisi di questa filosofia e' appunto data dalla crisi della societa' borghese, che non e' riuscita a realizzare gli ideali di democrazia per i quali e' nata.

L'esserci di Heidegger non e' in grado di vivere per la vita (per la trasformazione della vita), ma solo per la morte. La vita e' troppo insignificante per essere vissuta. Nella vita tutte le cose si contraddicono a vicenda, sono soggette al fluire del tempo, si banalizzano. Solo la morte (la possibilita' della morte) resta veramente. L'esistenza dell'esserci consiste nel rassegnarsi a questa evidenza, per evitare possibili illusioni su di se' e sulla realta' che vive. La rassegnazione non deve essere superficiale, ma con angoscia, che e' l'atteggiamento filosofico di fronte al nulla della vita (o dell'essere). Essere e nulla coincidono dal punto di vista del nulla. Come si puo' vedere, il concetto di morte viene usato da Heidegger per impedire la vita, anche se nelle sue intenzioni doveva servire solo per impedire le illusioni sulla vita. In realta', le conseguenze del suo discorso sono disperate: "siccome c'e' la morte, nessuna esperienza liberante, se non quella dell'angoscia per la morte, e' possibile o merita d'essere vissuta". Questa posizione e' chiusa, intellettualistica, aristocratica, pregiudizievole nei confronti di ogni alternativa al sistema dominante. Heidegger e' qui un esistenzialista con ambizioni metafisiche (tipicamente tedesche, e quindi idealistiche). Il suo e' il modo di vedere l'esistenzialismo dal punto di vista di un tedesco idealista che non puo' piu' credere nella metafisica tradizionale, in quanto ne scorge le contraddizioni interne.

Il miglior Heidegger e' quello che sostiene che la stessa metafisica impedisce di scorgere la realta' dell'essere. Interessante anche il discorso dell'essere come "luce" e il discorso del silenzio come atteggiamento di ascolto nei confronti dell'essere, ma questo discorso puo' anche portare a una forma di irrazionalismo mistico.

HEIDEGGER CRITICO DI NIETZSCHE

Quando Heidegger diceva che Nietzsche era stato praticamente l'unico a capire che la modernita' non era nata in opposizione alla metafisica - come apparentemente sembrava - ma che la modernita' costituiva il necessario compimento della metafisica, poiche' in questa si trova il fondamento della modernita', e cioe' il predominio dell'ente sull'essere, diceva senza dubbio una cosa giusta. Tuttavia, al pari di Nietzsche, Heidegger non e' riuscito a vedere nel concetto di essere un soggetto collettivo.

Sia per Nietzsche che per Heidegger l'ente che ha distrutto la teologia o la metafisica e' sostanzialmente un soggetto individualistico, che si serve della scienza e della tecnica, e che puo' anche spingersi verso l'ateismo piu' radicale. Essi pero' non vedono un'alternativa di tipo collettivistico alla degenerazione dell'ente metafisico (a parte la parentesi infelice di Heidegger a favore del nazismo). La cultura occidentale non ha piu' memoria di esperienze collettive di vita e di lavoro, poiche' il capitalismo le ha quasi completamente distrutte. Quando si assiste a una socializzazione di questo ente individualistico borghese la conseguenza e' un'ulteriore esasperazione dell'individualismo (superomismo), il che porta, politicamente, al fascismo.

Qui tuttavia bisogna fare delle precisazioni. La metafisica e' stata senza dubbio uno strumento che ha aiutato gli uomini a emanciparsi dalla mitologia e dalla teologia, ma fino alla rivoluzione industriale la metafisica ha sempre conservato forti scrupoli di coscienza nei confronti della religione. Essendo espressione di una societa' classista basata sullo schiavismo, la metafisica non poteva, d'emble'e, annullare la religione.

Quando poi con la rivoluzione economica dell'Inghilterra e politica della Francia essa ha perso buona parte dei propri scrupoli (anche se non tutti, in quanto il classismo della societa' permaneva), il suo destino e' stato quello di trasformarsi, pur senza volerlo, in una sorta di religione laicizzata. E' stata questa la lezione di Feuerbach, allorche' per primo dimostro' che se anche a partire da Cartesio s'era fatto di tutto per emancipare la filosofia dalla teologia, in realta' l'idealismo tedesco, ch'era la punta filosofica piu' avanzata d'Europa, altro non era, in definitiva, che un cristianesimo secolarizzato.

Peraltro questa moderna metafisica, pur essendo assai diversa da quella greca, non ha mai conosciuto l'ateismo radicale, che e' piuttosto una prerogativa del materialismo naturalistico e storico-dialettico. Continuamente la moderna metafisica, a causa delle sue origini borghesi, e' costretta a tradire i presupposti ateistici che la motivano.

E' quindi giusto sostenere che la modernita' e' frutto della metafisica, ma a condizione di precisare che se l'ateismo della metafisica borghese (a partire da Cartesio) ha potuto portare alla rivoluzione industriale e al progresso tecnico-scientifico, questa modernita' non ha potuto portare alla fine della metafisica (e della sua ambiguita' strutturale).

Restando nell'ambito dell'individualismo Nietzsche ha operato un notevole tentativo di superamento dei limiti della metafisica (che Heidegger ha voluto registrare), ma il risultato finale e' stato l'irrazionalismo. Questo a testimonianza che quando si chiede alla democrazia (e quindi alla modernita' borghese) di essere coerente sino in fondo, la conseguenza, se non si supera l'individualismo, non e' il socialismo democratico ma il nichilismo.

Per impedire questa conclusione occorre che la metafisica arrivi a negare non tanto il primato dell'ente sull'essere, quanto quello dell'ente individualistico, che crea, in ultima istanza, un essere a propria immagine e somiglianza (pur non essendo questo essere assimilabile ai tradizionali concetti o rappresentazioni della teologia).

Occorre che la metafisica compia un salto di qualita', operato il quale essa non potra' piu' guardarsi con gli occhi di prima. Questo salto di qualita' e' la transizione dal primato del singolo al primato del collettivo, un collettivo che non puo' porsi in maniera conflittuale con l'essere, poiche' la distruzione dell'essere implica inevitabilmente quella dell'ente.

Se l'ente non e' piu' in grado di capire quale sia l'essere con cui rapportarsi, deve tacere e mettersi in una posizione d'ascolto. Forse, dal confronto con culture non occidentali, non antagonistiche, non capitalistiche, non borghesi, emergera' una nuova vivibilita' dell'essere.

Fonti

Heidegger Martin, Introduzione all'estetica. Le "Lettere sull'educazione estetica dell'uomo" di Schiller, 2008, Carocci; Logica e linguaggio, 2008, Marinotti; Avviamento alla filosofia, 2007, Marinotti; Colloqui su un sentiero di campagna (1944-45), 2007, Il Nuovo Melangolo; Contributi alla filosofia (Dall'evento), 2007, Adelphi; In cammino verso il linguaggio, 2007, Mursia (Gruppo Editoriale); Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, 2007, Einaudi; Saggi e discorsi, 2007, Mursia (Gruppo Editoriale); Tempo e essere, 2007, Longanesi; Essere e tempo. Testo tedesco a fronte, 2006, Mondadori; Kant e il problema della metafisica, 2006, Laterza; Metafisica e nichilismo, 2006, Il Nuovo Melangolo; Sul principio. Ediz. integrale, 2006, Bompiani; Che cos'e' la filosofia, 2005, Il Nuovo Melangolo; Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976, 2005, Il Nuovo Melangolo; Essere e tempo, 2005, Longanesi; Gli inni di Holderling "Germania" e "Il Reno". Testo tedesco a fronte. Ediz. integrale, 2005, Bompiani; Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Elaborazione per le facolta' filosofiche di Marburgo e di Gottinga (1922), 2005, Guida; L'abbandono, 2004, Il Nuovo Melangolo; Corpo e spazio. Osservazioni su arte - scultura - spazio. Testo tedesco a fronte, 2004, Il Nuovo; La svolta. Testo tedesco a fronte, 2004, Il Nuovo Melangolo Melangolo; L'arte e lo spazio. Testo tedesco a fronte, 2003, Il Nuovo Melangolo; Domande fondamentali della filosofia. Selezione di problemi della logica, 2003, Mursia (Gruppo Editoriale); Fenomenologia della vita religiosa, 2003, Adelphi; Il nichilismo europeo, 2003, Adelphi; Conferenze di Brema e Friburgo, 2002, Adelphi; Holzwege. Sentieri erranti nella selva, 2002, Bompiani; Interpretazione fenomenologica della "Critica della ragion pura" di Kant, 2002, Mursia (Gruppo Editoriale); Per la determinazione della filosofia, 2002, Guida; Il sentiero di campagna, 2002, Il Nuovo Melangolo; L'autoaffermazione dell'universita' tedesca. Il rettorato 1933-34, 2001, Il Nuovo Melangolo; Che cos'e' la metafisica?, 2001, Adelphi; Il lavoro di ricerca di Wilhelm Dilthey e l'attuale lotta per una visione storica del mondo. 10 Conferenze (Kassel, 16-21 aprile 1925), 2001, Guida; I concetti fondamentali della filosofia antica, 2000, Adelphi; Il concetto di tempo nella scienza della storia, 2000, Mucchi; La fenomenologia dello spirito di Hegel, 2000, Guida; L'origine dell'opera d'arte. Testo tedesco a fronte, 2000, Marinotti; Seminari di Zollikon, 2000, Guida; L'Europa e la filosofia, 1999, Marsilio; Fenomenologia, 1999, Unicopli; Parmenide, 1999, Adelphi; Sull'essenza della verita', 1999, Armando Editore; Che cos'e' la metafisica?, 1998, Pironti; Il concetto di tempo, 1998, Adelphi; Principi metafisici della logica, 1998, Il Nuovo Melangolo; I problemi fondamentali della fenomenologia, 1998, Il Nuovo Melangolo; Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, 1998, Il Nuovo Melangolo; Schelling. Il trattato del 1809 sull'essenza della liberta' umana, 1998, Guida; L'essenza della verita'. Sul mito della caverna e sul "Teeteto" di Platone, 1997, Adelphi; Ethos e poiesis. Vol. 1: Etica e destino, 1997, Il Nuovo Melangolo; L'inno Andenken di Holderlin, 1997, Mursia (Gruppo Editoriale); Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, 1997, ETS; Che cosa significa pensare, 1996, SugarCo; Lettera sull'"Umanismo", 1995, Adelphi; Nietzsche, 1994, Adelphi; Eraclito. L'inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del logos, 1993, Mursia (Gruppo Editoriale); Aristotele: Metafisica (1-3), 1992, Mursia (Gruppo Editoriale); Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, 1992, Il Nuovo Melangolo; Seminari, 1992, Adelphi; Carteggio (1919-1969), 1991, Il Nuovo Melangolo; Il principio di ragione, 1991, Adelphi; Disputa sull'eredita' kantiana. Due documenti (1928 e 1931), 1990, Unicopli; Saggi e discorsi, 1990, Mursia (Gruppo Editoriale)
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La questione del linguaggio (pdf-zip)
Heidegger e Husserl (pdf-zip)
Osservazioni sul problema dell'enunciato in Sein und Zeit (pdf-zip)
Della distanza (emergenza, provenienza, vicinanza) (pdf-zip)
La logica come domanda verso l'essenza del linguaggio: etica e linguaggio in M. Heidegger (pdf-zip)
Il Nietzsche di Heidegger (pdf-zip)
"PAURA" E "ANGOSCIA" NEL PENSIERO DI MARTIN HEIDEGGER: DALL'ANALITICA ESISTENZIALE AL PENSIERO DELLA "SVOLTA" (pdf-zip)
Epistemologia e ontologia: Quine avrebbe potuto risolvere i problemi di Heidegger? Heidegger avrebbe risolto i problemi di Quine? (pdf-zip)
Il pensiero dell'essere come "etica originaria" in Martin Heidegger (pdf-zip)
L'eredita' di Martin HEIDEGGER. Il problema della verita' (pdf-zip)
Contro Heidegger (pdf-zip)
Siti

Libro bianco su "Heidegger e il nazismo"
it.wikipedia.org/wiki/Martin_Heidegger
www.filosofico.net/heidegger.htm
www.treccani.it/enciclopedia/martin-heidegger/
www.filosofia.it/argomenti/e-faye-heidegger-e-il-nazismo-in-filosofia
www.asia.it/adon.pl?act=doc&doc=1168


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Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 02:46:18 PM


IL SECOLARISMO DI HABERMAS







Dario Lodi

Centrale nel pensiero di Ju'rgen Habermas (1929), per chi scrive, e' il volume La crisi della razionalita' nel capitalismo maturo, pubblicato nel 1973. Habermas ha scritto e scrive molto sulla necessita' di applicare la ragione sostanziale in luogo di quella strumentale. Quest'ultima e' sollecitata dalla ricerca del profitto del singolo, ed e' una sollecitazione risalente, in modo particolarmente incisivo, alla rivoluzione industriale di meta' Settecento. Ma la rivoluzione industriale non sorti' dal nulla, bensi' da un lento processo iniziato nel Medioevo, evolutosi nel corso dell'Umanesimo e del Rinascimento, emancipatosi con la nascita della scienza moderna. L'emancipazione si riferisce all'allontanamento dai riferimenti classici, papa e imperatore.

Habermas pensa a una societa' di pari, nel senso che ognuno puo' e deve pesare sull'andamento della vita sociale. Non e' dignitosa -- ed e' controproducente -- la presenza di soli esecutori e quindi non e' tollerabile un sistema capitalista. La questione agitata dal filosofo tedesco, aderente, in parte, alla gloriosa, anche se con qualche farragine, Scuola di Francoforte, non puo' essere affrontata con i mezzi tradizionali. I suoi saggi sono caratterizzati da una vena idealista che esclude la realta', poco generosa nel riconoscimento del valore espressivo generale. Questo valore non e' spendibile materialmente, ma lo e' idealmente. Puntando a una societa' migliore, Habermas adotta l'idealismo. Non potrebbe fare altrimenti, dato il suo scopo di dimostrare la convenienza di una societa' aperta.



Questa convenienza non ha nulla di materialistico, non l'ha in partenza. Habermas da' per scontato che lo stesso materialismo trarrebbe vantaggi dalla coltivazione della societa' aperta. Il materialismo migliore, piu' ordinato, sarebbe una conseguenza della socialita' fatta di opinioni individuali convergenti verso il benessere dell'umanita', non del singolo. In altre parole, il singolo avrebbe liberta' di raggiungere il proprio benessere, ma tenendo conto delle opzioni che le idee della comunita' mettono in campo. Non e' detto che piu' idee diano risultati migliori di una folgorazione personale, ma e' sicuro (provato da certa storia) che le argomentazioni, ovvero lo sviluppo intellettuale dell'idea, diano suggestioni piu' consistenti della folgorazione di turno. Il problema sta nel trovare il modo di fermarsi e di riflettere seriamente su tutto cio'. Habermas non dice affatto che la sua ricetta sia risolutiva, anzi il filosofo ha piu' dubbi di certezze, nel segno del progresso indefinito.

Il convincimento e' sulla carta, ma e' gia' qualcosa. Anzi e' qualcosa di importante. Sa di progresso civile e culturale. Habermas va contro il secolarismo, intendendo il termine nella sua accezione classica di "potere del sistema". Riguarda ogni autorita' confessionale, ogni istituzione dall'alto. In teoria e' un potere non ecclesiastico, nella realta' si riferisce anche alla chiesa in quanto potere relativo come gli altri sin dal Medioevo. Il secolarismo moderno e' il potere laico che, secondo Habermas, ripete gli errori della chiesa. Il verticalismo del suo sistema e' evidente. Nel Medioevo tutto veniva dalla religione (nell'immaginario comune), nel XXI secolo tutto viene dal capitale. E'un capitale manovrato in modo discreto ed esclusivo, non c'e' spazio meritocratico assoluto.

La questione democratica non e' cosa di poco conto. Parlare in termini potenzialmente egualitari di strategie operative non e' comunismo sentimentale. Marx, per quanto burbero, era animato da sentimenti piu' che da obiettivita'. Habermas prescinde da Marx quando parla di uguaglianza in quanto pensa a una societa' intellettualizzata, non a una societa' vittima di sentimenti. Gli uomini del nostro filosofo devono sapersi mettere in dubbio e cavare soluzioni da dure prove speculative. L'intelletto di Habermas non e' qualcosa di accademico o di esoterico, e' buonsenso che si espande, che si specializza, che assume responsabilita' dirette, consapevolizzate. La consapevolezza dell'affermazione e' la chiave del suo sistema.

Nel fondo del pensiero di Habermas si agita la visione di un nuovo umanesimo sganciato da ogni arcaismo, lontano persino da archetipi. La razionalita' vi trova un approdo sicuro, ma come fenomeno di partenza, non di arrivo come nei sistemi chiusi tipici della filosofia classica e soprattutto delle architetture religiose. Neppure la scienza e' convincente per Habermas, in quanto contro-faccia della credenza irrazionale. La fiducia nella razionalita', per il filosofo tedesco, non e' assoluta come e' assoluta quella nella religione, il cui istituto permane, in vari modi, nella coscienza personale e generale. La spiritualita' e' una cosa vaga, la chiesa non lo e' affatto. Nel mondo laico e' caduto il mito regale, e' sorta la democrazia, mentre in quello religioso la dittatura permane.



Habermas propone la liberta'. Nessuno deve sottostare a regole basate sulla prevaricazione di un gruppo. La religione istituzionalizzata e' l'esempio lampante di una prevaricazione che mette all'angolo le coscienze, che evita la loro emancipazione. Ma anche la democrazia moderna non e' esente da peccati perche' viene chiamata democrazia cio' che e' oligarchia. Poteri immobili, regali e papali, si sono trasformati in poteri semi-mobili condizionati dal profitto individuale. Questo condizionamento appartiene all'evoluzione del potere primitivo determinato dalla forza, e s'intende forza bruta, man mano adeguatasi ai cambiamenti storici.

Individuando la falsa democrazia moderna, il nostro filosofo sviluppa tesi che abbracciano l'intera figura umana, tuttora soggetta all'istinto. Nominalmente noi oggi siamo esseri razionali, praticamente usiamo poca ragione: non siamo ancora pronti a intravvedere un vantaggio nel comportamento A perche' vediamo vantaggi storicizzati in quello B. Ecco dove interviene sostanzialmente Habermas: egli evidenzia l'indecorosita' del comportamento abituale (quello B naturalmente) per promuovere un comportamento nuovo, piu' adatto alla personalita' dell'uomo, meglio rispondente alle sue risorse intellettuali. Con tutto questo siamo di fronte ad una rivoluzione che travolge la secolarita' tradizionale, quella dei poteri mitizzati, e ne presenta una nuova di zecca come strada da perseguire. Habermas sa benissimo che oggettivamente si tratta di un'utopia, ma sa anche che razionalmente quest'ultima puo' divenire eutopia e quindi traguardo da raggiungere a prezzo di dubbi e d'impegno al calor bianco, instancabile.

Dello stesso autore:

Scrittori del '900 (e dintorni)
Poesie innate, 2013, Abelbooks
L'amore degli amori, 2013, Abelbooks
Avventure sventurate, 2013 Abelbooks
Fatti e misfatti, 2011, Prospettiva Editrice
La rivoluzione cristiana, 2010 Prospettiva Editrice
Dentro la storia, 2010, Mjm Editore
Variazioni sul tema, 2009 Prospettiva Editrice
Magazzino 51 (ebook), Note a margine, Notte senza fine, Poesie per un attimo (Novantuno Virgole su un Punto)
Dentro la pittura, ed. Abel (ebook)
Il problema dell'equilibrio, ed. Abel (ebook)
Testi di Ju'rgen Habermas

Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia
Habermas Ju'rgen, 2015, Laterza
Nella spirale tecnocratica. Un'arringa per la solidarieta' europea
Habermas Ju'rgen, 2014, Laterza
L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica
Habermas Ju'rgen, 2013, Feltrinelli
Eppure non sono un pessimista
Habermas Ju'rgen; Filippini Enrico, 2013, Castelvecchi
Le religioni e la politica. Espressioni di fede e decisioni pubbliche
Habermas Ju'rgen; Mendieta Eduardo, 2013, EDB
Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia
Habermas Ju'rgen, 2013, Laterza
Solidarieta' fra estranei. Interventi su "Fatti e norme"
Habermas Ju'rgen, 1997, Guerini e Associati
Questa Europa e' in crisi
Habermas Ju'rgen, 2012, Laterza
Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa
Habermas Ju'rgen, 2011, Laterza
Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale
Habermas Ju'rgen, 2010, Einaudi
Dall'impressione sensibile all'espressione simbolica. Saggi filosofici
Habermas Ju'rgen, 2009, Laterza
Etica del discorso
Habermas Ju'rgen, 2009, Laterza
Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento
Habermas Ju'rgen; Taylor Charles, 2008, Feltrinelli
La condizione intersoggettiva
Habermas Ju'rgen, 2007, Laterza
Morale, diritto, politica
Habermas Ju'rgen, 2007, Einaudi
L'Occidente diviso
Habermas Ju'rgen, 2007, Laterza
Il pensiero post-metafisico
Habermas Ju'rgen, 2006, Laterza
Storia e critica dell'opinione pubblica
Habermas Ju'rgen, 2006, Laterza
Ragione e fede in dialogo
Habermas Ju'rgen; Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), 2005, Marsilio
Etica, religione e stato liberale
Benedetto XVI (Joseph Ratzinger); Habermas Ju'rgen, 2005, Morcelliana
Il discorso filosofico della modernita'
Habermas Ju'rgen, 2003, Laterza
Verita' e giustificazione
Habermas Ju'rgen, 2001, Laterza
Profili politico-filosofici. Heidegger, Gehlen, Jaspers, Bloch, Adorno, Lowith, Arendt, Benjamin, Scholem, Gadamer, Horkheimer, Marcuse
Habermas Ju'rgen, 2000, Guerini e Associati
Teoria della morale
Habermas Ju'rgen, 1994, Laterza
Ermeneutica e critica dell'ideologia
Apel Karl O.; Gadamer Hans G.; Habermas Ju'rgen, 1992, Queriniana
Conoscenza e interesse
Habermas Ju'rgen, 1990, Laterza
L'eredita' di Hegel
Gadamer Hans G.; Habermas Ju'rgen, 1988, Liguori
Tempo di passaggi
Habermas Ju'rgen, 2004, Feltrinelli
Tra scienza e fede
Habermas Ju'rgen, 2008, Laterza
La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia
Habermas Ju'rgen, 2002, Feltrinelli
La nuova oscurita'. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie
Habermas Ju'rgen, 1998, Edizioni Lavoro
Teoria dell'agire comunicativo. Vol. 1 - Teoria dell'agire comunicativo. Vol. 2
Habermas Ju'rgen, 1997, Il Mulino
Testi filosofici e contesti storici
Habermas Ju'rgen, 1993, Laterza


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Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 02:33:48 PM


HANS GEORG GADAMER






L'esperienza di verita' si da' solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione.



Gadamer

Vita e opere
Hans Georg Gadamer (1900-2002), allievo di Heidegger a Marburgo, ha sviluppato alcuni aspetti del suo pensiero elaborando un'ermeneutica filosofica.

Tradizionalmente, con ermeneutica (dal greco hermeneus , che vuol dire colui che fa da interprete e media fra chi enuncia un messaggio e chi lo riceve) s'intende la tecnica dell'interpretazione, elaborata e impiegata in discipline come la teologia, la filologia classica e la giurisprudenza, allo scopo di comprendere il significato di testi sacri o profani o delle leggi. Nell'Ottocento l'ermeneutica si era posta l'obiettivo di capire un autore meglio di quanto si fosse egli stesso compreso (caso tipico era stato quello di Schleiermacher con Platone). Per far questo si riteneva necessario riprodurre il passato in modo da riviverlo. La comprensione di un testo era vista come condizionata da un circolo fra la totalita' del testo e le sue singole parti: il senso del tutto e' ricostruibile a partire da quello delle parti, ma quest'ultimo, a sua volta, presuppone che sia conferito un significato preliminare al tutto. In queste prospettive il problema dell'interpretazione era concepito come proprio delle cosiddette scienze dello spirito, in primis della storiografia.

In Essere e tempo Heidegger aveva, invece, mostrato che la comprensione e' costitutiva della struttura dell'esistenza: l'esserci ha la prerogativa di comprendere se stesso e l'interpretazione e' l'articolazione di questa comprensione, consistente nell'appropriarsi di quel che si e' compreso. In tal modo, l'interpretazione cessava di essere soltanto un problema metodico e gnoseologico delle cosiddette scienze dello spirito, ma si trasformava in un piu' generale problema ontologico. Anche nella prospettiva di Heidegger essa appariva caratterizzata da un circolo: la comprensione, infatti, e' sempre condizionata da una pre-comprensione, che si e' venuta costruendo storicamente e nella quale l'esserci che comprende si trova situato, ma a sua volta la pre-comprensione e' anche sempre messa in gioco e modificata attraverso la comprensione.

Questo e' il punto di partenza, che determina l'obiettivo dell'ermeneutica filosofica di Gadamer: mettere in chiaro le strutture della comprensione e dell'interpretazione come strutture proprie dell'esistenza storica dell'uomo.

Nato l'11 febbraio 1900 a Marburgo, Gadamer, la cui vita ricopre tutto il Novecento, ha studiato nell'universita' della citta' natale, dove nel 1922 ha conseguito il dottorato in filosofia con Natorp e nel 1929 la libera docenza con Heidegger. A Marburgo egli ha studiato anche filologia classica, soprattutto con Paul Friedlander, che avrebbe poi scritto un ampio studio su Platone, e inoltre ha seguito le lezioni di storia delle religioni e di teologia tenute rispettivamente da Walter Otto e Rudolf Bultmann.

Gadamer ha viaggiato molto anche per l'Italia (era cittadino onorario di Napoli, citta' di cui era innamorato); egli rievoca il suo primo impatto con Napoli scrivendo: "in uno dei quartieri popolari dove arrivai bighellonando vidi la seguente scena: da una stanza all'ultimo piano di un palazzo, si apri' una finestra e una vecchia signora calo' una lunga fune con un cesto dal quale alcuni bambini che giocavano presero dei pupazzi ritagliati dalla carta colorata, con una gioia che mi commosse fino alle lacrime. Imparai che la poverta' non esclude la gioia".

Convinto che "l'intesa tra gli uomini avviene sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua" e che "l'esperienza di verita' si da' solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione", Gadamer intitolo' il suo primo scritto l'Etica dialettica di Platone. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo (1931).

Dopo un periodo di insegnamento a Marburgo, Gadamer passa all'universita' di Lipsia, dove, con l'approvazione dell'autorita' sovietiche di occupazione, e' nominato rettore nel 1946-47. Successivamente passa a insegnare e Francoforte e poi, nel 1949, a Heidelberg, sulla cattedra tenuta da Jaspers; dal 1953 e' direttore della "Philosophische Rundschau" e nel 1960 pubblica la sua opera piu' importante, Verita' e metodo. Lineamenti di un'ermeneutica filosofica. Altri scritti, che illustrano e approfondiscono i temi della sua opera maggiore sono: Il problema della coscienza storica (1963, in francese); La ragione nell'eta' della scienza (1976); L'idea del bene in Platone e Aristotele (1978). A partire dal 1985 e' in corso di pubblicazione l'edizione completa delle sue opere.

A conferma del fatto che Gadamer fosse un ottimista, si puo' ricordare quanto egli affermo' in un'intervista: "lei dice che sono troppo ottimista. Ma l'ottimismo non e' una pecca. E neppure una virtu'. E' un bisogno connaturato alla natura dell'uomo. Il pessimismo, invece, quello si' che e' un lusso. Soltanto due 'borghesi' come Schopenhauer e Leopardi se lo potevano permettere...".

ESTETICA ED ERMENEUTICA

Intento di Gadamer non e' di costruire un metodo, concepito come insieme di regole da applicare nel dominio delle scienze dello spirito, ma di portare alla luce l'esperienza di verita' che avviene nella comprensione e nell'interpretazione, "di la' dal nostro volere e dal nostro fare". Riprendendo Heidegger, Gadamer ritiene che il comprendere non sia uno dei possibili atteggiamenti del soggetto, limitato soltanto ad ambiti particolari della sua esperienza: esso invece caratterizza "il modo di essere dell'esistente stesso come tale". L'ermeneutica, dunque, non e' una semplice tecnica interpretativa, ma il "movimento fondamentale dell'esistenza", nella sua finitezza e nella sua storicita', il quale abbraccia l'intero campo dell'esperienza umana del mondo. Per questo aspetto si puo' dunque parlare di universalita' dell'ermeneutica.

Essendo costitutivo dell'esistenza stessa, il comprendere non e' mai atteggiamento meramente teoretico, coma gia' aveva mostrato Heidegger, e dunque non si realizza sulla base di una distinzione tra soggetto che comprende e oggetto che viene compreso. Contro queste forme di oggettivismo, che sono alla base dell'impostazione tipica delle scienze umane, non soltanto di quelle naturali, Gadamer intende sottolineare che ci sono ambiti in cui accadono esperienza di verita', le quali si collocano fuori dai metodi propri delle varie scienze: se ci si attiene esclusivamente a questi metodi, tali esperienze non sarebbero possibili. Per esperienza si deve pertanto intendere non un rispecchiamento oggettivo e distaccato dell'oggetto, ma un essere toccati e modificati.

Nella sua opera maggiore Gadamer studia tre ambiti nei quali avviene un'esperienza di verita' di questo tipo: l'arte, la storia, il linguaggio.

L'esperienza dell'arte e' abitualmente dominata, soprattutto a partire da Kant, da quella che Gadamer chiama differenza estetica. Si tratta di un'operazione di astrazione, con la quale si prescinde da tutto quel che radica un'opera d'arte nel suo contesto vitale originario e, quindi, da tutte le funzioni religiose o profane che essa vi assolveva e dalle quali traeva il suo significato, per rendere visibile l'opera come pura opera d'arte, nella sua autonoma sussistenza. Un'espressione concreta di questa operazione e' data dal museo, in cui l'opera d'arte e' per definizione strappata al suo mondo originario di appartenenza, per appartenere soltanto alla coscienza estetica. In tal modo l'opera d'arte e' colta esteticamente come qualcosa di semplicemente presente, oggetto di un puro vedere o di un puro udire, ma questo non costituisce per Gadamer la vera e propria esperienza estetica. Questa e' data, invece, dall'incontro con l'opera d'arte e con il mondo contenuto in essa, che non ci resta estraneo: nel rapporto con l'opera d'arte, infatti, si impara anche a comprendere se stessi. L'esperienza estetica e', dunque, un modo dell'autocomprensione. Questo e' possibile in quanto l'arte e' conoscenza, secondo Gadamer, e l'esperienza dell'opera d'arte fa partecipi della conoscenza. Per cogliere questo punto, bisogna dunque fare riferimento a un concetto di esperienza piu' ampio dei concetti di conoscenza e di realta', propri delle scienza della natura.

L'esperienza dell'opera d'arte, infatti, instaura un rapporto non con un oggetto semplicemente presente, ma con un evento che non e' concluso e di cui si entra a far parte. Per chiarire che cosa sia questo evento, Gadamer parte dal concetto di gioco, ma spogliato da ogni arbitrarieta' e soggettivita'. Il gioco, infatti, ha un'essenza propria, indipendente dalla coscienza dei giocatori, che lo avvertono come una realta' che li trascende: esso si produce attraverso i giocatori, che partecipano del gioco, sicche' ogni giocare e' al tempo stesso un esser-giocato. Anche l'opera d'arte, secondo Gadamer, e' gioco e, quindi, un evento che non e' separabile dalla sua rappresentazione: il modo di essere dell'opera d'arte e' gioco che si compie solo temporalmente con la fruizione e comprensione degli spettatori.

Il problema e' come sia possibile l'identita' dell'opera d'arte, che si presenta diversa nel cambiare dei tempi a quelli che, di volta in volta, cercano di comprenderla. Per illustrare questo punto, Gadamer ricorre ad un'altra analogia, con la festa: anche la festa e' sempre identica, ma al tempo stesso esiste soltanto in quanto e' celebrata ogni volta nel mutare delle circostanze storiche. In ciascuna di queste circostanze si tratta di mediare quel che e' identico con il presente, che e' sempre storicamente mutevole. Alla festa si assiste in quanto si partecipa: essa ha il carattere delle contemporaneita'. Kierkegaard aveva dimostrato che nell'esperienza religiosa la contemporaneita' e' il compito che la coscienza deve realizzare, mediando il proprio presente con l'azione salvifica di Cristo, in modo che questa non rimanga un fatto storicamente remoto: si tratta dunque di partecipare nel presente all'evento della salvezza. Cosi' e' anche, secondo Gadamer, per l'esperienza dell'arte: fare in modo che l'opera d'arte non sia un fatto meramente passato, ma sia mediata con il presente, tornando di volta in volta a rivivere.

STORIA E TRADIZIONE

Tali considerazioni valgono anche per l'esperienza di verita' che ha luogo nella storia: anche in questo caso compito dell'ermeneutica e' la mediazione del passato con il presente. L'ermeneutica di Schleiermacher riponeva questa mediazione in una ricostruzione della fisionomia originaria del passato, in base al presupposto che il vero significato di esso puo' essere compreso soltanto in riferimento al suo modo originario.
A questa impostazione Gadamer muove l'obiezione, gia' avanzata da Hegel, che il passato restaurato non e' piu' quello originario e bisogna, invece, percorrere la via dell'integrazione del passato nella vita del presente. L'ermeneutica tradizionale era condizionata dal miraggio dell'oggettivita' e, quindi, non riconosceva pienamente il carattere storico del comprendere, che si costituisce, come aveva mostrato Heidegger, a partire da una pre-comprensione che anticipa il senso di quel che dev'essere interpretato. L'interpretazione consiste allora nel mettere alla prova la legittimita' della propria pre-comprensione nel rapporto che di volta in volta si istituisce con il passato, rendendosi disponibili a lasciarsi dire qualcosa da esso e mettendosi, quindi, in ascolto di esso.

In questo consiste il cosiddetto circolo ermeneutico, che include, dunque, come costitutivo e dotato di funzione positiva, il pre-giudizio. Era stato l'Illuminismo a svalutare i pregiudizi, considerati frutto di precipitosita' o abdicazione all'autorita', ma anche l'Illuminismo, secondo Gadamer, aveva finito per soccombere al pregiudizio contro i pregiudizi e, in generale, contro la tradizione.

Di per se', invece, il termine pregiudizio significa solo un giudizio pronunciato prima di aver effettuato un esame completo e definitivo di tutti gli elementi rilevanti, ma questo non significa che necessariamente questo giudizio sia falso o infondato. In quanto essere finiti, gli uomini sono sempre inseriti in un orizzonte di pregiudizi e, quindi, entro una tradizione. Ma pregiudizi e tradizioni non sono sempre entita' negative, delle quali sia possibile e necessario liberarsi totalmente: essi possono, invece, rappresentare possibilita' positive.

L'ideale di una ragione assoluta non rientra tra le possibilita' degli uomini, i quali sono sempre legati a un momento storico, cosicche' la ragione non e' mai totalmente padrona di se', ma sempre subordinata a situazioni entro la quali agisce. L'Illuminismo aveva escluso che l'autorita' potesse anche essere fonte di verita', ma l'autorita', secondo Gadamer, si fonda su un riconoscimento e, quindi, richiede un'azione della ragione stessa, la quale non si sottomette ad essa ciecamente, ma, "consapevole dei suoi limiti, concede fiducia al miglior giudizio di altri".

La rivalutazione del pregiudizio e della tradizione spiegano perche' Gadamer non proceda a quella distruzione e superamento della metafisica, progettati da Heidegger, e ritenga invece di poter instaurare un proficuo legame di continuita' con le filosofie di Platone e Aristotele, alle quali ha dedicato numerosi saggi. In questo senso la posizione di Gadamer verso la tradizione filosofica e' meno radicale di quella heideggeriana e anzi si e' potuto dire che Gadamer ha "urbanizzato la provincia heideggeriana" (Habermas).

Il rapporto col passato, per Gadamer, non e' definito in primo luogo dall'esigenza di staccarsi e liberarsi da esso: noi siamo costantemente dentro tradizioni e anche le rivoluzioni conservano molto del passato. Il che non significa che si debba ripetere l'errore inverso, compiuto dai Romantici, i quali, nel difendere la tradizione, la concepirono come un dato oggettivo e immodificabile, alla pari delle entita' naturali. Si tratta, invece, di vedere il passato come qualcosa di vivo, che continua ancora a parlare e interpellare, cosicche' comprendere il passato significa inserirsi nel vivo del processo storico, che lo trasmette sino a noi. Questa trasmissione e' caratterizzata dal fatto che, in ciascun momento di essa, passato e presente continuamente si sintetizzano. L'interpretazione emerge, infatti, dall'incontro di due movimenti, quello della trasmissione storica e quello dell'interprete, anch'esso mobile nella sua storicita'. La distanza temporale fra il resto del passato e l'interprete non e' un ostacolo che deve essere superato; anzi essa e' la condizione di possibilita' dell'esperienza della verita' nell'incontro col passato. Questa distanza non e' qualcosa di statico, ma e' in movimento, porta all'eliminazione di alcuni pregiudizi e fa emergere quelli che aiutano una vera comprensione. Nell'incontro con l'altro, che dal passato avanza una pretesa di verita', noi, prendendo sul serio questa pretesa, poniamo in questione i nostri pregiudizi. Questo incontro non avviene fuori dal tempo, ma si colloca in quella che Gadamer chiama Wirkungsgeschichte, "storia degli effetti" , la quale non e' solo la storia della fortuna di un testo nei secoli, ma la catena delle interpretazioni passate, le quali condizionano e mediano la pre-comprensione che l'interprete ha dell'oggetto da interpretare, senza che egli se ne renda sempre conto. Noi siamo gia' sempre sottoposti agli effetti di questa storia, che decide anticipatamente di quel che si presenta a noi come problematica e come oggetto di ricerca.

L'inserimento nel vivo di questa trasmissione storica e' chiamato da Gadamer fusione di orizzonti. Essa emerge dall'incontro tra due orizzonti storici, quello del testo da interpretare e quello dell'interprete: quando questo avviene, l'interpretazione si configura come un intendersi sulla verita' della cosa detta nel testo e non nel solo capire le intenzioni dell'autore. A sua volta, questa nuova interpretazione viene ad inserirsi come un ulteriore anello nella catena della Wirkungsgeschichte: il comprendere e', dunque, un processo mai concluso e definitivo, perche' nel corso storico si possono aprire, nel rapporto con ogni nuovo interprete, sempre nuove possibilita' di senso di quel che e' tramandato nei testi del passato.

Problema generale di ogni ermeneutica e', secondo Gadamer, l'applicazione, consistente nel porsi al servizio del testo sacro o profano e delle leggi, per applicare al caso particolare cio' che di universale essi contengono. Il modello di questa procedura e' ravvisato da Gadamer nella fronhsiV descritta da Aristotele nell'Etica Nicomachea: essa, infatti, non e' scienza, ma saggezza pratica legata alle situazioni particolari. L'applicazione non e' un momento successivo alla comprensione, in quanto nella comprensione avviene anche sempre un'applicazione del testo da interpretare alla situazione particolare dell'interprete. Il modello e' dato dalla struttura dialogica della domanda e della risposta, elaborata da Platone. Per comprendere questo punto bisogna tener presente il fatto che la tradizione, per Gadamer, non e' semplicemente un insieme di oggetti o fatti del passato da conoscere o padroneggiare: la tradizione e', in primis, un linguaggio che si rivolge a noi come l'interlocutore in un dialogo e con la quale, pertanto, si puo' instaurare un rapporto vivente, diventando consapevoli della propria finitudine e storicita'. Solo in quanto fra l'interprete e il testo non sussiste gia' un rapporto armonico, ma il testo pone un problema e deve essere trasformato da qualcosa di estraneo in qualcosa di familiare, allora puo' aver luogo un'esperienza ermeneutica, nella quale la fusione di orizzonti si articola come struttura dialogica.

"Condurre un dialogo significa mettersi sotto la guida dell'argomento che gli interlocutori hanno di mira", asserisce Gadamer, ma all'inizio del dialogo c'e' la domanda che il testo pone a noi, che siamo cosi' chiamati in causa dalla parola del passato. Di qui scaturisce se la necessita' di pensare, come aveva mostrato Heidegger, quel che per l'autore del testo era rimasto non problematico e pertanto non era stato da lui pensato: questo vuol dire che l'interpretazione non e' soltanto la ricostruzione e riproduzione dell'opinione altrui, ma e' integrazione rispetto a quel che e' detto nel testo. Infatti, un dialogo, quando e' autentico, non riesce mai come vogliono gli interlocutori, i quali, piu' che guidarlo (cfr. il modello del gioco), sono guidati da esso: il risultato di un dialogo non puo' mai essere conosciuto in anticipo. Nel dialogo viene, dunque, ad espressione qualcosa che non appartiene soltanto ad uno dei due interlocutori, all'autore del testo o a chi lo interpreta: si tratta, invece, di qualcosa di comune che li unisce. In tal modo ha luogo la fusione di orizzonti che accade nella comprensione: essa si dispiega nel linguaggio, e' sempre un fatto linguistico.

Per questa attenzione particolare rivolta al linguaggio Gadamer si puo' richiamare ancora una volta a Heidegger: il linguaggio non e' uno strumento di cui si possa disporre arbitrariamente, ma e' il luogo in cui l'essere e le cose si danno all'uomo. L'uomo non puo' fare esperienza del mondo se non attraverso il linguaggio, e' attraverso il linguaggio che egli e' interpellato dalla tradizione. Ma il linguaggio non e' un'entita' semplicemente presente e disponibile all'uomo, bensi' ha il carattere dell'evento, attraverso il quale quel che e' detto nei testi della tradizione afferra e trasforma l'interprete. Questa e' la struttura fondamentale di tutto quel che in generale puo' essere oggetto del comprendere, cosicche' Gadamer puo' concludere che "l'essere, che puo' venire compreso, e' linguaggio". Linguaggio e comprensione sono, dunque, costitutivi di ogni rapporto dell'uomo col mondo; il linguaggio assume una portata ontologica universale, e' il luogo in cui puo' avvenire ogni esperienza della verita', cosicche' l'ermeneutica, portando alla luce questa struttura fondamentale del rapporto dell'uomo col mondo, ha anch'essa una dimensione di universalita'.



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Sipolino Fabio
Saturday 31st of July 2021 02:34:29 PM

https://www.homolaicus.com/teorici/gadamer/gadamer3.htm


N° Post: 426
Sipolino Fabio
Friday 30th of July 2021 02:11:40 PM


L'essenza poetica del linguaggio in Martin Heidegger




Se la questione del linguaggio, dagli esordi filosofici del giovane Heidegger fino a Essere e Tempo, sembra giocare un ruolo marginale entro la riproposizione del problema dell'essere; dopo la cosiddetta "svolta", tale questione riveste un'importanza sempre piu' decisiva nel cammino di pensiero del filosofo di Messkirch. A questo proposito, basti pensare che, in Essere e Tempo cosi' come nei testi che gravitano attorno all'opus maius heideggeriano, il linguaggio, per quanto ascritto tra gli esistenziali dell'esserci, e' considerato da Heidegger niente di piu' che un livello sovrapposto e secondario rispetto alla significativita' e al mondo[1]; sara' solo con la famosa Kehre che Heidegger giungera' ad affermare, senza esitazioni, che "il linguaggio ha il compito di rendere manifesto e conservare nella sua opera l'ente come tale [...] solo dov'e' linguaggio vi e' mondo"[2]. Come si mostrera' in seguito, e' proprio questo carattere istitutivo e aprente assegnato alla parola nei confronti dell'ente e del mondo a costituire il cuore pulsante della sua nuova concezione del linguaggio, maturata in seguito a quel cammino interrotto che e' Essere e Tempo. Prima, pero', di procedere alla disamina di quei luoghi heideggeriani in cui emerge una diversa esperienza di parola, quella poetica, che prende le distanze dalla concezione metafisica del Logos, e' opportuno chiarire, seppur brevemente, il motivo, l'istanza profonda che spinge il filosofo a una radicale revisione della propria idea di linguaggio.

La ragione principale che muove Heidegger a cercare una nuova prospettiva sulla parola e' intimamente legata alla mancata pubblicazione della terza sezione della prima parte di Essere e Tempo, senza la quale la sua opera principale rimase incompleta: "La sezione in questione" - come ricorda il filosofo nella Lettera sull'"umanismo" - "non fu pubblicata perche' il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta e non ne veniva a capo con l'aiuto del linguaggio della metafisica"[3]. Dalle concise parole di Heidegger emerge la decisiva affermazione, seppur qui non argomentata, del limite del linguaggio metafisico di fronte alla Kehre, la quale caratterizza il cammino del filosofo tedesco dopo Essere e Tempo: paradossalmente, la parola con la quale la metafisica ha posto la questione dell'essere, non e' piu' adatta, per Heidegger, a portare ad espressione l'essere stesso, a dirimere la stessa Seinfrage. E'a partire dall'abbandono del linguaggio metafisico che Heidegger operera', in seno alla svolta ontologica, una svolta "linguistica", conducendolo a elaborare una nuova concezione del linguaggio.

A questa nuova prospettiva sulla parola, Heidegger perviene attraverso l'incontro ed il confronto con la poesia in generale e in particolare con il poetare di Holderlin, la cui figura si staglia dallo sfondo della riflessione heideggeriana per giocare un ruolo decisivo entro la questione dell'essere nel suo rapporto con il linguaggio. Piu' precisamente, cio' che avviene con la "svolta" e' il decisivo passaggio [4] da una concezione impoetica, ovverosia dichiarativa, assertiva del linguaggio, tipica della tradizione metafisica, ad una concezione poetica, o per meglio dire poietica, creativa che pone al suo centro il carattere istitutivo, aprente della nominazione e che ha come riferimento privilegiato la poesia di Holderlin. Questo carattere istitutivo, rivelativo, messo in luce da Heidegger, si manifesta, in primo luogo, nell'originario termine poiesis da cui deriva la parola poesia che non assume nel filosofo tedesco quel senso estetico che le e' solitamente assegnato, ma ha il significato originario del produrre, del portare alla luce cio' che e' nascosto.

Questo modo di concepire la poesia e' introdotto per la prima volta da Heidegger nel saggio L'origine dell'opera d'arte, ove l'Autore mette in evidenza il carattere di apertura, di rivelazione dell'ente operato dal linguaggio poetico e dalla nominazione: "Il linguaggio nominando l'ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all'apparizione [...] Il linguaggio stesso e' Poesia nel suo senso essenziale"[5]. Il linguaggio e' dunque poesia (Dichtung) nel senso di uno svelare, di un portare l'essente alla luce, ovvero di istituire un mondo ed e' proprio all'interno dell'illuminazione dell'essente, dovuta al linguaggio, che, per Heidegger, tutte le arti sono un particolare poetare. Infatti, le arti, quali l'architettura e la scultura, "hanno sempre luogo solo nell'aperto del dire e del nominare [...] Ciascheduna di esse e' un particolare Poetare entro l'illuminazione dell'ente, che di gia', e in modo inosservato, si e' storicizzato nel linguaggio"[6]. L'essenza dell'opera d'arte, quale apertura, ossia istituzione di un mondo, e' quindi poesia (Dichtung), intesa nel senso originario della poiesis, del pro-durre, dello svelare, che Heidegger distingue dall'arte della parola, dalla poesia in senso stretto, a cui attribuisce il termine Poesie. A proposito di questa distinzione terminologica, Vattimo giustamente sottolinea, come in questo testo, Heidegger "gioca" continuamente "sul duplice senso del termine tedesco Dichten, che significa insieme poetare e inventare. L'essenza di ogni arte, allora, in quanto l'opera rappresenta un'apertura o un progetto che deve essere gedichtet, inventato, e' Dichtung, poesia"[7].

La questione del linguaggio, che nella conferenza relativa all'opera d'arte e' appena introdotta, trova una piu' articolata espressione nel saggio dedicato a Holderlin e l'essenza della poesia. In tale scritto, che fa del linguaggio il luogo privilegiato dell'accadere della verita' e dell'essere, cio' che veniva messo in evidenza ne L'origine dell'opera d'arte, ossia il carattere aprente e istitutivo che caratterizza l'opera, e' ascritto limitatamente e decisamente al solo linguaggio. Ora, cio' che il solo linguaggio svela e' ancora una volta il mondo e quindi l'ente in quanto ente, ossia l'in quanto che lo accompagna: "Solo dov'e' linguaggio vi e' mondo". E'dunque il solo linguaggio, nel suo essere essenziale come poesia, che istituisce il mondo e che porta alla luce l'ente. All'apertura del mondo segue, pero', per lo Heidegger lettore di Holderlin, la possibilita' della storia, dell'essere storico dell'uomo, che dipende anch'esso dal linguaggio: "Solo dov'e' mondo che domina, vi e' storia. Il linguaggio e' un bene in un senso piu' originario. Esso da' il benestare, cioe' la garanzia che l'uomo possa essere in quanto storico"[8]. Il linguaggio apre quindi il mondo come "cerchia sempre cangiante di decisioni e opere, di azioni e responsabilita', ma anche di arbitrio e rumore, decadenza e confusione"[9] e con esso rende possibile anche l'essere storico dell'esserci. Come precisa Heidegger, tale linguaggio "non si esaurisce nel solo essere mezzo per intendersi [...] non e' lo strumento che l'uomo possiede accanto a molti altri, ma invece e' proprio soltanto il linguaggio a concedere la possibilita' di stare in mezzo all'apertura dell'ente"[10]. Pertanto il linguaggio che istituisce il mondo, che pone l'uomo nell'apertura dell'ente, non puo', nella prospettiva heideggeriana, essere inteso come mero strumento di comunicazione al servizio degli uomini, bensi' e' "quell'evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilita' dell'essere-uomo"[11].

Questa concezione del linguaggio e' delineata ancor meglio da Heidegger nel saggio L'essenza del linguaggio. Qui il filosofo ribadisce che "dire significa mostrare: far apparire, dischiudere illuminando-celando nel senso di: porgere cio' che chiamiamo mondo"[12]. Il linguaggio, che quindi e' un mostrare, anche in questo scritto, fa apparire il mondo, lo dischiude. Ma a differenza degli altri scritti, all'apertura del mondo che coinvolge la storia si aggiunge qui un nuovo elemento istituito dal linguaggio. Come osserva Galimberti: "Dalla Sage come linguaggio originario nasce ogni discorso esplicito, ogni Aus-sage che enuncia, dichiara in linea con il discorso originario, ma senza risolverlo in se', per cui ogni discorso (Aussage) sul linguaggio (Sage) e' sempre un discorso dal linguaggio (Aus-sage) nel linguaggio; mai il linguaggio nel discorso"[13]. Il dire originario rende dunque possibile, non solo il dischiudersi di un mondo, ma anche qualsiasi discorso esplicito, senza tuttavia che tale discorso si risolva nello stesso dire originario, anche quando parla di esso. E'in questo preciso senso che Heidegger afferma che "il linguaggio e' il linguaggio" e "il linguaggio parla"[14]. Il dire originario rende dunque possibile ogni discorso e dischiude un mondo e gli enti che di quel mondo sono parte. Ora, tutto questo e' possibile al dire originario perche' il suo modo di dire non e', come abbiamo visto, il mero significare, ma l'indicare, il mostrare. In questa nuova prospettiva la parola non veicola semplicemente un significato gia' rivelato dal comprendere, come avveniva in Essere e Tempo, ma si profila innanzitutto come cio' che indica e esibisce l'ente, cio' che lascia essere l'essere dell'ente: "Nessuna cosa e' dove la parola, cioe' il nome, manca. E'la parola che procura l'essere alla cosa"[15].

Una volta preso atto di questa funzione istitutiva del linguaggio nei confronti del mondo e dell'ente in generale, occorre chiedersi come tale funzione si esplichi, ovvero come il linguaggio, la parola stessa possa, per Heidegger, svelare, portare alla luce l'ente. Nella riflessione heideggeriana sul linguaggio e' possibile ravvisare una risposta seppur parziale a tale questione nel saggio Il linguaggio, ove il tema della nominazione e' affrontato in modo decisivo dal filosofo mediante il confronto con la parola poetica di Georg Trakl. In questo scritto l'Autore afferma:



Nominare non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina cio' che chiama. Tale avvicinamento non significa che cio' che e' chiamato sia trasferito, deposto e collocato nell'immediatamente presente [...] chiamare e' chiamare presso. E tuttavia quel che e' chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare e' sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all'assenza[16].



Il chiamare avvicina cio' che risiede nella lontananza senza tuttavia annullarne l'assenza. Quindi questo avvicinare cio' che e' lontano non significa che l'ente chiamato dalla parola sia trasferito nell'immediatamente presente, ovvero sia presente fisicamente. A tale proposito, Heidegger prende come esempio "il cadere della neve" e "il risonare della campana della sera", che sono nominati nella poesia di Trakl e pertanto "sono -- per e nell'appello della poesia -- ora e qui, presso di noi. Sono presenti. E tuttavia certo non cadono fra cio' che e' presente ora e qui, in questa sala. Quale presenza e' la piu' alta di cio' che sta fisicamente dinanzi o quella di cio' che e' chiamato?"[17]. La parola chiama, avvicina senza tuttavia rendere presente fisicamente cio' che e' chiamato, senza che questa presenza di cio' che e' chiamato annulli la distanza, la lontananza e quindi l'assenza.

Ora, in questa dinamica della parola che avvicina, pur mantenendo nell'assenza cio' che e' chiamato, e' possibile ravvisare il potere e-vocativo della parola, che chiama fuori, chiama gli enti alla presenza ed allo stesso tempo non li esaurisce nella semplice presenza, consentendo cosi' di chiamarli sempre di nuovo. Questa parola non e' dunque la parola della scienza o della tradizione metafisica, la parola che rende l'ente semplicemente presente ossia la parola che oggettiva l'essere dell'ente, riducendo l'essere all'ente stesso, ma e' la parola che lascia ogni volta che l'essere dell'ente si manifesti per quello che e'. Ed infatti continua Heidegger: "Il chiamare e' un invitare. E'l'invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini. [...] La poesia nominando le cose, le chiama in tale loro essenza"[18].

Il nominare chiama quindi le cose nella loro essenza e in tal modo apre un mondo, che Heidegger, in questo passo, indica come intimo quadrato di cielo, terra, mortali e divini. A tale proposito, Ugazio osserva che il nominare, o meglio la poesia, "proprio in quanto il linguaggio e' linguaggio originariamente in essa", si configura come "la primigenia esperienza del mondo, quella che ogni altro modo di accostarsi alle cose sottintende"[19]. L'uomo ha quindi esperienza originaria del mondo proprio nel linguaggio poetico, che dischiude ogni rapporto alle cose. Anche la definizione dell'essere come quadrato ha proprio questo senso: in essa si tratta di comprendere la originaria poeticita' del linguaggio[20]. Il quadrato introdotto da Heidegger nella riflessione mostra dunque il carattere originariamente poetico del linguaggio, ovvero il suo carattere aprente, disvelante e istitutivo del mondo e quindi anche dell'uomo come mortale.

La relazione tra linguaggio e mondo che si viene cosi' a delineare dopo la Kehre costituisce un vero e proprio rovesciamento del rapporto tra parola e significativita' tracciato da Heidegger in Essere e Tempo e nelle opere precedenti. Infatti, se nella sua opera principale la connessione tra parola e significativita' e' caratterizzata da una sorta di semplice sovrapposizione della parola al mondo, che finisce cosi' per configurare la parola come un livello secondario rispetto ai significati gia' dischiusi nel comprendere; dopo la cosiddetta svolta, e' la parola stessa che dischiude, che porta alla presenza i significati, le loro connessioni, ovvero il mondo. La parola non e' piu' dunque un aspetto secondario, derivato dell'esperienza, ma e' il modo stesso attraverso il quale l'uomo puo' fare esperienza del mondo, puo' rapportarsi all'essere dell'ente perche' collocato dalla parola stessa nell'apertura dell'essere: se il linguaggio e' essenzialmente poetico, l'uomo per Heidegger non puo' che abitare poeticamente il mondo.








[1] Per questa interpretazione del linguaggio nello Heidegger di Essere e Tempo si confronti C. Di Martino, Segno, gesto, parola, Da Heidegger a Mead e Merlau-Ponty, ETS, Pisa 2005.

[2] M. Heidegger, Holderlin e l'essenza della poesia, in La poesia di Holderlin, trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 2001, pp. 45-46.

[3] M. Heidegger, Lettera sull'"umanismo", in Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002 p. 281.

[4] Su questo passaggio si confronti C. Di Martino, Segno, gesto, parola,cit., p. 72.

[5] M. Heidegger, L'origine dell'opera d'arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 57-58.

[6] Ibidem.

[7] G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1989, p. 126.

[8] M. Heidegger, Holderlin e l'essenza della poesia, cit., p. 46.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 2007, p. 157.

[13] U. Galimberti, Il tramonto dell'occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2006, p. 636.

[14] M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 28.

[15] Ivi, p. 131.

[16] Ivi, p. 34.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 35.

[19] U. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976, p. 182.

[20] Cfr. ivi, p. 183.



Disciplina: Filosofia dell'arte

Autore: Roberto Redaelli




N° Post: 421
Sipolino Fabio
Thursday 29th of July 2021 07:36:46 AM


Hans Jonas





Hans Jonas e' considerato uno dei piu' grandi filosofi della storia della filosofia. In questa pagina e' proposto un breve riassunto di questo importantissimo autore.

Hans Jonas Sorriso Smile Primo piano
Indice del post:

1 Hans Jonas riassunto
1.1 La vita e le opere
1.2 Dagli studi gnostici ad una biologica filosofica
1.3 Il principio responsabilita'
1.4 Potenzialita' e responsabilita'. Dal fatto ontico al comandamento ontologico
1.5 Le riflessioni su Dio dopo Auschwitz
1.6 Il dibattito sulla bioetica contemporanea
Hans Jonas riassunto
La vita e le opere
Hans Jonas (Monchengladbach 1903 -- New York 1993) e' stato un filosofo e storico delle religioni tedesco, naturalizzato statunitense. Studio' con maestri del calibro di Husserl, Heidegger e Bultmann. Di origini ebraiche, Jonas si rifugio' in Inghilterra con l'avvento del nazismo, ed emigro' nel 1935 in Palestina.

Nel 1940 torno' in Europa per unirsi all'esercito britannico che aveva organizzato una brigata speciale per gli ebrei tedeschi che volevano combattere contro Hitler. Si sposo' con Lore Weiner (incontrata nel 1937 in un carnevale ebraico), la quale divenne sua moglie nel 1943.

Subito dopo la guerra torno' a Monchengladbach per cercare sua madre, ma scopri' che era stata mandata nelle camere a gas del campo di concentramento di Auschwitz. Dopo aver scoperto questo, e dopo essere rimasto con l'amaro in bocca nel suo incontro con vari conoscenti (come il nuovo proprietario della sua casa natale in via Mozartstrasse 9 il quale nego' la deportazione della madre) e colleghi come il maestro Martin Heidegger (il quale, pur avendo aderito al nazismo per pochi mesi, rincontrando Jonas non gli chiese nemmeno scusa per le sue scelte politiche) decise di non tornare mai piu' a vivere in Germania.

Tornato in Palestina, Jonas partecipo' perfino alla guerra arabo-israeliana del 1948 e pote' continuare gli studi presso la Hebrew University di Gerusalemme. Nel 1950 parti' per il Canada, insegnando alla Carleton University. Da li' si trasferi' nel 1955 a New York City, dove reincontro' i suoi vecchi amici Hannah Arendt, Gu'nther Anders e Karl Lowith e dove sarebbe vissuto per il resto della sua vita.

Tra le opere importanti da segnalare all'interno della produzione jonasiana ricordiamo: Gnosi e spirito tardo antico (vol. I, 1934; vol. II, 1954), Organismo e liberta': verso una biologia filosofica (1966); Lo gnosticismo (2ª ed., 1972); Il Principio responsabilita'. Un'etica per la civilta' tecnologica (1979), Tecnica, medicina ed etica (1985); Il concetto di Dio dopo Auschwitz (1987); Materia, spirito e creazione (1988); Memorie (2008).

Dagli studi gnostici ad una biologica filosofica
In Gnosi e spirito tardo antico (vol. I, 1934; vol. II, 1954), una delle sue opere piu' importanti, Jonas affianca la gnosi antica all'esistenzialismo contemporaneo, riconducendoli a una comune esperienza di separatezza: la perdita di un ordine cosmico compiuto nel primo caso; l'oggettivazione della natura sotto lo sguardo della conoscenza scientifica nel secondo caso.

La separatezza e' insita nello stesso sorgere e differenziarsi del mondo organico, e su questa base, Jonas fornisce una spiegazione dei fenomeni biologici che mette capo ad una vera e propria filosofia della vita.

Prendendo le distanze dall'antropocentrismo (condiviso sia dal pensiero idealistico sia dall'esistenzialismo) come pure dal materialismo implicito nell'atteggiamento delle scienze della natura, Jonas (passando anche per la critica del dualismo corpo-anima, cosi' come lo aveva anche criticato Bergson) afferma che il concetto-chiave per la comprensione della vita e del suo sviluppo e' la liberta'. La liberta', afferma Jonas, e' perfettamente compatibile con la moderna concezione delle leggi di natura da quando e' apparsa sulla scena la meccanica quantistica. Inoltre, l'irruzione della liberta' comporta l'infrangersi della compattezza dell'essere, il suo dissolversi nello spazio illimitato dei possibili. La liberta' si prefigura nel mondo organico come indipendenza della materia dalla forma. Per l'uomo la liberta' costituisce la condizione dell'incontro con se' stesso: dalla filosofia della natura come "biologia filosofica", siamo cosi' condotti all'etica. In particolare Jonas ha inteso formulare, a partire dal Il principio responsabilita' (1979), un'etica adatta all'eta' della tecnica contemporanea (confronta anche La questione della tecnica di Martin Heidegger). E'la natura stessa che sembra chiedere una tutela della sua integrita' contro le minacce dello sviluppo tecnologico odierno e futuro. L'orizzonte dell'etica viene su questa via a dilatarsi: suo oggetto non sono piu' soltanto i rapporti interumani, ma l'intera biosfera. Si modifica cosi' anche il concetto di responsabilita', che non riguarda piu' semplicemente il soggetto singolo, ma l'umanita' nel suo complesso.

Il principio responsabilita'
Il principio responsabilita' e' l'opera piu' famosa di Hans Jonas e tale notorieta' e' dovuta alla portata (all'epoca per certi versi perfino profetica) del messaggio contenuto in essa. Se in Organismo e liberta', Jonas evidenziava la differenza qualitativa della liberta' umana rispetto alle altre forme viventi (l'uomo ha una vastissima pluralita' di scopi) e la differenza qualitativa (differenza ontologica) della vita rispetto alla non-vita, in Il principio responsabilita' la sua attenzione si concentra sul potere che questa liberta' (di vivere) ha dato all'uomo.

Riprendendo la distinzione fra etica dell'intenzione (detta anche della convinzione) ed etica della responsabilita' (o del render conto) operata da Max Weber, e polemizzando contro l'utopismo de Il principio speranza di Ernest Bloch, Jonas elabora un'etica capace di tener conto delle mutate condizioni dell'agire umano (rispetto al passato ed in particolare rispetto alla tecnica antica) e del fatto che la permanenza stessa del mondo e della biosfera pare messa in questione dagli sviluppi incontrollabili della tecnica (prima tra tutti la manipolazione genetica).

Difatti, le etiche classiche si basavano su antiche premesse:

1) La condizione umana (definita dalla natura dell'uomo) era data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali

2) Su questa base (quella della condizione umana fissa) si poteva determinare il bene umano

3) La portata dell'agire umano (e quindi della sua responsabilita' nell'agire) era strettamente circoscritta

Secondo Jonas, queste premesse non reggono piu', poiche':

1) L'ingegneria genetica puo' stravolgere completamente la natura umana

2) Di conseguenza il bene umano si perde di vista

3) L'essere umano puo' sterminare la specie (auto-estinguersi; confronta, ad esempio la bomba H)

Cosi', Jonas, cerca di costruire un "sistema filosofico" che sia in grado di adeguarsi a questi cambiamenti. Per fare cio', Jonas propone una "ristrutturazione" degli imperativi kantiani e li ripropone cosi':

1) "Il primo imperativo categorico e' che ci sia un'umanita'". Questo imperativo impone di salvare e tutelare l'idea generale di essere umano, prima ancora dei singoli individui. La manifestazione concreta di questo imperativo categorico e' il senso di responsabilita' che trova il suo archetipo originario nelle cure dei genitori nei confronti dei figli (e' proprio il neonato che, nella sua nuda e indifesa esistenza, funge da "paradigma ontico" della coincidenza ontologica tra essere e dover essere, cioe' da manifestazione evidente in bilico tra la vita e l'appello a far si' che la vita continui).

2) Il secondo imperativo e': "Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la presenza di una autentica vita umana sulla terra". Tale imperativo puo' essere declinato anche in negativo: "Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilita' futura di una autentica vita umana". Oppure ancora con un'altra formulazione: "Includi nella tua scelta attuale l'integrita' futura dell'uomo come oggetto della tua volonta'". O ancora in negativo: "Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanita' sulla terra".

Per porre questi imperativi bisogna dunque postulare, sul piano filosofico, l'essere in senso assoluto come migliore rispetto al non essere. Per Jonas vi e' dunque un primato dello scopo (cioe' dell'essere) sull'assenza di scopi (cioe' il non essere). Tale primato rappresenta il cuore del fondamento ontologico della filosofia di Hans Jonas e rappresenta una fortissima dichiarazione (neoaristotelica, se vogliamo) la quale afferma "il dover essere e' contenuto nell'essere", e cioe' "vi e' un finalismo interno all'ordine delle cose" il quale finalismo fa si' che "la vita esiga la conservazione della vita". Una ameba, dunque, vale di piu' di un sasso, poiche' manifesta almeno uno scopo insito in se stessa, rispetto al sasso che non ne manifesta alcuno.

Nel tentare di applicare questi imperativi, uno strumento che potrebbe aiutare dovrebbe essere quello dell'euristica della paura. L'euristica (ripresa dall'epistemologia e dalla ricerca nel metodo scientifico) e' una metodologia di ricerca dei fatti e delle verita' scientifiche, che si occupa di favorire l'accesso a nuovi sviluppi teorici, nuove scoperte empiriche e nuove tecnologie. Tuttavia, il tradizionale approccio euristico ai problemi non segue un chiaro percorso, ma si affida allo stato temporaneo delle circostanze, al qui ed ora, liberandosi della responsabilita' nei confronti di cio' che potrebbe accadere in futuro, come conseguenza delle proprie azioni.

Viste le caratteristiche e la pericolosita' di questo particolare metodo, Jonas ci induce ad elaborare quella che egli definisce una "euristica della paura" cioe' il "mettere la previsione peggiore sempre davanti alla previsione migliore" nel momento del calcolo e dei pro e dei contro. La nuova etica per la civilta' tecnologica deve orientare le nostre scelte in modo da agire con la consapevolezza che il male, che puo' compiersi a seguito a talune scelte, puo' mettere in pericolo la vita stessa dell'umanita'.
Solo quando alla potenzialita' dell'Homo Faber (tenere qui presente la tematica del Prometeo scatenato) s'accompagnera' la capacita' di riflettere sulle conseguenze del proprio agire, sostituendo alla speranza che il bene si compira' la paura che il male si realizzera', solo allora l'euristica della paura si trasformera' in un imperativo volto alla responsabilita', alla tutela e alla cura dell'altro.

L'"euristica della paura" si distacca dall'antropocentrismo classico; e' necessario misurare le azioni umane guardando al nuovo imperativo del futuro: l'"incondizionato dovere dell'umanita' all'esserci". Sulla base della propria filosofia della biologia (Organismo e liberta'), l'argomento di Jonas si incentra dunque sulla nozione di finalita'. Se lo scopo e' "cio' per cui una cosa esiste", e vi possono essere scopi esterni (un martello serve per martellare), esterni e interni insieme (un tribunale e' garantito dal diritto, di cui si fa a sua volta garante), o prettamente interni (un organismo conserva se' stesso e la sua specie), quello che chiamiamo "valore" puo' definirsi solo sulla base di uno (o piu') scopo.

Certo vi sono giudizi di valore fondati su un punto di vista meramente soggettivo e particolare (come per assurdo, ad esempio, l'accusare i leoni perche' essi non sono vegetariani); tuttavia e' innegabile che ogni giudizio di valore implichi una sorta di schema, per cui di bene si puo' parlare solo "nell'orientamento teleologico pre-esistente".

In natura si manifestano scopi immanenti (cioe' insiti nella natura stessa), che possono ben contrastare con la volonta' umana, individuale o collettiva; ma "nella capacita' di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene-in-se', la cui infinita superiorita' rispetto a ogni assenza di scopo dell'essere e' intuitivamente certa". Cio' e' per Jonas evidente per esempio nella cura che caratterizza il rapporto genitori-figli, archetipo della relazione di responsabilita'. Nella sopravvivenza del genere umano e' dunque immediatamente contenuto un "primo comandamento anonimo", cioe' l'essere orientato allo scopo.

Ignorare l'imperativo del "trarre il dovere dall'essere" (con la famosa espressione "no-ought-from-is", Hume affermava che non si possono trarre conclusioni morali da premesse non morali) e' un gesto peculiare delle teorie etiche moderne (come quelle di D. Hume e G.E. Moore). Cio', unito alle concrete modalita' etico-politiche di un'applicazione del principio di responsabilita', ha scatenato un ampio dibattito intorno alla proposta di Jonas. Tale dibattito e' ancora molto attuale.

Potenzialita' e responsabilita'. Dal fatto ontico al comandamento ontologico
Nell'ottica jonasiana, dunque, la "responsabilita'" (la quale impone di pensare alle generazioni future, e specialmente a chi non e' ancora nato) non e' solo l'altra faccia della medaglia della "potenzialita'" ma diventa il nuovo imperativo categorico, poiche' e' una condizione ineliminabile per la sopravvivenza dell'umanita' nel futuro.

E cosi', il "primato dell'essere" non abbandona l'ente nell'abisso del nulla, ma lo coinvolge in termini etici nell'avventura della vita: il "puro fatto ontico" dell'esistenza dell'umanita' diventa percio' il "comandamento ontologico in base al quale l'umanita' deve continuare ad esistere" (per approfondire, vedere le differenze tra ontico ed ontologico), il futuro della vita diventa cosi' lo scopo di tutti i soggetti responsabili e lo scopo di tutti gli scopi risulta percio' essere la vita sulla terra. In questa ottica, l'imperativo del "che ci sia un'umanita'" diventa impegno morale -- esclusivo dell'essere umano nella misura in cui egli solo puo' avere contemporaneamente molteplici scopi e quindi anche molteplici responsabilita' -- per una garanzia di tutte le forme di vita sulla terra e del rispetto per la vita in generale e per le sue molteplici forme di liberta' (confronta Il Principio responsabilita', pp. 54 e seguenti)

Le riflessioni su Dio dopo Auschwitz
Per quanto riguarda la tematica della liberta', Jonas si interrogo' (forte delle sue origini) anche sull'olocausto e sul senso della speculazione teologica e filosofica intorno a Dio dopo le guerre mondiali ed in particolare dopo il grande genocidio subi'to dagli ebrei. Secondo Jonas "Dio e' bonta' assoluta" poiche' "un Dio non buono non sarebbe Dio", ma che ne e' dell'onnipotenza di Dio (soprattutto) con il ventesimo secolo? Perche' Dio "non ha fatto il miracolo di salvare gli innocenti da menti stravolte e mani assassine"? Secondo Jonas "Dio resto' muto" in quei frangenti, rinunciando alla propria onnipotenza. "Dio non intervenne, non perche' non volle, ma perche' non fu in condizione di farlo". In altri termini, Dio, creando l'uomo libero in tutto e per tutto, ha rinunciato per sempre alla propria onnipotenza. Bisogna quindi cercare una nuova risposta all'interrogativo di Giobbe (perche' il male? perche' la sofferenza se Dio e' buono?): mentre la domanda di Giobbe (e una conseguente risposta) richiama alla pienezza di potenza del Dio creatore, Jonas afferma che Dio ha rinunciato alla sua potenza nel momento stesso della creazione dell'uomo.

Il dibattito sulla bioetica contemporanea
Hans Jonas e' molto attivo non solo sul piano della speculazione filosofica a livello biologico, ma e' anche considerato unanimemente uno dei fondatori della bioetica contemporanea. Per quanto riguarda i problemi sull'ingegneria genetica e quindi sulla manipolazione genetica, Jonas ha due punti di vista:

1) E'a favore della tecnologia genetica terapeutica (la cosiddetta eugenetica negativa).

2) Nutre serissimi dubbi sull'intervento diretto nel processo genetico dell'ereditarieta' (la famosa eugenetica positiva).

Nel secondo caso, difatti, quello che facciamo "non e' circoscritto all'individuo sul quale noi lavoriamo, ma avra' effetti sulla catena delle generazioni che seguiranno; e noi non sappiamo quel che abbiamo prodotto gia' nella prima, la seconda e la terza generazione e probabilmente sopravvalutiamo le nostre forze se lo facciamo". Il "Prometeo scatenato" (confronta, il "prometeismo" e soprattutto l'opera Tecnica, Medicina ed etica) sta minacciando la sopravvivenza stessa del globo.

Inoltre, il timore di una possibile catastrofe ecologica (che porta Jonas a criticare anche la Chiesa cattolica e il magistero "dissennato" del papa a proposito della natalita') non conduce l'Autore verso un esito pessimistico, al contrario. Andando contro corrente rispetto agli scrittori del tempo, Jonas conserva una moderata fiducia nella ragione e nella liberta' umane. Dira' in Scienza come esperienza personale (pag. 48): "Malgrado tutto la mia speranza poggia in ultima analisi sulla ragione umana, quella ragione che si e' gia' dimostrata cosi' straordinaria nell'ottenere il nostro potere e che ora deve assumere la guida circoscrivendolo. Dubitare di essa sarebbe irresponsabile".

Il principio responsabilita' si mantiene dunque in quello che possiamo chiamare il solco del "razionalismo occidentale" e si propone come una sorta di "terza via" tra l'eccesso di speranza di Ernest Bloch e l'eccesso di disperazione di Gu'nter Anders.


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Sipolino Fabio
Thursday 29th of July 2021 07:37:32 AM

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N° Post: 420
Sipolino Fabio
Wednesday 28th of July 2021 07:10:12 PM


Tecnica, essere senza fondamento, verita' (Martin Heidegger)




La "civilta' della tecnica" che domina il mondo contemporaneo (per approfondire vedi, La questione della tecnica di Heidegger) e', per Heidegger, una gigantesca estremizzazione del pensiero metafisico classico, in cui vi e' un soggetto (l'uomo) che intende dominare (con la sua volonta' di potenza; vedi Nietzsche e la volonta' di potenza) degli oggetti (i quali sono altro da se').

L'essere degli enti viene allora ad identificarsi semplicemente (e riduttivamente) con il ruolo e con la funzione che vengono loro assegnati all'interno del sistema della tecnica (al posto dell'impotenza e della finitezza dell'essere umano, oppure al posto della manifestazione del senso dell'essere, compaiono tutte le forme di assicurazione, controllo e organizzazione dell'ente proprio di una esistenza tecnico scientifica).

E'infatti impossibile, secondo Heidegger, sapere il modo in cui, all'interno dell'orizzonte (dell'essere) che lascia manifestare gli enti, questi enti si producano e a quale legge si conformino. L'essere e' quindi senza fondamento.

La tecnica moderna, invece, si configura come un dominio dell'uomo sulle cose, l'uomo crede che l'essere delle cose sia soggetto al suo dominio, in realta' l'uomo non e' il padrone dell'essere, bensi' il "pastore dell'essere", cioe' il custode della dimensione nella quale gli enti si manifestano.

L'essere, dunque, sopravvive al tentativo di dominio della tecnica perche' non e' un ente concreto, ma e' solamente la condizione attraverso la quale gli enti si manifestano (e la tecnica puo' solo occuparsi degli enti, quindi non dell'essere).

Ben si capisce ora perche' la verita' nella visione heideggeriana coincide quindi con l'essere stesso, cioe' con quella non-cosa che permette agli enti di manifestarsi e di rendersi visibili e concreti (oggettuali) alla percezione degli uomini e all'orizzonte del mondo. Tuttavia, questo "senso della verita'" si e' spento con l'avvento della metafisica, in cui l'essere ha acquistato (come gia' affermato) le caratteristiche dell'ente immutabile. L'essere lo si puo' pensare come "luce" poiche' la luce illumina gli oggetti "senza esser vista".


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Sipolino Fabio
Wednesday 28th of July 2021 07:10:51 PM

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N° Post: 419
Sipolino Fabio
Wednesday 28th of July 2021 06:55:03 PM


La differenza ontologica tra essere ed ente (Martin Heidegger)




L'ente e' cio' "che e'". Ogni cosa che e', in quanto e', e' chiamata ente.

L'essere e' cio' che "fa essere" l'ente, l'essere e' quell'elemento, quella non-cosa grazie alla quale gli enti sono (o, heideggerianamente, "si mostrano").

Dunque, se l'essere e' il lasciarsi mostrare degli enti, allora significa che l'essere non coincide con gli enti. Questa e' la cosiddetta differenza ontologica (tra ente ed essere).

I singoli enti (cioe' le cose che esistono) non hanno legame diretto con l'essere; l'essere non e' l'esistere delle cose (degli enti), l'essere e' in realta' l'orizzonte entro il quale gli enti si manifestano.

L'essere non e' quindi una essenza dell'ente, ma e' in realta' il processo di manifestazione degli enti. L'essere non produce gli enti, ma e' solamente cio' che lascia vedere gli enti, e' un orizzonte entro il quale gli enti sono per cosi' dire "illuminati" e vengono dunque percepiti.

Nell'ontologia di Heidegger l'evidenza del mutamento e' talmente palese che occorre necessariamente affermare il divenire di ogni cosa, anche di quell'essere che era stato sempre inteso (a partire dal mondo greco) come cio' che vi e' di immutabile nel mutamento.

Ma allora perche' l'indagine dell'essere a partire dall'esserci (cioe' dall'uomo) e' rischiosa (o addirittura insufficiente)? Perche' ogni esserci ha per sua stessa natura un "residuo ontico" di indagine, cioe' rimane legato ad un ente (a se stesso come ente che indaga; ognuno puo' indagare solo per se e da se) e come tale l'ente rischia di nascondere la cosiddetta differenza che c'e' tra ente ed essere (cioe' la gia' citata "differenza ontologica"). La differenza ontologica e' dunque quella differenza che sorge confrontando l'ente con l'Essere.

Negli enti si distingue il loro essere-cose dall'essere inesprimibile (ineffabile, che non puo' essere espresso a parole, che non puo' essere adeguatamente espresso) e quindi non catalogabile (e' come se qualcosa d'altro fosse "nascosto" dall'ente), cioe' l'essere che manifestandosi nelle cose le rende tali, le fa "affiorare alla presenza".


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Sipolino Fabio
Wednesday 28th of July 2021 07:05:32 PM

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N° Post: 417
Sipolino Fabio
Wednesday 28th of July 2021 10:59:56 AM



Martin Heidegger










N° Post: 413
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 05:28:54 PM



Edmund HUSSERL spiegato da Carlo Sini










N° Post: 412
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 03:47:03 PM


Husserl-Heidegger
Elementi separanti











· Husserl critichera' Heidegger per il suo antropologismo, e Heidegger critichera' Husserl per il suo teoreticismo e trascendentalismo.

· La distanza e' posta tra la "coscienza" husserliana e l'Esserci di Heidegger quale radicalizzazione di quella. Il dibattere verte quindi sulla questione del "soggetto trascendentale" retaggio del cogito cartesiano.

· Anche la questione del "metodo" e' oggetto del contendere, poiche' e' strettamente connesso col contenuto: il soggetto e il mondo.

· Entrambi tuttavia, si puo' notare seguendo l'evoluzione dei rispettivi pensieri, convergono a una soluzione paradossale della soggettivita'. Anche se sembra che l'ultimo Husserl sia stato influenzato da Heidegger (si veda a riguardo il concetto di "mondo-della-vita")

· Entrambi annunciano il loro intento di dirigersi, con la loro ricerca, alla "cosa stessa" (die sache selbst). Ma e' proprio sul significato di essa che le due opinioni divergono. Heidegger appunta la sua critica sull'analisi trascendentale e sui suoi presupposti fenomenologici: tempo, verita', fenomeno (cosa stessa), ma soprattutto su Soggetto, l'idea di Mondo, il concetto di trascendentale, la Riduzione.

· HEIDEGGER

· Riferitamente all'ontologia, si innesta sulla carenza ontologica della fenomenologia di Husserl. Fenomenologia indica il metodo e ontologia indica il contenuto. Ma ora questa non e' piu' subordinata e derivata da quella (e dal metodo eidetico), ma la fenomenologia diventa, e' ontologia. Heidegger intende muovere verso un concetto d'essere che superi la metafisica tradizionale, mentre per lui il concetto d'essere husserliano e' inteso proprio in quel senso. Anche ammettendo che la riduzione (l'epoche') non sia un mero rimaneggiamento dell'operazione egologica cartesiana questa concezione metafisica dell'essere si traduce in un limite del metodo utilizzato "di fatto" da Husserl.

· L'Esserci (l'uomo) di Heidegger rappresenta una metamorfosi esistenziale radicale della "coscienza intenzionale" di Husserl. Il trascendentalismo di Husserl viene rivitalizzato dall'aspetto mondano della soggettivita'. La rielaborazione della fenomenologia e ontologia all'interno di una filosofia dell'alterita' conferisce una connotazione etico-pragmatica (nel senso di prassi) al soggetto. La dimensione esistenziale constituirebbe cosi' l'allargamento di senso, un superamento del razionalismo della costituzione fenomenologica husserliana

· HUSSERL

· Accusa i suoi allievi, tra cui Heidegger, di essere ricaduti dalla purezza della fenomenologia al realismo e all'antropologismo. L'impostazione di Heidegger che affronta il problema delle radici antiche (esistentive) dell'indagine ontologica (esistenziale) dell'ente chiamato uomo, appare ad Husserl inadeguata a fondare una "conoscenza assoluta". Per Heidegger infatti l'uomo e' sempre legato all'esistenza, esiste e quindi ogni indagine che parte dall'uomo non puo' prescindere, come vorrebbe Husserl, da un'analisi esistenziale. Una tale trasformazione dell'ego nell'Esserci e' per Husserl filosoficamente oscura e inaccettabile. Laddove Husserl "purifica", Heidegger "sporca" con elementi mondani (a giudizio di Husserl).

· Tuttavia non bisogna leggere Heidegger secondo l'idea di "traduzione", suggerita da Husserl stesso, dei concetti fenomenologici in quelli ontologico-fondamentali. Se interpretiamo il passaggio da Husserl ad Heidegger come un semplice trasferimento di concetti da un piano coscienzialistico a uno esistenzialistico, come se l'esserci umano non sia altro che una "concretizzazione" dell'astratto concetto di coscienza di Husserl, fraintendiamo entrambi i pensatori. L'essenza umana e' pensata da Heidegger in modo radicalmente diverso. La filosofia di Heidegger non puo' essere ridotta ad antropologismo in quanto nell'idea di una costituzione d'essere di un ente che esiste (l'Esserci= l'uomo), nell'idea di esistenzialita', si trova gia' sempre l'idea di essere. D'altra parte anche un'analisi esistenziale dell'essere dell'esserci non puo' prescindere da un'analisi del senso dell'essere in generale. Sarebbe quindi errato parlare di eliminazione tout court della trascendenza o della metafisica da parte di Heidegger, a meno di non intenderle nel senso classico e cartesiano.





Secondo Husserl la fenomenologia conduce ad una "ontologia universale" a partire dalla "originarieta' trascendentale". Ma questi sono termini che suonano all'orecchio di Heidegger alquanto falsi, ovvero non autenticamente antimetafisici, come sembra annunciare Husserl. Ecco perche' egli si ostina a vedere nella fenomenologia un ipotecante residuo metafisico. Il nucleo della fenomenologia ha a che vedere con il discorso della metafisica: la riduzione conduce, di necessita', ad un'immagine evocatrice del fantasma filosofico: 1'ego, fonte di equivoco e di oblio. Teniamo ferme le quattro tematiche di fondo: soggetto, mondo, "trascendentale" e "riduzione". Vediamo innanzitutto un passo husserliano: "[la mia impostazione del problema] esige la riduzione al piano di validita' che presuppone questo problema come tale: la soggettivita' pura in quanto fonte del senso e della validita'. Io non ho dunque, in quanto fenomenologo trascendentale, il mio ego come psiche, parola che gia' presuppone nel suo senso un mondo essente o possibile, ma possiedo quell'ego trascendentalmente puro in cui anche questa psiche, con tutto il suo senso trascendente, ottiene, a partire da nascoste operazioni di coscienza, il senso e la validita' che essa ha per me". Solo grazie alla riduzione trascendentale -- dice Husserl -- il filosofo puo' raggiungere puntualmente 1'elemento originario. La soggettivita' pura, demondificata, si svela solo mediante 1'epoche'. Porre in discussione quest'ultima significa permettere, ancora una volta, al fondamento trascendentale di eclissarsi".

E proprio su questo gioco di rischiaramenti ed eclissi si insinua il sospetto di Heidegger: "ma all'essenza dell'ego puro non appartiene forse un mondo in generale? Non manca forse alla fenomenologia 1'attenzione per la totalita' concreta dell'uomo? Quell'ego puro e ancora il mio stesso io? Questo si chiede Heidegger, e mentre risponde negativamente, Husserl confonde ancor piu' le carte: si e no, dice; "1'ego ridotto e' certamente il mio io nella totale concrezione della mia vita [...] ma e' anche il presupposto assoluto per qualsiasi trascendenza per "me" valida".

Ma, obietta ancora Heidegger, come puo' il soggetto fattuale perdere i suoi contorni esistenziali e fisici, arrivare all'ego puro ed essere ancora "nella totale concrezione della vita"? Il paradosso fenomenologico si mostra in tutta la sua problematicita'. La sequenza: epoche', soggettivita' trascendentale, vita nel senso piu' completo (vita filosofica) non e' piu' cosi' scorrevole quando la si osserva con la lente di Heidegger: il soggetto che attua la riduzione e' uguale al soggetto trascendentale che con la riduzione viene scoperto? L'ambiguita' husserliana, che tuttavia rappresenta 1'unico modo per pensare "fenomenologicamente", viene dissolta: certo, il soggetto, l'Esserci (leggi l'uomo), non e' divisibile al pari di un concetto o di qualsiasi altro ente. Il mistero della soggettivita' non e' indagabile per via chirurgica: il senso del suo essere va colto a partire dall'essere stesso.

"E'in questo modo [mediante la riduzione] che io posso e devo ottenere -- scrive ancora Husserl -- perfino la mia attivita' psicologica, il mio intero lavoro scientifico, in breve, tutto cio' che mi e' inerente in maniera pura dal punto di vista soggettivo. Ma nell'abitualita' dell'atteggiamento psicologico, che noi definiamo la positivita' di tale atteggiamento, risiede appunto il fatto che [...] viene realizzata 1'appercezione del mondo". E Heidegger esclama: "Semplicemente presente! Ma 1'Esserci umano "e'" tale che, sebbene sia un ente, non e mai solo semplicemente presente". Cosi' appare a Heidegger il soggetto husserliano, privo di quella densita' esistenziale che in seguito tanto avrebbe affascinato. Dove Husserl si concentra per rendere la "cosa stessa" piu' trasparente possibile, Heidegger riscontra uno spessore imponente.

Osserviamo di nuovo il metodo di Husserl: 1'atto della riduzione coinvolge 1'individuo in un processo infinito, che si snoda nel modo seguente: "la caratteristica di principio della riduzione trascendentale e' sia il fatto che essa, anticipatamente e d'un sol colpo, in una volonta' teoretica universale inibisce questa ingenuita' trascendentale, che ancora domina nella psicologia pura; sia il fatto che con questa volonta' essa abbraccia 1'intera vita attuale e abituale: questa volonta' impone di non far agire alcuna appercezione trascendente, alcuna validita' trascendente (l'esperienza naturale di un oggetto "fuori di noi"), ma di "metterle fra parentesi" e di prenderle solo per cio' che esse sono in se stesse, in quanto cioe' appercepire soggettivo in senso puro, intenzionare, porre in validita' ecc. Se io faccio la stessa cosa verso me stesso, allora io non sono un io umano sebbene io non perda nulla del contenuto essenzialmente proprio della mia psiche pura (nulla dunque del mio insieme psicologico in senso puro). Cio' che e' posto fra parentesi e' solo quel porre-in-validita' che io avevo realizzato nell'atteggiamento espresso dalle proposizioni "io, quest'uomo" e "la mia psiche nel mondo"; non pero' questo porre e questo avere-in-validita in quanto Erleibnis". "Questa e' -- osserva Husserl --, nel mio pensiero, la via per giungere ad una psicologia intenzionale della personalita' nel suo senso piu' ampio a partire dalla vita mondana personale: per giungere cioe' a un tipo personale fondante. Io ho contrapposto alla concezione naturale del mondo collocata nella vita mondana naturale (ovvero entro questa stessa vita) la concezione filosofico-trascendentale del mondo, e quindi una vita che non e naturalmente un vivere-dentro il mondo gia' valido ingenuamente e neppure un avere-in-validita' ingenua se stessi in quanto uomini, ma e' 1'idea di una vita filosofica, determinata a partire dalla filosofia".

All'enunciato husserliano "io non sono un io umano", Heidegger contrappone: "o forse io sono proprio tale, nella sua piu' autentica, meravigliosa, possibilita' di esistenza". Poco prima Heidegger aveva gia' messo in evidenza, con una semplice domanda, l'incerto equilibrio fra l'uscir fuori da se stessi, operando L'epoche, e il rimanere soggetti concreti: la riduzione "abbraccia -- scrive Husserl -- l'intera vita [...] con questa volonta'", e Heidegger chiede: "E questa volonta' stessa?". Qual e' la sua natura, qual e' la sua origine, il suo luogo e il suo destino? Il suo profilo, insomma, va riconosciuto in quello del soggetto o e' la silhouette di una presenza estranea? A questo interrogativo si riallaccia il successivo quesito di Heidegger. Riferendosi sempre all'espressione husserliana "io non sono un io umano", egli aggiunge: "Perche' no? Questa attivita' [la riduzione] non e' una possibilita' dell'uomo ma, appunto perche' quest'ultimo non e mai semplicemente-presente, e' un comportamento, vale a dire un modo d'essere che egli per sua natura procura appunto a se stesso, e che dunque non appartiene mai alla positivita' della semplice presenza". E'possibile, ma ancor piu', e' necessario contrapporre io puro e io umano, considerando l'uno esclusione fenomenologica dell'altro? Rispondere negativamente significa porre in discussione la tematica centrale della fenomenologia. "La riduzione trascendentale rappresenta una sorta di variazione dell'intera forma di vita, che sale piu' in alto di tutte le esperienze vitali che si sono date fino a quel momento, superandole completamente".

Husserl e' esplicito: la rottura fenomenologica non e' paragonabile ad alcuna esperienza precedente. Ma secondo Heidegger si tratta di una "ascesa nel senso di un salire che rimane tuttavia "immanente"; si tratta cioe' di una possibilita' umana, in cui 1'uomo perviene proprio a se stesso". L'Umdeutung fenomenologica, il ripensamento e la riscrittura del rapporto soggetto-oggetto non farebbero altro che trasformare in senso trascendentale tutto l'insieme degli enti positivi. "Tutto -- scrive Heidegger--, lo stesso ambito psichico e 1'ente (il mondo) che in esso si costituisce", viene reinterpretato trascendentalmente. Heidegger e' critico: la riduzione non lo convince. C'e qualche cosa che non puo' venire ridotto; questo qualcosa e' l'essere.

In effetti, la polemica che si sviluppa nell'ambito della tormentata collaborazione per la stesura della voce "fenomenologia" dell'enciclopedia Britannica, per quanto riguarda Heidegger, e' centrata essenzialmente sul problema dell'essere. "Tutto -- dice Heidegger -- ruota attorno al concetto di "e'". Secondo Husserl il termine "e'" rappresenta un sinonimo di essente mondano, e poiche' tutto 1'ambito mondano deve essere messo fra parentesi, anche il concetto di "e'" deve essere posto fra parentesi. [...] Heidegger critica fondamentalmente la non-differenziazione husserliana dell' "e'"", perche' in tal modo Husserl riduce il problema ontologico a mero oggetto della fenomenologia.

Come mette in evidenza in una lettera, a partire da una certa armonia di vedute, si sviluppano differenze sostanziali. "Concordo -- scrive Heidegger -- sul fatto che l'ente inteso nel senso di cio' che Lei definisce "mondo", non puo' essere chiarito nella sua costituzione trascendentale mediante un regresso ad un ente che abbia un identico tipo di essere. Tuttavia questo non significa che cio' che stabilisce il luogo del trascendentale non sia in generale un ente, anzi, e' proprio qui che sorge il problema: qual e' il modo di essere dell'ente nel quale il "mondo" si costituisce? Questo e' il problema centrale di Essere e tempo: quello di un'ontologia fondamentale dell'Esserci. Si tratta di mostrare che il tipo di essere dell'Esserci umano e' totalmente diverso da quello di tutti gli altri enti e che esso, in quanto tale, racchiude in se' la possibilita' della costituzione trascendentale". Dell'uomo, Heidegger nega la semplice presenza, l'uomo non puo' essere considerato alla stregua di una semplice cosa, e dunque nega la possibilita' di essere posto fra parentesi, come invece vorrebbe Husserl: "1'uomo concreto come tale, come ente, non e mai un "fatto mondano reale", poiche' non e mai solo semplicemente presente, ma esiste". Attorno a questa proposizione avversativa si sviluppa l'intero discorso heideggeriano.

Con la critica di Heidegger alla ripresa dell'ontologia cartesiana, Husserl si vede accusata la sua fenomenologia di essere ontologia tradizionale-metafisica del mondo, e ritiene che essa sia stata aggredita da nuove tendenze antropologico-filosofiche. "Si deve, quindi -- afferma amareggiato -- poter prendere una decisione di principio scegliendo fra antropologismo e trascendentalismo". Anche se con la elaborazione di nuovi concetti della maturita' (mondo-della-vita), Husserl fa implicitamente trasparire che forse il discorso di Heidegger ha un qualche fondamento, egli tuttavia ha ormai assunto un atteggiamento difensivo scaturito dalla intima esigenza di dover respingere quella che lui considera "l'oscura mistica della filosofia dell'esistenza".




N° Post: 409
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 02:01:24 PM


Edmund Husserl





Edmund Husserl e' uno dei piu' grandi filosofi della storia della filosofia. Egli fu un genio poliedrico e viene universalmente riconosciuto come il padre della Fenomenologia.

Edmund Husserl sorridente
Indice del post:

1 Edmund Husserl -- Riassunto generale
1.1 Husserl e la fenomenologia in breve
1.2 Cosa sono le essenze?
1.3 L'intenzionalita' della coscienza, il ruolo del fenomenologo e l'epoche'
1.4 La crisi delle scienze e il mondo della vita
Edmund Husserl -- Riassunto generale
Edmund Husserl nacque a Proßnitz (in Moravia, allora Impero austriaco, oggi Prost?jov nella Repubblica Ceca) nel 1859, da una famiglia ebrea benestante che aveva come lingua madre il tedesco. Husserl fu, di formazione, un matematico (intraprese dopo il diploma studi di astronomia, di matematica, di geometria etc. a Lipsia e a Berlino); nel 1883 consegui' il dottorato con il lavoro "Contributi al calcolo delle variazioni" e divenne assistente del grande matematico Weierstrass.

A Vienna, Husserl ascoltando le lezioni di Brentano, rimase "folgorato": si converti' e si innamoro' della psicologia di Brentano e segui' i suoi corsi di filosofia e psicologia (dal 1884). Nel 1887, Husserl si fece battezzare per sposare Malvine Steinschneider nella chiesa evangelica luterana protestante. Nel 1891 scrisse la sua prima opera importante: "La filosofia dell'aritmetica". Nel 1896, intanto, Husserl prese la nazionalita' prussiana.

Dagli "anni degli studi filosofici" inizio' a nascere la cosiddetta "fenomenologia" di Husserl, la quale -- secondo grandi studiosi come Carlo Sini -- ha un animo doppio: c'e' l'Husserl prima del 1901 e soprattutto prima del 1913 e c'e' l'Husserl dopo queste date/fasi (dal 1901 ed in particolare dal 1913 in poi).

Gli ambiti di influenza di Husserl e della fenomenologia sono tantissimi e variegati. Husserl, con la sua opera, ha influenzato:

La matematica
La logica
La psicologia
La psichiatria (la psichiatria fenomenologica)
Le scienze cognitive (le quali rivendicano il primo Husserl, l'Husserl della logica e della matematica), l'intelligenza artificiale, la filosofia della mente
La linguistica
Le scienze umane in generale
La sociologia
Il dualismo di fondo che "scuote alle radici" la filosofia husserliana, quello che e' e sara' presente in tutta la sua opera, si puo' descrivere come un tentativo di "far conciliare/convergere" le correnti che lo hanno influenzato e che sono sempre state in lotta fino a quel momento:

Matematica VS Filosofia
Il mio problema e' l'oggetto VS Il mio problema e' il soggetto
Locke e Hume VS Leibniz e Kant
Empirismo VS Razionalismo
(Oggi, nella contemporaneita') Filosofie analitiche VS Filosofie continentali
Le fasi principali di Husserl (fatta salva la sua prima fase "formativa" da scienziato prima del 1887 e l'ultima fase -- dal 1928 alla sua morte nel 1938 -- da professore emerito perseguitato dai nazisti) sono principalmente tre:

1887-1901 > Halle > La prima fase di studio della psicologia e della filosofia. Husserl rimase folgorato da Brentano e venne seguito, nel cammino verso l'abilitazione, da un ex-studente di Brentano di nome Carl Stumpf (poi Stumpft diventera' fondatore della scuola di Berlino insieme a Wertheimer e a Koffka). Husserl seguira' Brentano ma piano piano se ne distacchera'; da Brentano "carpira'" i concetti di INTUIZIONE e di INTENZIONALITÀ DELLA COSCIENZA.

INTENZIONALITÀ DELLA COSCIENZA: Ogni atto di coscienza e' intenzionale, cioe', ha come intenzione il suo oggetto: "Se sto ricordando, l'oggetto e' il ricordo, se sto percependo, l'oggetto e' la percezione, se sto immaginando, l'oggetto e' l'immaginazione, se sto sentendo musica, l'oggetto e' la percezione musicale etc. etc".

Che cosa unifica tutte le verita' della cultura (la verita' del chimico, la verita' dell'antropologo etc.)? La coscienza! Perche' tutte queste sono forme di intenzionalita' della coscienza: il matematico "intenziona" i suoi oggetti che sono i numeri etc.

Husserl mette insieme "il fatto empirico" e "il fatto ideale" (il fatto materiale e il fatto formale, se vogliamo) e afferma che (mentre prima, dalla tradizione, essi erano stati separati l'uno dall'altro) invece essi mi si danno insieme tramite l'intuizione. Una forte unita' di "materia e forma" dove pero' la materia e' gia' forma e la forma e' gia' dentro una materia.

NESSUNO fa immediatamente esperienza dei dati sensibili: questa, secondo Husserl, e' una astrazione, una balla! Ognuno fa invece esperienza diretta e immediata di una loro interpretazione (esempio: nell'immediato, un suono e' un suono; non e' "qualcosa + un suono").

Su questa base Husserl propone una ristrutturazione, una ricostruzione della filosofia.

"Succedono" pero' alcuni "guai":

Il primo guaio era gia' successo a livello di filosofia dell'aritmetica, quando, ancora sotto l'influenza di Brentano, Husserl cercava di dimostrare quali sono i fatti psichici che poi si traducono nei numeri. Gli sforzi di Husserl sono grandi ma non sufficienti, tanto che non convincono nemmeno Husserl stesso e suscitano addirittura le critiche di tanti logici tra cui ricordiamo la critica del famoso Gottlob Frege! Frege gli fa una obiezione fondamentale: "ATTENZIONE! Il numero 3 non e' la rappresentazione psichica del numero 3! Non e' che perche' io ho una rappresentazione psichica (che ne so, "la terna" o "la trinita'") allora da qui tiro fuori per astrazione il numero 3! Il numero 3 e' il numero 3. E'una idealita' perfetta. I numeri esisterebbero anche se il mondo non ci fosse". E Husserl alla fine gli da ragione. "Si avete ragione voi logici, i numeri sono delle idealita' della percezione, idealita' dell'intenzionalita'; la matematica e' una forma, la musica e' una forma, anche se sono forme sempre incarnate" e crea questa "ontologia prima" pero' >>>
A questo punto, dopo che Husserl ha cambiato la sua visione, gli si presenta l'obiezione di Paul Natorp, il piu' alto rappresentante dei neokantiani di Marburgo. Natorp gli dice: "Tu esami l'intenzionalita' e mostri che l'intenzionalita' e' sempre una intuizione sensibile e formale, che non si sente "qualche cosa che poi diventa suono", si sente subito "qualcosa che e' un suono". Bene. Ma il suono come nasce? Quale e' il fondamento di questo esame dell'esperienza? Se e' vero che non e' questione di associazione mentale come dicono gli empiristi (secondo gli empiristi, prima ci sarebbe la materia, poi per associazione mentale dico che e' un suono; prima ci sarebbero tanti alberi, poi a furia di vederli penso che sono alberi), ma immediatamente e' in funzione la forma (come diceva Kant, con le categorie dell'intelletto che afferrano la realta' e mi fanno vedere "sostanze, cause" etc.), tu questo come lo spieghi? Come arrivi a questo risultato?
Qui arriva la rivoluzione di Husserl, la "rivoluzione trascendentale". Il ripensamento del fondamento, in una sorta di "rivoluzione idealistica" (come gli e' stato detto, anche se lui non era d'accordo con questa definizione), cioe' in un ripensamento del fondamento di quella operazione che poi da luogo alle "categorie formali dell'esperienza". Husserl si rende sostanzialmente conto che deve passare da una fenomenologia statica (che descrive le intenzionalita' e ne raccoglie le forme) ad una intenzionalita' genetica. E di qui, il capolavoro del 1913 di Husserl, cioe' l'opera "Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Volume I" (opera chiamata dagli studiosi "idee in primo").
1901-1916 > Gottinga > Dove nasce la Fenomenologia. Qui nascono le "Ricerche logiche" (prima edizione del 1900-1901) che danno fama a Husserl. Nelle "Ricerche logiche" Husserl non usa ancora la parola "fenomenologia", ma usa la parola "psicologia descrittiva". Questo libro segna la morte dello psicologismo (con buona pace del povero Brentano, il quale si ritrova dunque un allievo che "lo critica fino ad opporsi").

1913: pubblicazione di "Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Volume I". In questa opera, come gia' accennato, avviene la SVOLTA TRASCENDENTALE e nasce il SECONDO HUSSERL.

Husserl immagina un "metodo": il soggetto che descrive l'esperienza per trarne fuori la genesi delle forme ideali (per cui un suono non e' una parola etc.), deve operare in una particolare situazione di osservazione, caratterizzata da quella che lui chiamava "epoche'" o "la sospensione del giudizio". Io guardo semplicemente l'esperienza a partire da ogni giudizio gia' dato, di ogni pregiudizio, una osservazione del fenomeno per "descrivere il fenomeno cosi' come si da' e nei limiti in cui si da'".

Questa e' la RIDUZIONE TRASCENDENTALE, la quale guarda come si muove il fenomeno nella sua origine. Come si rende possibile questa osservazione? (molti discepoli qui lo abbandonarono, accusandolo di idealismo oppure accusandolo di aver ceduto a Natorp ed essere diventato un neokantiano) Husserl dice che bisogna ritornare alle operazioni costitutive: "come fa un bambino a prendere nozione dello spazio? Come in lui si sviluppano esperienze che poi egli, piu' avanti, chiamera' "spaziali"?". Qui bisogna descrivere l'incontro con il "fenomeno spazialita'" a partire da una "soggettivita' ridotta", una soggettivita' che non ha gia' deciso, che si e' purificata di ogni pregiudizio/precomprensione!

Questo "sembra" molto idealistico (nel senso di Kant o di Fichte o di Gentile), ma SEMBRA! Perche' Husserl non dice "il soggetto ridotto e' un pensiero, e' una mente", ma "il soggetto ridotto e' un corpo; il soggetto ridotto e' la pura riduzione alla corporeita'; corporeita' vivente e operante" (in tedesco = "Leib" cioe' "corpo che fa esperienza a partire da", e non "Korper" inteso come "corpo cosa"; vedi qui anche il concetto di Erlebnis in Husserl). Per cui, ad esempio, la genesi del concetto di spazio non si puo' fare senza i 5 sensi, senza gli occhi, senza le orecchie e a partire da questa "costituzione prima" dove "il soggetto ridotto e' il mondo stesso", ma il mondo cosi' come esso opera spontaneamente e non come io nei miei pregiudizi penso che operi.

Bisogna ritornare umili, bisogna tornare a guardare il mondo come uno sguardo puro, e lo sguardo puro del mondo e' il mio corpo, che e' il mondo, esso e' un "Ich Welt" = un "io mondo".

Ora, c'e' una questione fondamentale: la descrizione delle forme pure dell'esperienza ha bisogno di un fondamento (Natorp ha ragione!). Come accade che il nostro mondo e' spaziale? Come accade che il nostro mondo e' temporale? Che e' sociale? Che e' politico? Etc. etc.

Non bisogna esporre una teoria, bisogna partire da "una visione delle operazioni che e' essa stessa operativa". Bisogna fare l'epoche', liberarsi dai pregiudizi e poi bisogna descrivere in questo atteggiamento i fenomeni dell'esperienza come si danno, bisogna costruire un "sapere operativo", un "sapere di operazioni". Il filosofo, nel suo stare a guardare, deve "interrogare il fenomeno" e "far parlare il fenomeno" e questa descrizione (in atteggiamento "puro") va fatta senza sosta e continuamente (aneddoto di Enzo Paci al suo maestro Antonio Banfi: "Maestro, che cos'e' la fenomenologia?" "lo vede questo vaso di fiori? Lo descriva!"). Ad esempio, un oggetto spaziale "si adombra" (se vedo davanti non vedo dietro, se vedo a destra non vedo a sinistra) e Dio non potrebbe vederlo spazialmente, perche' altrimenti Dio "vedrebbe sempre un'altra cosa" che non e' un oggetto spaziale, e' al massimo "un'altra cosa rispetto ad un oggetto spaziale".

La fenomenologia e' dunque una operazione pratica. Nella fenomenologia, liberatici dai nostri pregiudizi (e dalla falsa coscienza di sapere le cose), ricostruiamo le origini del nostro sapere (esempio di Husserl e dell'agrimensore che passeggia sui campi e segnala col suo cammino la spazialita' di un campo e "scopre" la geometria). La fenomenologia e' un compito infinito, il progetto della fenomenologia e' "un proposito mai compiuto" in Husserl (secondo le parole di Gerd Brand).

1916-1928 > Friburgo, dopo il successo di "idee in primo", diventa la capitale della fenomenologia. Qui Husserl conosce il giovane Heidegger.

1935: dopo essere stato "allontanato" dagli ambienti tedeschi (vedi gli eventi connessi con il nazismo), da pensionato Husserl vive una nuova "svolta" coincidente con il ciclo di conferenze di Vienna e poi di Praga. In queste conferenze, dovendo spiegare che cos'e' la fenomenologia ed "improvvisando" il discorso sulla fenomenologia, si accorge di "avere in mano qualcosa di nuovo". Trovera' una via che sara', appunto, un "qualcosa di nuovo", un "piccolo inizio".

Verra' aiutato a scrivere queste nuove riflessioni e quelle che poi saranno le sue ultime righe (racchiuse nell'opera "La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale" ed incompiute) dal suo discepolo/assistente Ludwig Landgrebe, il quale gli rimarra' accanto fino alla morte.

Husserl si ammala durante questo ultimo lavoro e muore a Friburgo nel 1938.

Tutti i manoscritti di Husserl sono stati salvati da un frate francescano, padre Van Breda, il quale porto' via tutti i manoscritti dalla casa di Husserl nascondendoli sotto al bucato e trasportandoli fino in Belgio, dove si costitui' "l'archivio Husserl".

Che cos'e' "l'intuizione antica"? Il nuovo "piccolo inizio" di Husserl? L'intuizione antica e' il fatto che, se io devo descrivere geneticamente come la nostra esperienza umana si caratterizzi cosi' ben strutturata piena di forme, di categorie (categoria del ricordo, categoria dello spazio, categoria della lingua etc.), se devo fare questa operazione di ricostruire la genesi di come questo e' accaduto nella nostra esperienza, allora devo partire da un livello nel quale questo non e' ancora accaduto. Questo livello di base al quale porre le domande di "costituzione prima", sara' pre-categoriale. Io devo indagare un campo precategoriale, il quale e' originariamente la nascita stessa del mio corpo, il quale messo a contatto con il mondo e la societa', acquisisce le categorie storiche della propria cultura etc. etc. Ma per poter arrivare ad una evidenza di questa operazione, devo poter interrogare questa esperienza prima e a questa esperienza prima Husserl dava il nome di "mondo della vita" (Lebenswelt).

L'intuizione prima (quella che dice alla suora -- pur essendo Husserl agnostico -- che lo accudiva prima di morire) e' straordinaria: Husserl capisce che non si tratta, come ha pensato tutta la vita, di costruire una scienza della coscienza o una scienza del mondo della vita. No. Alla base non sta una scienza. Alla base sta l'opinione, la doxa (e non l'episte'me!).

C'e' un rovesciamento totale di 2500 anni di filosofia.

Secondo Husserl noi, con la nostra cultura, ci siamo sbagliati, perche' non ci siamo accorti che l'opinione non e' qualcosa di negativo (come invece pensavamo!).

Lo scienziato vi dira' "si, certo che si parte dalla vita, ma per abbandonarla! Per costruire un modello che e' un modello puro, sicuro che nessuno intende negare questo aspetto costruttivo della scienza". Ma poi CHE COSA STA ALLA BASE E CHE COSA CARATTERIZZA IL SUCCESSO DELLA SCIENZA? (la grande domanda di Einstein!) Perche' noi con le nostre formule matematiche in fisica riusciamo a descrivere efficacemente la natura che non e' assolutamente fatta da formule fisiche e nemmeno matematiche? Perche' il successo della scienza? La scienza non ha risposte per questo!

E allora, secondo Husserl, bisogna regredire! Regredire all'esperienza pura e quindi, in ultima analisi, a nient'altro che al mondo della doxa, dell'opinione.

Queste "opinioni" o "opinioni comuni" (il selvaggio della foresta non ha imparato da nessuna scienza a vivere nella foresta, l'uomo metropolitano non ha imparato a vivere in citta' da nessuna scienza; il padre e la madre che ti dicono "fai cosi', perche' in quell'altro modo, sbagli" non applicano una scienza esatta etc.), queste conoscenze sono verita' precisamente definite secondo le esigenze imposte dai "progetti pratici della vita". Questi "progetti pratici della vita" detengono il "senso" di queste opinioni e quindi bisogna "tornare li'".

Gli stessi scienziati non si rendono conto che loro stessi fanno uso del "mondo della vita", e della opinione, della doxa. Con cosa descrivono le loro esperienze se non con le parole e le esperienze di tutti?

Certo, bisogna farsi carico di questa "relativita'" e bisogna imparare ad orientarci in "questo fiume eracliteo, in questo mondo soggettivo inafferrabile" nel quale tutti ci muoviamo sulla base dell'opinione (perche' siamo cresciuti con gli abiti dell'opinione) [Il mondo non e' parmenideo, e' eracliteo].

Questi "abiti" sono opinioni, valgono quel che valgono, certo. Ma sono indispensabili! Sono assolutamente primari! Non insegniamo la geografia ai bambini appena nati, non insegniamo la grammatica ai bambini, gli mostriamo come si parla e come ci si muove nello spazio e questo crea le prime opinioni costanti che, piano piano, convergono verso una sapienza comune.

Quindi, che cos'e' il "mondo della vita"? Un mondo caratterizzato da qualsiasi attivita' vitale. In qualunque luogo della terra esistano attivita' vitali, questo e' il mondo della vita, e' la base sulla quale si costruiranno i saperi ulteriori. Prima c'e' la prassi, poi (per astrazione, diciamo) c'e' la teoria.

Osserviamo come siamo ben al di la' dell'Europa, al di la' di Platone, al di la' dell'occidente, in una sorta di dialogo con la cultura umana.

Questo mondo "si fa" e quindi nessuno e' il PROPRIETARIO di questo mondo! E'questa "sapienza dell'umanita'" cio' che deve diventare "oggetto" della filosofia. Un oggetto che deve essere articolato nella SUA verita', perche' la SUA verita' ci fa liberi.

Husserl e la fenomenologia in breve
La fenomenologia non e' un sistema filosofico ma un vero e proprio metodo di "ritorno alle cose stesse" ("zu den Sachen selbst!" e' il motto tedesco). I limiti dell'evidenza apodittica (di cio' che filosoficamente, essendo evidente di per se', non ha bisogno di dimostrazione, o se dimostrato e' logicamente inconfutabile) rappresentano, per Husserl, i limiti del nostro sapere.

Dunque, e' necessario cercare cose cosi' manifeste, fenomeni cosi' evidenti, da non poter essere negati. Su tali fenomeni si potra' fondare quindi la conoscenza.

Per fare cio' e' necessario mettere tra parentesi tutte le nostre convinzioni filosofiche, questa operazione viene chiamata dai fenomenologi "epoche'" (l'epoche' si presenta quindi come un vero e proprio "metodo fenomenologico di indagine").

Cio' che rimane dall'epoche' (un vero e proprio "residuo fenomenologico", come lo chiama Husserl) e' la coscienza (ritorno, se vogliamo, a Cartesio e al cogito). L'esistenza della coscienza e' immediatamente evidente. A partire da questa evidenza, il fenomenologo intende quindi descrivere i modi tipici (chiamati "coscienze eidetiche") in cui le cose e i fatti si presentano alla coscienza.

Esempi: al fenomenologo non interessa l'analisi di questa o quella norma morale, ma interessa comprendere perche' questa o quella norma sono norme morali e non, ad esempio, norme giuridiche; al fenomenologo non interessa esaminare i riti di una religione o di un'altra, egli sara' interessato a capire che cos'e' la religiosita'.

L'opera del fenomenologo e' quindi una vera e propria scienza di essenze. Ad esempio, noi distinguiamo un testo magico da un testo scientifico, ma come facciamo a fare questo se non perche' adoperiamo delle distinzioni essenziali?

Ecco allora che possiamo capire che cos'e' la fenomenologia: una scienza, stabilmente fondata, dedicata all'analisi e alla descrizione delle essenze.

La fenomenologia si distingue dalla psicologia: lo psicologo infatti manipola dati di fatto e studia fatti particolari mentre il fenomenologo manipola essenze e studia idee universali, egli non si interessa del comportamento morale di una persona ma vuole conoscere l'essenza della moralita'.

Cosa sono le essenze?
Le essenze sono evidenze apodittiche. Le evidenze apodittiche (cio' che, lo ricordiamo, e' filosoficamente evidente di per se', e non ha quindi bisogno di dimostrazione, o se dimostrato e' logicamente inconfutabile) non sono solo i principi logici, ma anche le leggi di base della matematica pura. Inoltre, oggetti ideali sono anche l'idea di rosso o di altezza o anche proposizioni come "il rosso e' un colore" o "l'altezza non e' un colore", delle idee la cui validita' non dipende dai dati di osservazione.

In un fatto si coglie sempre un'essenza, secondo Husserl. L'individuale si annuncia alla coscienza attraverso l'universale (il fenomeno individuale appare alla coscienza come necessariamente legato alla rispettiva essenza). Quando la nostra coscienza coglie un fatto qui e ora, essa coglie anche la rispettiva essenza, il "quid" di cui questo fatto particolare contingente e' un caso particolare: questo e' un caso particolare dell'essenza colore, questo e' un caso particolare dell'essenza suono etc. Le essenze sono quindi i modi tipici di apparire dei fenomeni.

Ad esempio, non estraiamo l'idea o l'essenza di triangolo dalla comparazione di piu' triangoli, ma tutti i triangoli che ci appaiono sono casi particolari dell'idea di triangolo. Insomma, per comparare piu' fatti bisogna aver colto gia' un'essenza, cioe' un aspetto per cui essi sono simili.

La conoscenza delle essenze e' una intuizione, ma e' una intuizione distinta da quella che ci permette di cogliere i fatti singoli ed Husserl la chiama "intuizione eidetica".

Ma come si ottengono queste essenze invarianti? Di un concetto che si vuole spiegare si prende un determinato esempio e si introducono poi, a mano a mano, variazioni nelle proprieta', fino a che si giunge a quel punto in cui non si puo' piu' variare. Questa tecnica era gia' stata utilizzata da Cartesio nella seconda Meditazione [Cartesio, Meditazioni metafisiche] (esempio del pezzo di cera che ha un certo odore e una certa forma ma se scaldato cambia le proprieta'; qui la conclusione finale e' che l'estensione e' l'essenza della materia).

Queste essenze non vivono solo all'interno del mondo percettivo; anche dei fatti come ricordi, le speranze e il desiderio hanno la loro essenza, si presentano cioe' alla coscienza in modo tipico (per approfondire, vedi il concetto di "ontologie regionali"). Ad esempio, la memoria si presenta alla coscienza in maniera differente dalla percezione.

L'intenzionalita' della coscienza, il ruolo del fenomenologo e l'epoche'
La caratteristica fondamentale della coscienza e' l'intenzionalita'. La coscienza, infatti, e' sempre coscienza di qualche cosa. Quando percepisco, o immagino, o penso, o ricordo, io percepisco, immagino, penso, o ricordo qualcosa. La coscienza e' quindi una sorta di palcoscenico, che va svuotato per evitare che la rappresentazione successiva sia "traviata" dalla rappresentazione precedente.

Cio' che conta per il fenomenologo e descrivere quello che effettivamente si da' alla coscienza, la cosa che nella coscienza si manifesta, nei limiti in cui tale cosa si manifesta.

"Ogni intuizione che presenta originariamente qualche cosa e' di diritto fonte di conoscenza; tutto cio' che si offre a noi originariamente nell'intuizione (che ci si offre, per cosi' dire, in carne e ossa) deve essere assunto cosi' come si offre, ma anche soltanto nei limiti in cui si offre". HUSSERL E., Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano, 1968.

L'epoche' richiama certamente il dubbio scettico o il dubbio cartesiano, tuttavia, non significa propriamente dubitare. Fare epoche' vuol dire piuttosto sospendere il giudizio su tutto quello che innanzitutto ci dicono le dottrine filosofiche con i loro spesso inconcludenti dibattiti metafisici, su quanto dicono le scienze, su quello che ognuno di noi afferma e presuppone nella vita quotidiana, cioe' sulle credenze che intessono l'atteggiamento naturale (come lo chiama Husserl). Ad esempio: dalla mia persuasione che il mondo esiste non debbo dedurre nessuna proposizione filosofica, per la ragione che l'esistenza del mondo, al di fuori della coscienza che l'avverte, non e' affatto indubitabile. Il fenomenologo quindi non nega l'esistenza del mondo ma la mette tra parentesi, come se non ci fosse.

Ma in questa ottica esiste qualcosa di cui non si puo' dubitare? Si', ed e' la coscienza.

Il mondo, dice Husserl, e' costituito dalla coscienza, in quanto e' la coscienza che da' significato al mondo (ora resterebbe da vedere se "dare significato" vuol dire in questa ottica "creare" il significato o diversamente "rivelarlo"; Husserl non e' sempre chiaro su questo punto e pare oscillare, nei suoi periodi filosofici, tra uno e l'altro significato).

"Sono io quello che esercita l'epoche', sono io che interrogo il mondo come fenomeno, quel mondo che vale ora per me nel suo essere e nel suo essere tale con tutti gli uomini che esso comprende, dei quali sono cosi' pienamente certo; dunque io che sto al di sopra di ogni ente naturale che ha senso per me; io che sono il polo soggettivo della vita trascendentale nella quale in primo luogo il mondo ha senso per me puramente come mondo: io nella mia piena concretezza abbraccio tutto cio'". HUSSERL E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Parte terza 54-b.

In quanto uomo, il filosofo crede nell'esistenza del mondo e non puo' fare a meno nella vita pratica di credere in molte altre cose, ma come filosofo non puo' partire da esse. L'essere umano non puo' partire nemmeno dai risultati della ricerca scientifica, poiche' le scienze, pur procedendo nel loro ambito criticamente e rigorosamente, interpretano (accettandoli "ingenuamente") i dati dell'esperienza comune, senza chiedersi se questi resistono alla pressione dell'epoche', cioe' se siano dati indubitabili (e se non lo facesse non sarebbe scienza!). L'essenza del mondo, percio', non costituisce un problema per il fenomenologo, in quanto essa "e' sempre la'".

Ecco il problema che vuole risolvere il fenomenologo con l'epoche': quale e' il significato, il fine del mondo per me, prima di tutto e originariamente, e poi per tutti i soggetti?

La crisi delle scienze e il mondo della vita
Secondo Husserl, il concetto positivistico di scienza ha lasciato cadere tutte quelle questioni che sono i problemi ultimi e supremi. La crisi delle scienze, pertanto, e' "la caduta dell'intenzionalita' filosofica", e' la "caduta nel naturalismo", la riduzione della razionalita' a razionalita' scientifica.

E cosi' il "categoriale", cioe' le categorie scientifiche, si sostituisce al concreto, al pre-categoriale, vale a dire al mondo-della-vita (Lebenswelt). Il mondo della vita e' l'ambito delle nostre originarie "formazioni di senso", e' l'insieme delle operazioni svolte prima della nascita della scienza (per approfondire, vedi il concetto di "intuizione originaria"): come faccio a conoscere il mondo e a vedere appena nato se non ho mai letto nessun manuale di ottica? Come faccio ad imparare ad andare in bicicletta anche se non ho la minima idea di come la bicicletta funzioni e di quali leggi ne regolino il funzionamento?

La geometria (e' questo un celebre esempio di Husserl) ha alle sue spalle tutto un mondo di percezioni, di misure effettuate per tentativi con lo sguardo oppure camminando sul terreno; lo storico presuppone, nell'esame tecnico dei documenti, tutto un mondo di intenzionalita' comunicative e significanti; il giurista lavora scientificamente sui codici. Ma dietro di loro pullula il mondo umano dei bisogni, dei sentimenti, delle esigenze, delle finalita' e delle intenzioni.

Ebbene, il dramma dell'epoca moderna e' il dramma che comincio' con Galileo: egli ritaglio' dal mondo-della-vita la dimensione fisico-matematica, e questa poi venne considerata come vita concreta. Certo, la filosofia riconosce la funzione della scienza e della tecnica, ma la funzione della filosofia (scrive anche Enzo Paci) e' quella di "liberare la storia dalla feticizzazione della scienza e della tecnica".La riduzione trascendentale, dunque, deve essere ripresa (in continuazione) e non potra' mai essere considerata come "completamente compiuta". In tal modo, la filosofia che porta alla scoperta del fatto che ogni oggettivita' non e' assoluta ed e' superabile, e' il senso




N° Post: 408
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 12:28:29 PM


Husserl e Searle su intenzionalita' e coscienza: la fenomenologia e' veramente un'illusione?




Edoardo Fugali

Aim of this paper is a comparison between Husserl's account of intentionality and consciousness and Searle's one, particularly concerning their essential relationship. While Husserl insists on the autonomy of both terms and their irreducibility to the ontological region of natural world, Searle turns his efforts to reconcile this feature with the possibility of explaining it within a naturalistic worldview. After discussing Searle's objections against phenomenology and its method, I try to demonstrate that Searle's naturalism is not consistent even in his moderate version. Instead of this I prefer to rehabilitate a "classical" account of intentionality like Husserl's one, since it provides a more sophisticated ontological framework and is therefore more able to take into account the normative dimension of subjectivity and personal identity.


Husserl: il legame essenziale tra coscienza e intenzionalita'
I caratteri strutturali dei vissuti intenzionali
La tematica del riempimento
Coscienza e intenzionalita' nella prospettiva naturalistica di J. Searle
I limiti del naturalismo di Searle e le ragioni della fenomenologia : un bilancio

In questo saggio intendo porre a confronto le tesi di Husserl e di Searle sull'intenzionalita' e la coscienza, con particolare riguardo alla messa in rilievo della connessione essenziale che i due termini intrattengono reciprocamente. La prima parte del saggio sara' dedicata a un'analisi testuale dei luoghi canonici in cui Husserl espone nella sua forma compiuta la teoria del riferimento intenzionale e la concezione fenomenologica della coscienza (la quinta Ricerca logica e il primo libro di Idee). In particolare, intendo soffermarmi sui seguenti punti:

la discussione dei tre significati fondamentali del termine "coscienza" condotta nelle Ricerche logiche -- come compagine fenomenologica dell'io empirico, come percezione evidente dei propri vissuti, come vissuto intenzionale;

la ridefinizione in senso trascendentalistico del concetto di coscienza, che Husserl pone in atto a partire dal primo libro di Idee e la conseguente accentuazione dell'autonomia e del particolare statuto ontologico a cui la dimensione della coscienza assurge, nonche' della sua irriducibilita' alla regione ontologica del mondo naturale;

l'analisi delle caratteristiche strutturali dei vissuti intenzionali, condotta nelle Ricerche logiche sulla base della tripartizione tra oggetto intenzionale, qualita' e materia intenzionale ed essenza intenzionale, e nel primo libro di Idee secondo la distinzione noesi/noema/oggetto trascendente;

la tematica del riempimento delle intenzioni significanti ad opera degli atti intuitivi, che Husserl affronta in risposta alla questione relativa alla rispondenza degli atti intenzionali alla realta' oggettiva.

2Nella seconda parte, esporro' le tesi di Searle sull'intenzionalita' e la coscienza che egli elabora nel contesto teorico del suo naturalismo non riduzionistico soprattutto in Intenzionalita' e La riscoperta della mente. A questo fine, concentrero' la mia attenzione su quello che e' l'assunto-chiave della proposta teorica di Searle, ossia la compatibilita' tra la rivendicazione dell'irriducibilita' dell'intenzionalita' e della coscienza come caratteristiche intrinseche degli stati mentali, dotate di un'ontologia alla prima persona, e la possibilita' -- ammessa in via di principio -- di una loro spiegazione esaustiva in conformita' ai principi fondamentali dell'ontologia fisicalistica. In questo senso, tanto l'intenzionalita' quanto la coscienza sono proprieta' biologiche di alto livello, causate e realizzate nella struttura materiale del sistema nervoso. Passero' quindi ad esaminare l'analisi delle caratteristiche strutturali degli stati intenzionali, con particolare riguardo alla distinzione tra contenuto rappresentativo e modo psichico, alla tematica delle condizioni di soddisfazione a cui il contenuto rappresentativo soggiace, alla caratterizzazione della percezione e della credenza come stati intenzionali fondamentali, dotati di valore posizionale e al problema della causalita' intenzionale. A titolo conclusivo, mi soffermero' sulle obiezioni critiche che Searle rivolge contro la fenomenologia e il suo metodo, che egli muove in risposta a quanti hanno ritenuto di intravedere delle sostanziali affinita' tra la sua concezione dell'intenzionalita' e quella proposta da Husserl.

3Nella parte finale, verra' intrapreso un confronto critico tra le posizioni di Husserl e di Searle, in cui si terra' conto delle obiezioni che Searle stesso rivolge contro la fenomenologia. Scopo precipuo di questa operazione sara' mettere in evidenza come il naturalismo di Searle sia inconsistente, sia pure nella versione moderata che egli avalla, e che a fronte di tale opzione teorica la concezione "classica" dell'intenzionalita' vada senz'altro riabilitata, dal momento che essa tiene debitamente conto della dimensione normativa della soggettivita' e dell'identita' personale, sulla base dell'elaborazione di un framework ontologico estremamente sofisticato. Husserl propone infatti una vera e propria metafisica della persona, che possiamo definire nei termini di un monismo dei sostrati (individui ed eventi) integrato da un pluralismo delle essenze "corpo", "mente", "coscienza" e "mondo della vita", di cui i momenti-parte individuali costituiscono la realizzazione sul piano empirico.

Husserl: il legame essenziale tra coscienza e intenzionalita'
4In apertura della quinta Ricerca logica, prima di affrontare il tema che ne costituisce l'oggetto -- i vissuti intenzionali e i loro contenuti --, Husserl introduce una discussione preliminare vertente sul concetto fenomenologico di coscienza e sulla necessita' di differenziarlo da quello della psicologia empirica. Husserl enumera tre concetti di coscienza: 1) come compagine fenomenologica dell'io empirico; 2) come percezione evidente dei propri vissuti; 3) come vissuto intenzionale. Nel primo senso, la coscienza comprende in se stessa ogni evento psichico reale che in essa abbia effettivamente luogo. Dal punto di vista fenomenologico, il concetto di vissuto andra' considerato in quanto tale nel suo originario modo di offrirsi, ossia nel suo carattere di evidenza essenziale e a priori, a prescindere da ogni riferimento all'esistenza empirico-reale tanto degli eventi psichici e dei loro portatori, quanto degli oggetti esterni o interni (gli eventi psichici stessi) a cui i vissuti possono riferirsi. L'ordine di considerazione inaugurato dalla fenomenologia implica pertanto l'abbandono della psicologia empirica di Brentano, che equipara il contenuto intenzionale all'oggetto trascendente: occorre distinguere tra il riferimento dell'io all'oggetto empirico, cosi' come e' inteso dalla psicologia e dal senso comune, e la relazione che la coscienza, nel senso vigente in fenomenologia, intrattiene col contenuto intenzionale, che e' parte integrante ed elemento costitutivo dei vissuti.

1 Va osservato che il termine "riduzione" (Reduktion) ricorre soltanto a partire dalla seconda edizio (...)
2 Husserl 1900-01, 149.
3 Sintomatico e' a questo proposito che l'Husserl di Idee finisca con l'allinearsi su posizioni affini (...)
5Il secondo concetto di coscienza e' quello di coscienza come percezione adeguata dei propri vissuti, che vengono colti in presa diretta e immediata per cio' che essi sono di fatto e nella specifica modalita' in cui il soggetto portatore ne ha esperienza. Il carattere di evidenza della percezione adeguata rimanda a una sorta di nucleo intuitivo non afferrabile concettualmente, di cui il cogito cartesiano costituisce l'esempio paradigmatico. Come Husserl avverte esplicitamente, tale nucleo non e' assimilabile ne' all'io empirico ne' tanto meno all'io trascendentale, intesi in senso sostanzialistico, ma va piuttosto concepito nei termini di una struttura formale di auto-riferimento. Al dominio della percezione adeguata si accede una volta che sia stata effettuata la riduzione dell'io empirico all'io fenomenologico che lo costituisce1. Husserl precisa che la riduzione non si esaurisce negli stati momentanei in cui l'io si manifesta di volta in volta, ma riguarda l'intera corrente temporale dell'io empirico, che comprende i contenuti della ritenzione e della rimemorazione, nonche' i contenuti coesistenti ai dati percepiti in ogni momento attuale e in quelli passati. Il "residuo" della riduzione e' un intero fenomenologico concreto, le cui parti sono collegate in modo reciproco grazie a una relazione di "interdipendenza continua e unitaria"2. In contrasto con le filosofie di ispirazione trascendentalista -- il bersaglio polemico qui in particolare e' Natorp -- , secondo cui l'io non e' oggettivabile, in analogia all'io puro kantiano, Husserl sottolinea risolutamente la necessita' di un'apprensione oggettivante dell'io nei termini della percezione interna, ferma restando ovviamente la differenza di tale apprensione rispetto a quella che si rivolge a un oggetto del mondo esterno. La riduzione dell'io empirico -- fisico e psicologico -- all'io fenomenologico presuppone anzi quale sua condizione di possibilita' questo atto di apprensione oggettivante, che ci presenta l'io come l'unita' complessiva della coscienza dei vissuti intenzionali. L'io non e' dunque per Husserl una sorta di punto geometrico astratto e invisibile, costitutivamente sottratto a ogni possibilita' di rappresentazione, ma un'evidenza che si manifesta di fronte al nostro sguardo fenomenologico, per quanto non si offra mai nella totale pienezza delle sue determinazioni3. In altre parole, cio' che costituisce il contenuto della coscienza non e' un io puntiforme e indifferenziato, ma una totalita' unitaria internamente articolata che consta di molteplici contenuti di specie differenti, nello stesso modo in cui un qualsiasi intero e' articolato in parti. La modalita' di manifestazione principale dell'io come compagine di vissuti consiste precisamente nella struttura formale della relazione di auto-riferimento che i vissuti intenzionali intrattengono tra loro e con il soggetto che ne e' il portatore. L'io come complessione di vissuti e' dunque un'apparenza genuina, sia pure parziale, che rimanda all'intero dell'io psicologico a cui appartiene, cosi' come gli aspetti che percepiamo di una cosa si riferiscono alla cosa stessa, essendone parte integrante: tanto gli oggetti del mondo esterno, quanto l'io empirico si fenomenizzano, sia pure secondo differenti modalita' -- la percezione adeguata e immanente, che si rivolge ai vissuti di coscienza, e la percezione esterna che si rivolge agli oggetti trascendenti.

4 Husserl 1900-01, 134-161.
6Perveniamo cosi' al terzo concetto di coscienza, ossia la coscienza come vissuto intenzionale, quello fondamentale nella tripartizione offerta da Husserl. L'atto intenzionale in senso fenomenologico, che e' la specie ideale cui corrispondono i vissuti psichici reali, costituisce secondo Husserl -- che sotto questo riguardo puo' essere considerato a pieno diritto un precursore dell'internalismo -- l'origine prima del significato. Gli atti intenzionali che costituiscono il significato sono definiti da Husserl intenzioni significanti, che negli atti complessivi concreti di cui fanno parte si presentano correlate alle intuizioni riempienti, laddove il riempimento nel suo massimo grado coincide con l'evidenza (sul tema del riempimento vedi infra). Tanto l'intenzione significante, quanto l'intuizione riempiente costituiscono dunque dei vissuti-atti, diretti intenzionalmente verso oggetti: l'essenza di questi atti in quanto tali risiede in modo preminente nel loro carattere e non nel loro contenuto, ne' tanto meno nell'oggetto. E'del resto scopo precipuo della quinta Ricerca, come Husserl dichiara in apertura, mettere in luce per mezzo dell'analisi fenomenologica le caratteristiche essenziali di quel genere unitario d'atti che, all'interno della sfera dei vissuti in generale, si contraddistinguono come vissuti intenzionali. Anzitutto Husserl sottolinea che l'intenzionalita' va intesa come un contrassegno a priori dei vissuti di coscienza, che prescinde da ogni fattualita' di ordine empirico e psicologico, ma rimanda piuttosto a un genere descrittivo ideale: su di esso si fondano le specie pure della rappresentazione, del giudizio e dei moti d'animo, delle quali gli atti psichici concreti sono le effettuazioni individuali4.

Queste considerazioni sono di particolare importanza, perche' segnano la linea discriminante tra la concezione husserliana dell'intenzionalita' e quelle di indole naturalistica che si sono affermate nell'ambito delle scienze cognitive e della filosofia della mente di estrazione analitica. Significativo e' a tal proposito il rifiuto dell'identificazione empiristica dell'esperienza con lo sperimentalismo scientifico e col naturalismo, che Husserl nel primo libro di Idee avalla in modo ancora piu' netto ed esplicito di quanto non faccia nel periodo delle Ricerche. Non tutta la realta' si riduce a entita' naturali, il che richiede un ampliamento del concetto di esperienza: l'esperienza in generale, come visione originariamente offerente (nel senso del privilegiamento dell'evidenza), trascende infatti l'ambito ristretto dell'esperienza sensibile. In conformita' a questa presa di posizione, Husserl e' ben lontano dall'identificare la scienza tout court con la scienza naturale: a differenza dell'intuizione eidetica, l'esperienza sensibile si limita alla singolarita' empirica, senza rinviare ad alcuna generalita'5. Se, come abbiamo appena visto, l'intenzionalita' nel senso della fenomenologia costituisce una caratteristica essenziale e a priori dei vissuti di coscienza, essa ha ben poco a che spartire con l'intenzionalita' in senso naturalistico, che viene assimilata, sulla falsariga della psicologia empirica di Brentano, a una relazione reale, concepita in termini causalistici, tra la coscienza e la cosa intenzionata. Husserl e' esplicito su questo punto: l'essenza degli atti intenzionali risiede esclusivamente nei loro caratteri intrinseci, e a definirla non concorrono ne' l'io ne' tanto meno l'oggetto trascendente. A stretto rigor di termini, non e' appropriato parlare di un riferirsi della coscienza all'oggetto, dal momento che il riferimento intenzionale e' una funzione che compete esclusivamente all'atto, mentre potra' spettare alla coscienza tutt'al piu' in modo indiretto. Certo, al livello dell'atteggiamento obiettivo-naturale sembra ammissibile presupporre che la rappresentazione dell'io accompagni sempre ogni atto intenzionale, costituendo unitamente ad esso un ulteriore atto composto, e affermare che in tal modo l'io si riferisce intenzionalmente all'oggetto: le cose cambiano tuttavia quando ci poniamo sul piano della riflessione e della descrizione fenomenologica; la riflessione obiettivante effettuata sull'io si intreccia inestricabilmente con quella effettuata sul vissuto, modificando l'atto originario in modo tale che questo non sussiste piu' come atto immediatamente vissuto, ma come oggetto unitario di un ulteriore atto di riflessione, ovvero di un giudizio. In conclusione, il riferimento all'io non e' affatto una componente essenziale del vissuto intenzionale6. In modo analogo, ai fini di una definizione esaustiva del concetto di atto intenzionale, non ha alcun rilievo la considerazione dell'oggetto trascendente in quanto tale. Parte costitutiva del vissuto e' propriamente il contenuto e non l'oggetto, come dimostra il semplice fatto che contenuti differenti possano riferirsi a uno stesso oggetto, mentre uno stesso contenuto puo' essere comune a diversi oggetti. D'altra parte, occorre sottolineare che il vissuto si costituisce in un'unita' d'atto, consistente appunto nel riferimento all'oggetto, non riducibile ai suoi contenuti isolatamente presi, che possono essere definiti i caratteri intenzionali degli atti, come e' dato di notare in particolare nel caso della percezione. La percezione e' un atto unitario che coglie l'oggetto, lo "appercepisce", in virtu' di una sorta di eccedenza data proprio dalla sua direzionalita', dal suo "riferirsi a...", ma non si riduce alla somma delle sensazioni che la compongono. Le differenze che possiamo notare tra gli atti intenzionali sono da ricondurre al contenuto: si tratta qui di differenze d'ordine descrittivo tra modi di apprensione, e non di differenze dell'oggetto. All'inverso, il fatto che noi appercepiamo un oggetto nella sua identita' e' addebitabile a un carattere del vissuto che risiede interamente nel contenuto e costituisce la coscienza in quanto "coscienza di...", e non ha nulla a che vedere con l'identita' dell'oggetto trascendente ut sic. Percepiamo si' gli oggetti, ma non li "viviamo" in quanto tali, mentre per converso viviamo i momenti del contenuto, di per se stessi privi di portata intenzionale (nel caso della percezione, le sensazioni), senza pero' percepirli in quanto tali7.

8 Husserl 1913, 83-85.
8In Idee, Husserl imprime una forte accentuazione ai tratti peculiari della coscienza che ne segnano l'irriducibilita' rispetto a qualunque altro ente del mondo naturale, dando avvio a quella che a detta di molti interpreti puo' essere considerata a buon diritto la "svolta" trascendentale della fenomenologia. Mentre nelle Ricerche Logiche Husserl si era mostrato piuttosto prudente nella definizione dello statuto particolare della coscienza, limitandosi a sottolinearne la stretta inerenza ai vissuti intenzionali come loro forma unitaria di connessione e come percezione adeguata ad essi diretta, ora egli rivendica alla coscienza l'autonomia di una regione ontologica pienamente distinta da quella del mondo, e ad essa coestensiva solo nella misura in cui la costituisce come proprio correlato intenzionale. E'appunto il passaggio dalla psicologia alla fenomenologia a sancire l'accesso alla dimensione immanente della coscienza pura, intesa come sfera assoluta dell'essere, soggettivita' assoluta o trascendentale, che assurge a campo di indagine privilegiato della scienza fenomenologica. Caratteristica a tal proposito e' l'insistenza di Husserl sulla contrapposizione tra la coscienza e i vissuti puri oggetto dell'intuizione eidetica da una parte e i vissuti individuali che ne sono la particolarizzazione sul piano naturale dall'altra, da intendere nel duplice senso di vissuti rivolti a oggetti mondani reali e incorporati in organismi naturali. Come si rapporta ora la coscienza, considerata nella sua essenzialita', alla coscienza naturale e al mondo materiale di cui questa e' parte integrante? Grazie all'apporto della coscienza e al suo riferirsi al mondo materiale, considerato a prescindere da ogni intenzionalita' che vi si diriga, su di esso viene a costituirsi il mondo dell'atteggiamento naturale. All'interno del mondo naturale, coscienza e fisicita' confluiscono in un'unita' concreta dapprima nei singoli esseri psicofisici, e in seconda battuta nell'intero mondo naturale. Sotto questo riguardo, tra coscienza naturale e mondo sussiste dunque un'affinita' di essenza: nell'atteggiamento naturale, io mi trovo dinanzi un mondo di cose e mi scopro ad abitare un corpo proprio grazie all'esperienza originaria della percezione sensibile, che mi da' le cose in carne e ossa8.

Il campo trascendentale della coscienza, per contro, non e' un frammento del mondo naturale, non avendo questo che un'esistenza intenzionale, il che e' quanto segna la differenza radicale tra la fenomenologia e le scienze della natura: la considerazione naturalistica non puo' mai assurgere a presupposto della fenomenologia, ne' questa da parte sua ha come suo oggetto una parte di mondo naturale, ossia la coscienza naturale che sara' piuttosto l'oggetto verso cui si indirizzano le scienze psicologiche. In questo senso, la dimensione della coscienza pura e' perfettamente conchiusa in se stessa e autosufficiente, ma non delimitata rispetto al mondo, in quanto non presenta con esso alcuna comunanza di essenza9. La coscienza trascendentale e' la regione ontologica primitiva in cui radicano tutte le altre, che appartengono al dominio dell'essere trascendente: ognuna di esse, una volta neutralizzata, diviene oggetto di una determinata scienza fenomenologica, tanto dal lato della coscienza ad esse relativa, quanto da quello del loro modo di datita'. La coscienza naturale e' da una parte il campo d'indagine della psicologia empirica come scienza naturale, e dall'altra e' oggetto della psicologia eidetica come scienza di essenze; entrambe queste discipline sono fondate e costituite, unitamente ai loro oggetti, dalla coscienza assoluta10.

11 Ivi: 90-92, 119-121.
10E'in questo modo dunque che Husserl offre una risposta al paradosso apparente della coscienza che, come coscienza trascendentale, costituisce una sfera assoluta, e come coscienza psicologica e' trascendente rispetto alla prima, in quanto evento mondano che viene a realizzarsi in un organismo psicofisico. Alla coscienza pura e alla coscienza naturale si rivolgono due distinte forme di apprensione, ossia la percezione immanente e la percezione trascendente. A differenza che nella percezione trascendente, gli oggetti intenzionali della percezione immanente non sono gli oggetti localizzati nello spazio e nel tempo, ma i vissuti che sono inclusi nello stesso flusso di coscienza unitamente ad essa. Nella percezione immanente, o riflessione, si manifesta l'unita' immediata del percepire e del percepito in un'unica cogitatio, mentre al livello della percezione trascendente colgo la coscienza naturale nella sua intima connessione a un corpo vivente. Per quanto in se stessa non perda nulla quanto alla sua purezza e assolutezza, la coscienza si e' ora costituita in uno strato ulteriore per diventar parte del mondo naturale: essa non viene piu' appresa nella sua essenza, ma come lo stato di un soggetto umano empirico che in essa manifesta le sue proprieta' individuali. Tra la regione ontologica della coscienza e la regione ontologica della realta' sussiste dunque una differenza fondamentale, che rimanda a una necessita' incondizionata e universale e si riflette nelle specifiche modalita' di dazione dei rispettivi oggetti intenzionali, i vissuti intenzionali per la percezione immanente e gli oggetti del mondo naturale per la percezione trascendente: mentre questi si adombrano secondo le loro determinazioni sensibili, che ne costituiscono il senso e lo stile unitario attraverso una molteplicita' di percezioni, un vissuto non si adombra mai11.

I caratteri strutturali dei vissuti intenzionali
11Ritorniamo ora all'analisi della struttura dei vissuti intenzionali, condotta da Husserl nel testo della V Ricerca. Dopo aver posto in evidenza il carattere intrinsecamente unitario degli atti intenzionali, Husserl introduce l'importante distinzione tra contenuto reale di un atto e contenuto intenzionale: il primo consiste nel sistema complessivo delle parti o dei vissuti parziali che lo compongono, che e' compito dell'analisi psicologico-descrittiva enucleare, mentre il contenuto intenzionale, che emerge una volta adottato l'atteggiamento fenomenologico, mira a porre in evidenza le specie essenziali dei vissuti, dotate di validita' ideale, che si rapportano come generalita' pure e a priori ai vissuti empiricamente considerati. E'a questo punto che Husserl introduce la tripartizione tra oggetto intenzionale, qualita' e materia intenzionale ed essenza intenzionale.

12L'oggetto intenzionale e' l'oggetto trascendente, cio' che l'atto "ha di mira", che non va confuso col contenuto reale dell'atto. Occorre dunque distinguere l'oggetto nel modo in cui esso viene intenzionato (o semplicemente il contenuto) dall'oggetto intenzionato in quanto tale (o semplicemente l'oggetto), ossia il modo specifico del "dirigersi verso...", che puo' variare nell'identita' del medesimo oggetto, dall'oggetto trascendente extraintenzionale.

13La qualita' dell'atto concerne il modo del riferimento intenzionale, ossia il carattere specifico dell'atto, secondo che si tratti di una rappresentazione, di un giudizio, di un moto dell'animo e delle relative specie subordinate, mentre la materia e' il contenuto, cioe' quanto viene di volta in volta rappresentato, giudicato, sentito ecc. Atti di differente qualita' possono avere in comune un medesimo contenuto, col che non si intende sul piano della considerazione fenomenologica l'oggettualita' in quanto tale, trascendente rispetto all'atto, ma l'essere-diretto dell'atto, le cui differenze sono determinate senza residui dai corrispettivi vissuti intenzionali. Le differenze dei modi di riferimento possono ricadere dunque tanto sotto il titolo della qualita', quanto sotto quello della materia, laddove va rilevato che le prime variano in modo indipendente dalle seconde: differenti contenuti possono infatti riferirsi a una stessa oggettualita'. E'la materia cio' che in primo luogo determina il riferimento di un atto a un'oggettualita' ed esprime il contenuto fenomenologico dell'atto. La qualita' e' un momento astratto impensabile senza la materia, mentre questa da parte sua non puo' essere concepita se non nella misura in cui e' qualificata come materia di una rappresentazione, di un giudizio ecc.

12 Husserl 1900-01, 186-206.
14L'essenza intenzionale dell'atto e' costituita dall'apporto congiunto della qualita' e della materia, che e' quanto ne definisce l'identita' e la natura stessa del "riferimento a...", a prescindere da differenze fenomenologiche individuali di ordine descrittivo. Un'ulteriore specificazione dell'essenza intenzionale e' l'essenza significazionale, che caratterizza quegli atti che possono occorrere in un'espressione come atti conferitori di significato12.

13 Husserl rileva infatti come la proposta brentaniana incorra in una difficolta' essenziale, relativa (...)
14 Ivi: 264-266.
15Sulla base di questa tripartizione, Husserl introduce l'importante distinzione tra atti fondanti di base e atti fondati, sulla falsariga della classificazione brentaniana degli atti psichici in rappresentazioni, giudizi e moti d'animo, che egli peraltro sottopone a una radicale revisione. Mentre Brentano aveva individuato nella rappresentazione il livello fondamentale, rispetto a cui i giudizi e i moti d'animo sono parti fondate e non indipendenti, Husserl include invece tanto la rappresentazione quanto il giudizio all'interno dell'unica classe degli atti fondamentali. I motivi che spingono Husserl a questa mossa teorica possono essere sintetizzati come segue: se ogni atto intenzionale costituisce una specie autonoma e irriducibile a ogni altra, va rifiutata la tesi di Brentano, secondo cui la rappresentazione, intesa come atto semplice e in se' compiuto, in cui coincidono pienamente qualita' e materia, sta alla base di ulteriori atti complessi (giudizi e moti d'animo). Gli atti complessi risulterebbero dunque dall'unificazione di un momento qualitativo non-indipendente, che li qualifica come quegli specifici atti, con un atto rappresentazionale indipendente fungente da materia13. Per quanto rappresentazione e giudizio siano da distinguere sul piano dell'essenza intenzionale -- ossia del modo del riferimento --, cio' tuttavia non equivale ancora a riconoscere in essi due differenti classi fondamentali di atti. Una differenza radicale di genere riguarda la qualita' d'atto, mentre e' vero, al contrario, che tra rappresentazioni e giudizi una tale differenza qualitativa non sussiste affatto. La differenza tra rappresentazione e giudizio risiede dunque nella materia: e' a questo livello che ha luogo la modificazione di un enunciato nel suo analogo nominale-rappresentativo, mentre resta identica la qualita', e tale differenza materiale e' da addebitare a quella che Husserl chiama "messa in forma" (Formung) categoriale. In rapporto alla qualita', rileviamo dunque tra atti nominali e atti proposizionali una comunanza di genere che ci autorizza a introdurre un concetto piu' ampio di rappresentazione rispetto a quello di atto nominale, ossia il concetto di atto oggettivante. All'interno di tale ambito va tracciata la differenza tra atti posizionali e atti non-posizionali: i primi si contraddistinguono rispetto ai secondi -- che sono sotto questo riguardo assimilabili a delle "mere rappresentazioni" -- per il fatto di assumere un impegno ontologico rispetto all'esistenza effettiva degli oggetti o degli stati di cose a cui si riferiscono14.

Il genere unitario "rappresentazione" include dunque sotto di se' quei vissuti intenzionali che secondo la propria essenza qualitativa possono essere considerati come atti oggettivanti, o primari, su cui si fondano gli atti secondari quali desiderio, volizione e moti affettivi. Tale genere si ripartisce ulteriormente al suo interno secondo la differenza qualitativa tra atti posizionali e atti non-posizionali (quelle che Husserl definisce "mere rappresentazioni"). La modificazione qualitativa di un atto posizionale nel corrispettivo atto non-posizionale non comporta comunque l'emergere di una classe separata di vissuti intenzionali da intendere come "mere rappresentazioni", quasi che di ogni oggetto e di ogni vissuto potesse darsi una rappresentazione priva d'ogni valore posizionale. Husserl riformula nei termini seguenti il principio della rappresentazione come atto fondamentale: ogni vissuto intenzionale e' un atto oggettivante, oppure ha un atto oggettivante quale proprio fondamento, laddove atto fondante e atto fondato condividono la medesima materia complessiva. La funzione degli atti oggettivanti consiste nel rendere rappresentativa per tutti gli altri atti l'oggettualita', ovvero il riferimento all'oggetto cosi' come si costituisce a livello della materia, che puo' per sua parte diventare materia di un atto fondato solo tramite un atto oggettivante15.

17In Idee Husserl ritorna sull'analisi dei caratteri strutturali dei vissuti intenzionali, introducendo una serie di importanti modificazioni di terminologia e di sostanza rispetto al testo della V Ricerca. Anzitutto viene ripresa la distinzione tra i vissuti non intenzionali, detti altrimenti contenuti primari, che attengono alla materia (hyle) degli atti, e i vissuti intenzionali propriamente detti, di cui i contenuti primari sono le parti costituenti, che attengono al lato della forma (morphe'), ovvero lo strato animatore significante, grazie al quale dai contenuti primari sorgono i vissuti intenzionali: intenzionalita' equivale in questa accezione a senso, significato. E'da rilevare a tal proposito che il termine "materia" non denota piu', come nella V Ricerca, il contenuto degli atti intenzionali, nel senso del correlato oggettuale, ma gli elementi costitutivi dell'atto al livello della coscienza costituente. Il correlato oggettuale dell'atto intenzionale viene adesso designato dal termine noema, mentre il termine noesi fa riferimento a quella componente dell'atto che forma le materie in vissuti intenzionali e coincide con la sfera della coscienza, del senso e della significazione, in una parola col pensiero in generale. Tale concetto non si riferisce soltanto a una struttura fenomenologica, ma presenta anche una specifica valenza psicologica, per quanto in un senso differente da quello della psicologia empirica, che nel suo sforzo di voler prescindere dal concetto di anima finisce col ridurre la psiche a un semplice fascio di vissuti. Nella sfera noetica psichicamente intesa rientrano non soltanto i vissuti, ma anche i loro portatori reali: l'anima e' dunque una realta' di fatto, i cui stati sono i vissuti, e per nulla affatto una non ulteriormente qualificata corrente di vissuti, che dovrebbero essere le espressioni immediate di stati corporei.

16 Husserl 1913: 186-197.
18Dal punto di vista della fenomenologia trascendentale, l'introduzione del concetto di noesi e' funzionale, come si era accennato, al tentativo di dare una risposta al problema della costituzione dell'oggettivita' da parte della coscienza: e' alla noesi in quanto coscienza di... che e' infatti devoluto il compito di determinare l'unita' dell'oggetto. In altre parole, la funzione degli atti noetici -- inteso il termine "funzione" in senso teleologico -- consiste nel rendere possibile l'unita' sintetica dell'oggetto. La coscienza e' fonte di ogni senso e di ogni sintesi, e costituisce dunque un'istanza normativa ultima, irriducibile alla concezione empirica del fascio di vissuti, intesi come meri stati psichici privi di per se stessi di ogni senso. Tutte le unita' oggettuali di ogni regione ontologica e tutte le categorie si costituiscono a partire dalla coscienza e dalle sue modalita' essenziali secondo un ordine di legalita' predeterminato e necessario, che dischiude cosi' l'ambito eminente della fenomenologia trascendentale16.

17 Ivi: 198-207.
19L'analisi essenziale immanente dei vissuti deve assumerli nel suo ordine di considerazione non solo in quanto meri correlati dell'atto, ma secondo i loro specifici modi di datita' al livello dell'atto stesso (ad es. non solo il percepito, ma anche le particolari modalita' del suo darsi e il percepire come atto). Nel vissuto intenzionale sono dunque da distinguere il lato della noesi, ossia le sue componenti d'atto (parti e momenti) reali e il lato del noema, ossia i correlati intenzionali e non reali. Il noema costituisce il senso immanente al vissuto, il suo eidos, laddove per senso e' da intendersi lo strato nucleare del noema, su cui si fondano gli altri suoi momenti, mentre la coscienza, in quanto diretta verso un oggetto intenzionale (al noema) e dotata percio' di un senso oggettivo, e' essenzialmente noetica. Il noema non deve venire inteso nei termini di una seconda oggettivita' immanente che si affianchi a quella reale, effettiva, quasi ne fosse un'immagine (il che comporta, tra l'altro, l'inconveniente del regresso all'infinito: se il vissuto e' l'immagine duplicata dell'oggetto trascendente, dovrebbe ancora darsi un'immagine del vissuto e via dicendo); non abbiamo dunque per nulla a che fare con due entita' reali dotate di statuto ontologico differenziato17.

20L'intenzionalita' presenta dunque la seguente struttura tripartita:

la noesi, che comprende il vissuto in quanto atto, ossia la rappresentazione, che costituisce l'atto fondamentale su cui gli altri si fondano, e le cui specificazioni sono la percezione, il ricordo, la ripresentazione, l'aspettazione e la fantasia, il giudizio, i sentimenti, i desideri, le volizioni ecc.;

il noema, che costituisce il correlato intenzionale del vissuto; in esso distinguiamo un nucleo centrale -- vale a dire il senso, la direzione verso l'oggetto, l'oggetto stesso in quanto tale senza ulteriori caratterizzazioni, e i suoi differenti modi di datita', ossia l'oggetto in quanto rappresentato (percepito, ricordato, ripresentato, aspettato, fantasticato), giudicato, desiderato, voluto ecc., che costituiscono altrettanti strati sovrapposti, essenzialmente e specificamente differenti, del senso noematico;

l'oggetto trascendente propriamente detto, collocato nel mondo esterno.

18 Ivi: 220-223.
21Va precisato a tal proposito che il noema non e' contenuto nel vissuto come sua parte reale: cio' che il vissuto contiene realmente sono piuttosto le parti materiali, che rientrano nell'ambito della noesi. I momenti o le parti iletiche (ad es. una determinata sensazione di colore) sono dunque da distinguere dai momenti noematici, "oggettivi" (il colore noematico adombrato dai momenti iletici): lo strato iletico della noesi (che e' cio' che anima la materia e conferisce ad essa senso) si rapporta al noema come la molteplicita' all'unita' oggettuale. Alla realta' del vissuto appartengono dunque le apprensioni animatrici -- lo strato del senso e del significato -- e i momenti iletici (forma e materia, si era detto prima). Qualora la riflessione analitica si rivolga tematicamente ad essi, i momenti iletici diventano essi stessi oggetti noematici, in quanto correlati di un'ulteriore funzione noetica. Ad ogni componente reale (noetica) del vissuto corrisponde una componente oggettuale (noematica): il lato del noema -- il residuo irriducibile dell'epoche' fenomenologica -- si rapporta a quello della noesi come una sorta di alterita' irreale e trascendente. La struttura noetico-noematica qualifica in senso eminente la percezione, che, lungi dal consistere in un mero aver-presente l'oggetto, lo possiede a priori e in conformita' alla sua essenza come unita' noematica. Il noema rientra all'interno della categoria "oggetto", per quanto esso non sia un'entita' autonomamente esistente, ma piuttosto un momento o parte non-indipendente: il suo essere consiste nell'esser-percepito e, in generale, nell'essere il correlato di un vissuto18.

19 Ivi: 289.
20 Ivi: 287-295.
22Il contenuto -- che attiene al lato del noema -- costituisce il senso per il cui tramite la coscienza si riferisce al suo oggetto: "ogni noema ha un "contenuto", cioe' il suo "senso", e per mezzo di esso si riferisce al "suo" oggetto"19. Riprendendo e modificando la terminologia impiegata nella V Ricerca logica, Husserl individua nel carattere tetico (posizionale) dell'atto il corrispettivo della qualita' e nel nocciolo noematico il corrispettivo della materia, e avverte che la differenza tra contenuto e oggetto concerne tanto la noesi, quanto il noema. Per contenuto noematico si intende il complesso in se' conchiuso di predicati formali e materiali che, unitamente al "qualcosa" di cui sono le determinazioni, costituiscono il nocciolo noematico. Nel nocciolo noematico sono dunque da distinguere da una parte i differenti noemata, che corrispondono ai differenti sensi che si riferiscono a un unico oggetto, e il momento noematico centrale, ossia l'oggetto, il puro x determinabile, il puro soggetto dei predicati. Sono da distinguere a questo proposito due sensi di oggettivita': il puro oggetto noematico in quanto tale, e l'oggetto nel "come" delle sue determinatezze. Il pieno nocciolo costituisce il senso nella sua concreta pienezza, che comprende in se' le differenze della pienezza di chiarezza (cui Husserl dedica quasi per intero la VI Ricerca logica), che si aggiungono a quelle meramente qualitative e posizionali e costituiscono dunque un secondo senso di oggettivita' nel "come" delle determinatezze20.

21 Ivi: 92-97. Gia' nelle Ricerche logiche (Husserl 1900-01: 206-209) Husserl si era espresso criticame (...)
23A proposito dell'oggetto trascendente, particolare rilievo per il nostro tema assumono le considerazioni critiche che Husserl svolge contro il pregiudizio scientista che postula una differenza incolmabile tra le apparenze fenomeniche degli oggetti esterni e la loro consistenza effettiva, determinabile in via esclusiva attraverso le procedure matematico-sperimentali delle scienze fisiche. Mentre le qualita' sensibili sono degradate a semplici apparizioni della cosa "vera" della fisica, questa viene assunta come un sostrato astratto, assolutamente trascendente rispetto alla dimensione percettiva, a cui convengono esclusivamente determinazioni matematiche. Husserl avverte che non solo la cosa fisica, ma anche la cosa apparente del mondo prescientifico e' trascendente rispetto alla coscienza. Che tipo di relazione possono intrattenere due termini cosi' eterogenei -- coscienza e oggettivita' trascendente --, ammesso che essa sia possibile? Husserl fa riferimento ancora una volta alla distinzione tra percezione trascendente e percezione immanente: la cosa non viene mai colta simultaneamente nella totalita' delle sue determinazioni, ma si offre secondo una serie di adombramenti in successione continua, sempre differenti gli uni dagli altri, ossia secondo un flusso di apparenze sensibili raggruppate in generi (campi sensibili). Gli oggetti della percezione trascendente si offrono solo per adombramenti, senza mai pervenire a piena datita': ogni percezione di cosa e' circondata da un orizzonte infinito di determinabilita' che prescrive anticipatamente stile, direzione e senso di tutti i possibili, ulteriori decorsi percettivi. La percezione immanente per contro ci offre il suo oggetto in totale presenza, vale a dire che l'oggetto non si adombra secondo aspetti parziali, ma secondo differenze di chiarezza. Ora, anche la percezione trascendente coglie la cosa in se stessa, e non soltanto una sua rappresentazione, immagine o segno che sia: affermare il contrario significa negare ogni differenza tra immanente e trascendente, quasi la cosa ci fosse data attraverso intermediari omologhi ad essa fino al punto di condividerne la determinazione spaziale21.

22 Ivi: 113-119.
24In conclusione, l'oggetto fisico non e' la causa nascosta e inattingibile delle apparenze sensibili, determinabile indirettamente solo per via matematica: se ogni sostrato o causa ignoti sono per principio percepibili, sulla base del carattere motivazionale delle connessioni che le percezioni intrattengono, non sussiste eterogeneita' di sorta tra la cosa percepita e la cosa della fisica: i contenuti sensibili non sono cio' che nasconde la cosa, ma cio' in cui la cosa stessa si annuncia, vale a dire che una e una stessa cosa e' portatrice di qualita' sensibili e di proprieta' determinabili fisicamente. E'assurdo dunque istituire una relazione causale tra una realta' fisica inaccessibile ai sensi -- che resta pur sempre un costrutto razionale che affonda le sue radici nell'esperienza -- e l'apparenza sensibile, equivoco a cui si e' condotti nel momento in cui si confondono i contenuti sensibili oggettuali (gia' trascendenti rispetto alla coscienza) con i vissuti puri che li costituiscono; in altre parole, dopo aver assimilato a un'apparenza soggettiva il vissuto puro, lo si suppone causalmente determinato dall'oggetto fisico, ipostatizzato a realta' assoluta, quando non e' che il correlato intenzionale del pensiero logico. Questo fraintendimento e' addebitabile al fatto che i modelli matematici che descrivono la cosa fisica assurgono a rappresentazione simbolica di una realta' nascosta, che un intelletto onnisciente potrebbe conoscere adeguatamente, il che comporta secondo Husserl l'assurda abolizione di ogni differenza tra intuizione categoriale e intuizione sensibile: in altri termini, le nostre descrizioni matematiche vengono confuse con le proprieta' ontologiche di un oggetto in se'22.

La tematica del riempimento
23 Husserl 1900-01, 309-362.
25Nella VI Ricerca logica Husserl affronta la problematica relativa alla distinzione tra intenzione significante e intuizione riempiente, entrambi appartenenti alla sfera degli atti oggettivanti23. Questo tema assume una notevole rilevanza nel contesto della nostra indagine, dal momento che, a differenza di quanto Searle sostiene, Husserl si pone in questa sede il problema della rispondenza degli atti intenzionali all'oggettivita' trascendente in termini analoghi alla definizione delle condizioni di soddisfazione del contenuto rappresentativo proposta da Searle. Husserl prende le mosse dall'osservazione che solo alcuni generi di atti rivestono la funzione di veicolare un significato, il che non e' contestabile semplicemente facendo ricorso alla circostanza che tutti gli atti sono esprimibili. E'certo vero che l'espressione di un atto e' un atto significante, la cui funzione consiste appunto nel conferire significato all'atto espresso; cio' pero' non implica che la determinatezza specifica di quest'atto, tramite cui noi lo riconosciamo in quanto tale (come percezione, desiderio, volizione ecc.), venga assorbita senza residui nel significato dell'atto in cui esso trova espressione. L'atto in cui risiede il significato non sara' ovviamente la percezione, ma il giudizio percettivo, la cui significativita' non viene meno per il venir meno della percezione corrispondente. In altri termini, la percezione determina si' il significato, contribuisce alla sua costituzione, orientandolo verso un oggetto, ma non per questo lo contiene e lo esaurisce in se', ne' e' lecito affermare che ritroviamo questo contributo come una parte effettivamente sussistente del significato, come suo effettivo elemento costitutivo. L'atto significante, ossia l'intendere questo e quell'oggetto, si riempie nell'intuizione secondo la sua essenza intenzionale, che permane come struttura generale, unitamente al significato che essa determina, pur nel variare delle intuizioni riempienti, il che e' confermato dalla circostanza che adoperiamo espressioni indessicali come questo anche in assenza di un'intuizione adeguata corrispondente. Non solo, dunque, dobbiamo distinguere tra percezione e significato dell'enunciato percettivo, ma insistere sulla rigorosa separazione tra i due atti, nonostante il loro coincidere nell'unita' del riempimento, unita' che puo' aver luogo secondo due distinte modalita', ossia l'unita' statica del conoscere e l'unita' dinamica della coscienza del riempimento:

24 Ivi: 327.
26Secondo la prima relazione, mediata non soltanto da atti significanti, ma soprattutto da atti di conoscenza, l'atto donatore di senso si fonda sull'intuizione per potersi riferire al suo oggetto. Ci troviamo qui di fronte a un vissuto complesso, costituito da una parte da un vissuto espressivo, e dall'altra da un atto conoscitivo che si fonda sull'intuizione corrispondente ed espleta la funzione di mediare tra l'espressione animata dal senso e l'intuizione. L'atto donatore di senso e l'atto intuitivo riempiente non sono semplicemente giustapposti, ma "confluiscono intenzionalmente in un'unita' d'atto"24, ossia nel carattere d'atto del conoscere che appartiene all'essenza significazionale. E'a partire da tale atto che si fonda a priori la possibilita' della coscienza del riconoscimento attraverso la sintesi di identificazione, che ci permette di cogliere l'identita' di significato di intuizioni differenti.

27Parliamo di unita' dinamica quando a un atto significante vuoto, come un'espressione meramente simbolica, sopraggiunge l'intuizione corrispondente, dando vita a un vissuto di transizione di natura peculiare, ossia la coscienza del riempimento. Grazie agli atti di riempimento, che rientrano nella classe piu' ampia degli atti di identificazione, tra atto significante e atto intuitivo si istituisce una relazione di reciproca inerenza: l'essenza intenzionale dell'atto intuitivo viene a coincidere (in modo parziale o completo) con l'essenza significazionale dell'atto espressivo. L'unita' del vissuto di mediazione e' stavolta un'unita' dinamica perche' assume una forma processuale e si compie nel tempo, mentre l'unita' statica del conoscere si rapporta ad essa come risultato di tale processo. Come l'unita' del conoscere, cosi' anche la coscienza del riempimento e' dotata di un suo specifico carattere d'atto, cui corrisponde quale correlato oggettuale il processo di identificazione tra l'oggetto della significazione e l'oggetto dell'intuizione, mentre all'unita' del conoscere corrisponde l'identita' tra i due termini, gia' costituitasi come dato acquisito.

28La percezione, che si caratterizza per il fatto che in essa l'oggetto appare in "carne e ossa" e non in effigie, richiede una sintesi di riempimento ancora differente, ossia la sintesi di identita' della cosa. La percezione pretende di cogliere l'oggetto in se stesso -- quanto equivale a dire che essa non vuol limitarsi ad essere una mera intenzione, ma mira a un riempimento esaustivo e a fungere a sua volta da riempimento per altri atti. Di fatto tale pretesa non viene tuttavia mai soddisfatta, come mostra il caso della percezione esterna: l'oggetto viene infatti colto sempre secondo adombramenti che ne rivelano aspetti parziali, mentre altri sono intenzionati immaginativamente (ad es. quelli che sono stati percepiti in precedenza o che semplicemente si presume di percepire), o sono cointenzionati in modo non intuitivo, ma meramente signitivo, come le parti non visibili dell'oggetto (posteriori e interne). La percezione e' dunque un atto complessivo intessuto di intenzioni di statuto differente, in cui oltre alle intenzioni propriamente percettive rientrano intenzioni immaginative e signitive. Nei decorsi sintetici in cui vengono collegate queste differenti rappresentazioni, nessuna di esse, di per se stessa considerata, costituisce un riempimento delle precedenti, in quanto si limita a rivelare un aspetto parziale dell'oggetto, in modo tale che, pur essendo dotata di maggior pienezza rispetto a certe determinazioni, ne difetta rispetto ad altre. L'approssimazione all'oggetto -- che nel caso limite della percezione pienamente adeguata viene colto secondo tutte le infinite prospettive e gli infiniti adombramenti possibili -- ha luogo propriamente solo nel progredire complessivo della sintesi, che possiede pertanto una maggiore pienezza conoscitiva rispetto all'atto isolato.

29Per quanto dunque due atti possano coincidere sotto il profilo della qualita' e della materia, non per questo essi sono completamente uguali: entra in gioco, accanto alla qualita' e alla materia, un terzo momento, ossia la pienezza, giacche' il conoscere ammette dei gradi di completezza di cui qualita' e materia da sole non sono in grado di render conto. L'introduzione di questo momento segna la differenza tra la mera identificazione dell'oggetto, ossia il puro e semplice rivolgersi ad esso, e il riempimento, che implica un riconoscimento dell'oggetto nel modo della traduzione intuitiva, tale che questo ci viene offerto nella pienezza del suo "essere in se stesso" secondo differenti gradi di approssimazione. La sintesi del riempimento si caratterizza per un'essenziale asimmetria tra intenzione e riempimento: solo il secondo e' dotato di pienezza e connette il primo alla "cosa stessa", secondo una progressione continua verso il limite ideale della conoscenza assolutamente adeguata dell'oggetto.

30Tra i vari generi di atti oggettivanti (signitivi e intuitivi, che si specificano a loro volta in atti percettivi e immaginativi) e' l'intuizione a svolgere un ruolo preminente, dato che ogni riempimento puo' essere considerato come una traduzione intuitiva; in questo senso, potremmo dire che l'intenzione sta al riempimento, come il pensiero (concetto) sta all'intuizione, per quanto con cio' non si esaurisca il carattere peculiare dell'intuizione; la funzione dell'intuizione non consiste soltanto nel riempire un concetto, ne' d'altra parte il dare chiarezza a un concetto e' un'esclusiva dell'intuizione, se e' vero che essa puo' essere svolta anche da una rappresentazione signitiva. Distingueremo dunque tra una traduzione intuitiva propria, qualora il suo apporto comporti effettivamente un incremento di pienezza, e una traduzione intuitiva impropria, qualora questo non avvenga, o avvenga in modo solo apparente, come nel caso delle rappresentazioni signitive. Cio' ci consente di individuare nella pienezza una caratteristica fenomenologica degli atti intuitivi affatto inedita rispetto alla qualita' e alla materia, che purtuttavia non va considerata indipendentemente dalla materia, di cui costituisce l'integrazione. La possibilita' o l'impossibilita' degli atti proposizionali non e' dunque determinata dalla qualita' d'atto, bensi' dal riempimento in un'intuizione oggettivamente completa che condivida la stessa materia, che e' qui dunque la componente d'atto decisiva. Il riempimento presenta dunque differenti gradi di compiutezza: neanche la percezione fa eccezione, dato che la presentazione percettiva ha luogo per lo piu' nella modalita' dell'adombramento, e solo in modo discontinuo, come ostensione effettiva degli aspetti dell'oggetto in quanto tali.

Coscienza e intenzionalita' nella prospettiva naturalistica di J. Searle
25 Searle 1983, 7-8
26 Searle 1992, 10.
27 Searle 1983: 263 ss.
31Searle inaugura l'esposizione della sua teoria dell'intenzionalita' sottolineando come essa sia una caratteristica intrinseca e primitiva dei fenomeni mentali che non puo' essere scomposta mediante l'analisi logica in componenti piu' elementari, il che ha come conseguenza l'impossibilita' di una descrizione delle relazioni tra stati intenzionali e mondo che si avvalga in via esclusiva di un linguaggio non intenzionale e venga condotta dal punto di vista neutrale alla terza persona25. Tra i fenomeni mentali e' la coscienza quello principale, che in quanto tale intrattiene con l'intenzionalita' una connessione essenziale: la maggior parte degli stati di coscienza presentano infatti il contrassegno dell'intenzionalita', dal momento che, in generale, ogni stato di coscienza e' diretto verso qualcosa (che esista effettivamente o meno), e solo un soggetto in grado di intrattenere stati di coscienza puo' possedere stati intenzionali, mentre da parte loro tutti gli stati intenzionali sono consci, per lo meno potenzialmente. E'dunque sulla base di questo double-bind che agli occhi di Searle si fonda la necessita' di integrare ogni teoria dell'intenzionalita' che voglia dirsi esaustiva con una spiegazione della coscienza26. Tutti i fenomeni mentali, compresi quelli coscienti, sono dotati di una base biologica, in quanto sono causati da processi cerebrali e realizzati nella struttura fisiologica del cervello. Lungi dal costituire un'entita' volatile e misteriosa, non suscettibile di essere ricompresa in una visione scientifica del mondo, l'intenzionalita' e' una proprieta' naturale come ogni altra e quindi un fenomeno obiettivo, legittimamente sottoponibile a indagine sperimentale. I fenomeni psichici sono reali ed effettivi come tutti gli altri fenomeni biologici: ne vengono causati e li causano a loro volta. Il problema che la loro esistenza comporta non concerne tanto la relazione mente/corpo, quanto la causalita' tra il livello mentale e il livello fisico. Possiamo offrire una risposta a tale questione senza necessariamente ricadere in una teoria dell'identita', integrata nel migliore dei casi da una concezione epifenomenistica del mentale, una volta che si tenga presente che gli stati mentali sono causati da attivita' cerebrali e al contempo realizzati nella struttura del cervello27.

28 Searle 1997, 3.
29 Searle 1992, 68 ss.
32Considerazioni di tenore analogo vengono svolte a proposito della coscienza. Il riconoscimento della peculiarita' e dell'autonomo statuto ontologico delle esperienze coscienti alla prima persona e' perfettamente compatibile con l'affermazione della possibilita' di esplicitare i nessi causali che presiedono alla loro genesi a partire dall'attivita' del cervello28. Oltre che essere causati da processi neurofisiologici, i fenomeni mentali e la coscienza sono caratteri strutturali del cervello stesso, il che rende senz'altro possibile un approccio di tipo naturalistico allo studio della mente, che non ne neghi l'esistenza o non intenda ridurla in via esclusiva alla sfera corporea, al di la' dell'alternativa "secca" tra materialismo e cartesianesimo. L'odierno fisicalismo, che in sostanza rinvia alla concezione cartesiana della materia come res extensa, non e' affatto adeguato a descrivere i fatti corrispondenti alle nostre constatazioni sulla realta' fisica. L'estrema rozzezza di tale apparato categoriale induce a contrapporre a una realta' fisica concepita come materia (atomi, molecole e particelle subatomiche) il dominio del mentale, inteso in termini di realta' puramente spirituale. In realta', il modello meccanicistico sotteso alla concezione cartesiana della res extensa e' stato abbondantemente superato dalla teoria della relativita' e dalla fisica quantistica, secondo cui una particella subatomica, come ad es. l'elettrone, e' da definire in termini di relazione tra massa ed energia. La questione ontologica decisiva non e': "che generi di realta' esistono nel mondo", ma piuttosto: "come deve essere il mondo perche' le nostre constatazioni empiriche siano vere?". Il paradosso del materialismo si palesa pienamente nel momento in cui non tiene nella dovuta considerazione i contrassegni essenziali del mentale, e al contempo tenta di dar conto delle nostre intuizioni della mente in modo "scientifico". Alla base di quest'atteggiamento contraddittorio soggiace l'assunzione secondo cui ogni forma legittima di naturalismo e' incompatibile con l'accettazione della realta' e dell'efficacia causale della mente e dei suoi aspetti caratteristici; cio' perche' si ritiene che la coscienza, per il fatto di essere caratterizzata da un'ontologia soggettiva, non possa rientrare in una concezione scientifica della realta' di indole oggettivante29.

30 Searle 1983, 266-267; Searle 1992, 30-31; Searle 1997, 14.
33Dall'altra parte, quest'assunzione non implica necessariamente sottoscrivere una posizione dualistica, tanto nella versione forte del dualismo sostanzialistico, quanto in quella indebolita del dualismo delle proprieta', o l'adozione di una visione alternativa al naturalismo e al principio di completezza della fisica, quasi la coscienza fosse un'entita' assolutamente difforme nel suo modo di essere rispetto ai fenomeni indagati dalla fisica e dalla biologia. Proprio al contrario, la coscienza puo' e deve essere definita e descritta sulla base di categorie biologiche, vale a dire che essa e' un fenomeno naturale, cosi' come lo sono la digestione o la riproduzione, anche se nel caso della coscienza e' estremamente difficile stabilire sulla base di evidenze sperimentali in che modo l'attivita' cerebrale determini l'insorgenza degli stati mentali, data la complessita' della struttura del cervello e dei processi che in esso hanno luogo. Questa difficolta' in ogni caso non costituisce un'obiezione decisiva in linea di principio contro la possibilita' di definire queste relazioni, una volta che la ricerca neuroscientifica abbia raggiunto un adeguato grado di sviluppo: che noi non siamo tuttora in grado di stabilire una correlazione univoca e definita tra i due piani non dipende da limiti costitutivi, ma solo da limiti di fatto. A proposito della relazione tra mente e cervello, Searle adotta una posizione di tipo emergentista: la coscienza deriva da processi neuronali di livello inferiore e costituisce una proprieta', o piu' precisamente un livello ontologico autonomo irriducibile a tali componenti e alla loro somma, cosi' come la liquidita' dell'acqua deriva dalla sua composizione molecolare, senza che le molecole di per se stesse presentino questa proprieta'. Sotto questo riguardo, l'acqua non e' dunque nient'altro che la sua struttura molecolare, vale a dire che questa ne costituisce la realizzazione compiuta. Come la liquidita' dell'acqua consiste nella descrizione della sua struttura molecolare a un livello piu' elevato di quello della fisica, che descrive il comportamento delle sue singole molecole, cosi' gli stati mentali non sono altro che il risultato della descrizione degli stati cerebrali al livello piu' elevato della psicologia, mentre le neuroscienze studiano il comportamento dei singoli stati e processi cerebrali. Tanto nell'uno, quanto nell'altro caso, ci troviamo di fronte a una molteplicita' di relazioni causali realizzate a livelli differenti in una stessa e identica materia. Solo se teniamo presente questa compresenza di differenti livelli di causalita', possiamo comprendere come l'intenzionalita' possa agire causalmente. La relazione tra la coscienza e il suo substrato materiale e' dunque compiutamente descrivibile in termini causali. Per rendere plausibile questa posizione, Searle propone un'estensione del concetto di causalita'; una relazione causale ha luogo non solo tra eventi discreti posti in successione temporale, ma anche tra un qualunque oggetto e le sue proprieta' intrinseche30.

31 Searle 1997, 5-6.
32 Searle 1992, 32 ss.
34Precisati i termini del suo naturalismo non riduzionistico, Searle passa a prendere in considerazione le caratteristiche strutturali della coscienza e dell'intenzionalita', osservando anzitutto che la coscienza si presenta come un'entita' irriducibile ai processi cerebrali sottostanti, per di piu' caratterizzata da una duplice anomalia tanto dal punto di vista epistemologico, ossia per cio' che attiene alla possibilita' di conoscerla, quanto dal punto di vista ontologico, per cio' che attiene al suo specifico modo di essere. Gli stati di coscienza sono costitutivamente soggettivi, nel senso che sono direttamente accessibili soltanto a colui che li esperisce, e ogni tentativo di fornirne una descrizione oggettiva non puo' non alterarne la consistenza e la fisionomia originaria; in secondo luogo, la coscienza e' esattamente proprio cosi' come ci appare, vale a dire che non e' dato di riscontrare a questo livello alcuna differenza di sorta tra il modo in cui essa si manifesta e la sua effettiva consistenza ontologica, come avviene per altri fenomeni fisici, che possiamo ricondurre a un fondamento oggettivo differente dal loro modo di apparire31. La soggettivita' e' dunque una proprieta' essenziale della coscienza e degli stati mentali in generale, ed e' obiettiva nella misura in cui si riferisce a una proprieta' effettivamente esistente e non dipende dal punto di vista di un osservatore esterno. La coscienza non e' accessibile allo stesso modo a qualunque osservatore, proprio perche' caratterizzata da un'ontologia alla prima persona: ogni stato di coscienza appartiene sempre a qualcuno, il che determina una fondamentale asimmetria tra la relazione che un soggetto ha con i propri stati di coscienza e quella che intrattiene con gli stati di coscienza altrui. E'proprio il carattere soggettivo della coscienza cio' che la rende invisibile in quanto tale al proprio portatore: non posso accedere alla sua realta' allo stesso modo in cui posso accedere alla realta' dei fenomeni che essa mi consente di cogliere. Se cerchiamo di osservare la coscienza di un'altra persona, riusciamo a coglierne soltanto il comportamento conscio, la sua struttura e la relazione causale tra entrambi, ma non la sua coscienza come tale. Neanche noi stessi siamo in grado di osservare i nostri stati interni per via introspettiva, dato che non sussiste in essi differenza alcuna tra osservazione e osservato: l'introspezione e' essa stessa uno stato di coscienza come ogni altro. E'dunque impossibile riprodurre la soggettivita' come parte dell'immagine scientifica del mondo, proprio perche' essa e' condizione di possibilita' di ogni immagine. Oltre che il ricorso all'introspezione, fuorviante e' anche la metafora dell'accesso privilegiato, che presuppone l'esistenza di una sorta di spazio interno che posso osservare a mio piacimento, come se fosse qualcosa di separato da me. Tanto il modello dell'introspezione, quanto quello dell'accesso privilegiato, non offrono alcuna possibilita' di osservare in quanto tale la soggettivita' della coscienza. Cio' comunque non costituisce un ostacolo decisivo contro l'inserimento della coscienza nell'immagine scientifica del mondo: si rivela irrealizzabile l'ideale di una visione del mondo compiutamente oggettiva, che prescinda del tutto da ogni forma di soggettivita', sia in senso epistemologico che ontologico, dal momento che cio' ci renderebbe semplicemente impossibile descrivere la coscienza. La tendenza all'obiettivazione propria della filosofia e della scienza contemporanea poggia infatti sul pregiudizio secondo cui tutto cio' che e' reale deve essere accessibile a tutti gli osservatori competenti; in conseguenza di cio', si tenta di spiegare i fenomeni mentali a partire da una prospettiva neutrale, senza tener conto del fatto che il modo di essere degli stati mentali e' comprensibile solo a partire da un'ontologia alla prima persona: gli stati mentali sono sempre stati di qualcuno e sono tutti potenzialmente consci, anche se non lo sono di fatto32.

33 Searle 1983, 11-26.
35Soffermiamoci ora sull'analisi delle caratteristiche strutturali dell'intenzionalita' proposta da Searle. Ogni stato intenzionale consiste di un contenuto rappresentativo dato secondo un determinato modo psichico. Sul termine "rappresentazione", Searle introduce le seguenti precisazioni, per differenziarne la sua accezione da quella vigente nella tradizione filosofica, e in particolare nella psicologia cognitiva contemporanea. "Rappresentazione" non vuol dire affatto immagine o significato di qualcosa, ne' tanto meno una rappresentazione e' definita dalla sua struttura formale, ma semplicemente dal fatto di essere dotata di un contenuto proposizionale e di un modo psichico, laddove il contenuto proposizionale soggiace a una pluralita' di condizioni di soddisfazione e il modo psichico determina l'orientamento del contenuto proposizionale. Da un punto di vista ontologico, la rappresentazione non co




N° Post: 407
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 12:19:00 PM


La fenomenologia e la chiusura della metafisica. Introduzione al pensiero di
Husserl





di Jacques Derrida
La speculazione metafisica ha ispirato a Husserl una tenace diffidenza. Egli ha continuato a
vedervi un esercizio retorico dogmatico, una dialettica della parola, nel senso che Aristotele
attribuiva alla "dialettica" quale arte intermedia, tra la retorica e l'analitica, che ragiona su premesse
probabili e non certe. Alla speculazione metafisica Husserl ha sempre opposto la descrizione
concreta e fedele, apodittica e non sempre empirica, di quelle che chiamava "le cose stesse". Si sa
che il "ritorno alle cose stesse" fu il motivo fondamentale della fenomenologia. Il concetto di "cosa"
(Sache) ricopre tutti gli onta: cosa fisica o psichica, oggetto sensibile o intelligibile, verita' matematica
o valore morale, significato religioso o estetico, natura o cultura ecc. Ritornare alle cose stesse e'
rispettare il senso di tutto cio' che puo' apparire alla coscienza in generale, di tutto cio' che si da' e cosi'
come esso si da' "in carne ed ossa" [en personne] (leibhaftig), come cio' che e', nella sua nudita'
originaria, spogliato da ogni rivestimento concettuale posteriore e prima di essere ricoperto da
un'interpretazione speculativa. La parola "metafisica" qualifica spesso, nel linguaggio di Husserl, la
dissimulazione delle cose stesse, del loro senso autentico e originario, da parte delle dialettica
speculativa.
Questo sospetto, almeno per uno dei suoi aspetti, e' spiegabile con la situazione storica nella
quale Husserl, giovane matematico allievo di Kronecker e di Weierstrass, accede alla filosofia a
partire dal 1880, sotto l'influsso del suo nuovo maestro Brentano. Chi in Germania, all'epoca, non
considerava definitivo lo sprofondamento delle grandi metafisiche postkantiane, e dell'idealismo
hegeliano in particolare? Ma anche il positivismo trionfante e l'ottimismo scientista iniziavano ad
avere il fiato corto. La crisi della metafisica era stranamente contemporanea a una crisi della scienza
positiva, in particolare nel campo delle scienze umane, delle "scienze dello spirito", come allora
venivano chiamate. Immense ambizioni, ispirate dal modello e dal progresso delle scienze della
natura, crollavano poco a poco. La simultaneita' delle due crisi non era fortuita. Disegnava uno
spazio storico che oggi e' ancora il nostro. E'questa la ragione per cui lo sforzo di Husserl, che si e'
ostinato dalla sua prima alla sua ultima opera (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale) a rispondere simultaneamente alle due crisi, ai due fenomeni della stessa crisi, ha
segnato tutto il pensiero filosofico del nostro secolo: direttamente o indirettamente, ma sempre.
Forse non c'e' mai stato un filosofo husserliano puramente ortodosso, tutti i fenomenologi sono stati
"dissidenti", segno della fecondita' di un pensiero la cui apertura e il cui movimento non si sono mai
proposti come un sistema di dogmi, come una dottrina metafisica. E oggi non c'e' filosofo che non
definisca se stesso mediante il suo rapporto con la fenomenologia.
La risposta husserliana a quella doppia crisi fu senza dubbio rivoluzionaria o radicale. Ma come
per la maggior parte delle rivoluzioni, essa ha imboccato il cammino del ritorno a una tradizione
anteriore, la cui storia avrebbe pervertito il senso e occultato l'origine. E'sempre richiamando le
scienze positive e la filosofia alla loro vocazione originaria che Husserl le "critica", le mette in
questione o mette il loro fatto "tra parentesi". "I veri positivisti siamo noi", dice molto presto. Ed e'
alla "filosofia come scienza rigorosa" -- questo e' il titolo di un articolo del 1911 -- che sara' attribuito
il compito di una nuova critica e di una fondazione radicale delle scienze della natura e delle scienze
dello spirito. Concludendo le sue Meditazioni cartesiane, la grande opera della maturita', Husserl
contrappone ancora la metafisica autentica, quella che dovra' il suo compimento alla fenomenologia,
alla metafisica in senso abituale. Allora dice che i risultati che egli presenta sono
metafisici, se e' vero che deve chiamarsi metafisica la conoscenza ultima dell'essere. Ma non si
tratta per nulla della metafisica nel senso solito, di quella metafisica storicamente degenerata la
quale non mostra alcuna conformita' di senso con la metafisica che in origine era stata fondata
come filosofia prima. Il procedimento di giustificazione intuitiva concreta e in pari tempo
apodittica, che e' tipico della fenomenologia, esclude ogni avventura metafisica, ogni eccesso
speculativo.
Dunque, la fenomenologia appare gia' come la trasgressione risoluta e audace della metafisica (e
quindi di tutta la filosofia tradizionale, di cui essa denuncia la fine, come hanno fatto Marx,
Nietzsche e Heidegger) e come la conseguente restaurazione della metafisica. Essa fa un passo al di
la' di un certo hegelismo, in cui si raccoglie e si compie ogni storia della metafisica, per ritornare
all'origine, all'ideale platonico della filosofia come episteme e al progetto aristotelico di philosophia
prote. La nuova metafisica, nata dalla fenomenologia trascendentale, sara' scienza rigorosa e filosofia
prima. Essa comandera' l'intero sistema del sapere, assicurandogli di diritto i suoi principi e le sue
radici. La fenomenologia, "funzionaria dell'umanita'", come dira' Husserl, avra' il mandato dell'inizio --
la filosofia e' la scienza dei veri inizi, dei rizomata panteon -- e del comando: missione arcontica,
come dice un'altra frase di Husserl. Tutto l'itinerario husserliano e' segnato da quest'ambiguita': egli
ci trattiene nel campo e nel linguaggio della metafisica con quello stesso gesto che lo porta al di la'
della chiusura metafisica, al di la' dei limiti di tutto cio' che si e' difatti chiamato metafisica. I concetti
ai quali la fenomenologia ha dovuto fare appello portano il segno di questa strana situazione:
concetti tradizionali che avevano bisogno di una nuova giovinezza, concetti che e' stato necessario
risvegliare sotto la loro patina e le loro sedimentazioni storiche, che e' stato necessario virgolettare,
controllare con l'aiuto di neologismi, commentare con infinite precauzioni ecc. Senza dubbio queste
difficolta' non sono accidentali ed estrinseche rispetto all'essenza stessa del progetto husserliano.
Qual e' dunque questo progetto? Qual e' questo itinerario? Quali sono i suoi concetti?
La preistoria della fenomenologia
Perche' Husserl nel suo primo libro, Filosofia dell'aritmetica (1891), aveva richiesto alla
psicologia le risorse per una prima critica della metafisica? Senza dubbio, cosi' facendo egli seguiva
una tendenza generale dell'epoca e del suo ambiente. Ma ci si accorge anche che e' presente una
preoccupazione originaria che non lo abbandonera' mai: quella dell'origine concreta, nell'esperienza
soggettiva della percezione, dei significati ideali e degli oggetti scientifici -- in questo caso gli oggetti
aritmetici, i numeri -- che, a causa della loro esattezza e del loro valore oggettivo universale, appaiono
di diritto indipendenti, nella loro provenienza, da qualsiasi esperienza psicologica, dalla molteplicita'
degli eventi psichici, dagli atti di cui essi sono il polo. Fino a quel momento, nella storia della
metafisica, l'alternativa era stata la seguente: o non veniva rispettata la loro oggettivita' e la loro
universalita' -- iscritte tuttavia nel loro senso -- e venivano ricollegati all'esperienza sensibile, alla loro
origine psicologica; o, al contrario, per tenere conto della loro universalita', della loro necessita'
intelligibile, veniva assegnato agli oggetti ideali e alle verita' matematiche che erano il modello, un
luogo eterno al di fuori di ogni esperienza e della storia, i topos noetos platonici, l'intelletto divino
nei grandi razionalisti cartesiani, la struttura a priori dello spirito finito in Kant, nel quale la nozione
di "forme universali della sensibilita' pura" assicurava una funzione analoga. In fondo ci si era sempre
astenuti davanti alla difficile questione dell'origine: la storia della metafisica era la storia di questa
astensione. Infatti l'empirismo e il razionalismo si erano sempre oscuramente giustapposti e la loro
complicita' sara' il bersaglio di Husserl.
Cercando di descrivere, ancora da psicologo, l'origine soggettiva e percettiva del numero senza
cancellare il senso universale e ideale dei valori aritmetici, Husserl spera di scuotere o di rinnovare la
metafisica: "I risultati di questa ricerca devono essere importanti anche per la metafisica e la logica".
Gli oggetti ideali sono prodotti da atti soggettivi e non sarebbero nulla senza di essi: "Ci vediamo
costretti a dire: i numeri sono prodotti dell'atto di enumerare; i giudizi sono prodotti nell'atto di
giudicare". Attivita' psichica, pensa ancora Husserl, che in questo caso cede, in un certo senso, allo
psicologismo, che critichera' alcuni anni dopo. Ma lo si vede gia' preoccupato ad analizzare la
specificita' degli atti psichici che prendono di mira e prima di tutto hanno generato gli oggetti ideali,
permanenti e universali. D'altra parte, seguendo Brentano, egli riconosce gia' la dimensione
intenzionale della coscienza psicologica che e' sempre coscienza di qualche cosa, uscita di se' verso
l'oggetto. Infine, se l'intenzionalita' e' ancora descritta in quanto carattere reale e naturale della
coscienza -- mentre successivamente apparira' la struttura trascendentale della coscienza -- le
produzioni ideali di questa coscienza non sono situate tra gli oggetti naturali e le cose nel mondo.
Qui c'e' una rottura decisiva con l'empirismo psicologistico. "I numeri sono creazioni dello spirito,
nella misura in cui rappresentano dei risultati di attivita' che noi esercitiamo verso dei contenuti
concreti; ma cio' che creano queste attivita' non sono dei nuovi contenuti assoluti che noi potremmo
in seguito ritrovare da qualche parte nello spazio o nel "mondo esterno"; sono propriamente dei
concetti di relazioni, che possono solamente essere prodotti e mai in alcun modo trovati da qualche
parte gia' pronti".
Ma, attribuendo l'origine degli oggetti ideali a un'attivita' intenzionale reale, a eventi psichici
reali, si rischiava ancora di "realizzarli" e di "naturalizzarli", di mancare in questo modo il loro senso
ideale, la loro normativita' e il loro valore di universalita'. E'per questa ragione che Husserl, nelle
Ricerche logiche (1900-1901), rompe con la tendenza psicologistica del suo primo libro e non ne
pubblica il secondo tomo. Nella Prefazione delle Ricerche logiche egli ripercorre il cammino che lo ha
condotto ad abbandonare lo psicologismo e a intraprendere una "riflessione critica generale sul senso
della logica e soprattutto sul rapporto tra la soggettivita' del conoscere (die Subjektivität des
Erkennen) e l'oggettivita' del contenuto della conoscenza (die Objektivität des Erkenntnisinhaltes)".
Aveva appena tentato un passaggio genetico dall'una all'altro, ma "non appena si voleva effettuare
un passaggio (Übergang) dagli insiemi psicologici del pensiero all'unita' logica del contenuto di
pensiero (l'unita' della teoria), non appaiono ne' continuita' rigorosa ne' chiarezza logica". Rinunciando
allo psico-genetismo, che critichera' sistematicamente, cita Goethe: "Non si e' mai tanto severi verso
un errore come quando lo si e' appena abbandonato".
Senza dubbio questo e' un punto di svolta. Ma, tra le intenzioni fondamentali alle quali Husserl
rimane fedele, si ritrova ancora l'opposizione alla metafisica ingenua. Al momento di fondare infine
una logica pura come "epistemologia" e come "scienza della scienza", e' ancora una confusione
metafisica che egli trova davanti a se'.
E'abbastanza generalmente ammesso che, per raggiungere questo obbiettivo teoretico, si
richiedano anzitutto una classe di ricerche appartenenti al campo della metafisica. Esse hanno il
compito di fissare e verificare i presupposti metafisici indimostrati, per lo piu' anzi inavvertiti e
tuttavia importantissimi, che si trovano al fondo almeno di tutte le scienze che si rivolgono alla
realta' effettiva. Tali presupposti sono, ad esempio, il fatto che vi e' un mondo esterno, esteso
nello spazio e nel tempo, che lo spazio ha il carattere matematico di una varieta' tridimensionale
euclidea, il tempo di una varieta' unidimensionale ortoide; che tutto il divenire e' sottoposto alla
legge della causalita', ecc. In modo abbastanza improprio si suole attualmente indicare questi
presupposti, che appartengono senza dubbio all'ambito della filosofia prima di Aristotele, come
presupposti gnoseologici. Questa fondazione metafisica non basta tuttavia per conseguire
l'auspicato compimento teoretico delle scienze particolari; essa concerne comunque soltanto
quelle scienze che hanno a che fare con la realta' effettiva, e questo non e' il caso di tutte le
scienze: sicuramente non lo e' per le scienze matematiche, i cui oggetti sono numeri, varieta' e
simili, intesi come meri tramiti di determinazioni puramente ideali, indipendentemente dall'essere
o non essere reale.
In seguito Husserl rimproverera' ancora ad Aristotele, al fondatore della metafisica stessa, la
confusione metafisica di ideale e di reale. In Logica formale e logica trascendentale, al momento di
offrire un'estensione senza limite al concetto di logica formale -- e dunque di forma pura -- accusera'
tutta la tradizione (con l'eccezione di Leibniz, la cui intuizione geniale non e' stata ne' sviluppata ne'
compresa) di non essere riuscita ad accedere alla nozione di forma pura del giudizio, alla logica
orientata verso la forma vuota dell'oggetto in generale, del "qualche cosa" in generale, di
un'indeterminazione cosi' radicale da sfuggire alle categorie del reale o dell'irreale. La limitazione
metafisica di tutto il pensiero formale e' consistita in questo presupposto ontologista e realista: ci si
e' interessati all'oggetto del pensiero in generale, alle sue condizioni di possibilita', solo in quanto esso
si da' come ente reale. Gia' Platone faceva dell'idealita' dell'eidos un ontos on. Insomma, riprendendo
la questione kantiana della possibilita' di un oggetto in generale e dell'oggettivita' della conoscenza in
particolare, criticando come lui la metafisica, Husserl radicalizza il progetto critico. Kant vedeva in
effetti nelle strutture reali e fattuali dello spirito umano o dello spirito finito la condizione di
possibilita' dell'oggettivita'. Anche la sua impresa, dunque, era minacciata da quella forma originaria di
psicologismo che Husserl chiamera' lo "psicologismo trascendentale". Possiamo cosi' comprendere la
complicita' dello psicologismo e della metafisica tradizionale: un'uguale misconoscimento della
specificita' dell'idealita' e della normativita'. Cosi', quando lo psicologismo della fine del XIX secolo
(Mill, Lipps ecc.) tratta la logica come una branca o una parte della psicologia, scienza degli eventi
reali della coscienza, commette quell'errore che risponde in primo luogo a un presupposto
metafisico. Quando Lipps definisce la logica come una "disciplina psicologica", con il pretesto che il
pensiero e' pure un "evento psichico", o quando dichiara inoltre che "la logica e' una fisica del
pensiero o non e' niente", egli confonde l'atto e l'oggetto, il fatto e la norma, l'essere e il doveressere, la legge naturale e la legge logica.
Parallelamente alla critica dello psicologismo, tema centrale dei Prolegomeni, Husserl propone
una critica dell'antropologismo, individuale o specifico, che fonda una legalita' ideale su delle
strutture fattuali dello spirito umano. Lo schema della critica e' sempre lo stesso: si riduce la norma al
fatto, l'universalita' del valore a condizioni particolari, si arriva al relativismo e all'empirismo, cioe'
allo scetticismo. Ora, lo scetticismo non e' una filosofia, perche' contraddice se stesso non appena si
presenta come teoria vera e universalmente dimostrabile. Husserl dedichera' tutta la sua vita a
descrivere questo terreno di validita' universale che fonda qualsiasi esperienza e qualsiasi discorso,
per quanto scettico questo possa essere. Piu' tardi, nella Filosofia come scienza rigorosa, gli stessi
argomenti saranno opposti allo storicismo. Dilthey ne rappresenta il bersaglio privilegiato.
Anch'egli, infatti, riduce la norma al fatto, malgrado la sua preziosa distinzione tra la comprensione
nelle scienze dello spirito e la spiegazione nelle scienze della natura, malgrado il suo utile concetto di
Weltanschauung, visione totale del mondo propria a ogni epoca o comunita' e in cui la religione,
l'arte, la filosofia ecc. formano un'unita' spirituale. In effetti, la norma di verita', la pretesa alla verita',
il senso della verita' vengono persi non appena si crede di poterli fondare in una totalita' storica di
fatto (epoca, comunita', visione del mondo ecc.). La totalita' storica della visione del mondo e' finita,
mentre e' prescritto alla verita' che il suo valore sia infinito, universale, illimitato di diritto nello spazio
e nel tempo. E'sempre questa possibilita' della verita' -- la scienza e il progetto della filosofia come
scienza -- che manda in rovina lo storicismo. Quest'ultimo si contraddice pure, come ogni
empirismo, come ogni relativismo, come ogni scetticismo:
[...] ma non capisco in che modo egli [Dilthey] creda di avere ottenuto dalla sua analisi cosi'
istruttiva della struttura o della tipica delle Weltanschauungen, ragioni decisive contro lo
scetticismo.
La storia, la scienza empirica dello spirito in generale, non puo' affatto decidere da se', ne' in senso
positivo ne' in senso negativo, se si debba distinguere tra la religione come formazione culturale e
la religione come idea, vale a dire come religione valida, tra l'arte come formazione culturale e
l'arte come arte valida, tra diritto storico e diritto valido ed in ultimo tra filosofia storica e
filosofia valida [...].
Tuttavia noi rimaniamo evidentemente dell'idea che anche i principi di queste valutazioni
relative rientrano in quelle sfere ideali che lo storico che valuta, non limitandosi a comprendere i
semplici sviluppi, puo' solo presupporre ma, in quanto storico, non giustificare. La norma di cio'
che e' matematico sta nella matematica, quella di cio' che e' logico nella logica, quella di cio' che e'
etico nell'etica ecc.
Cio' non significa che Husserl escluda la possibilita' di una storia interna di queste stesse norme,
di un'origine storica di questi sistemi ideali. Questa storia e quest'origine saranno messe in questione
nella Krisis e nell'Origine della geometria. Esse sono trascendentali e non empiriche.
Queste norme, queste leggi logiche, questi oggetti ideali che formano il tessuto del linguaggio, la
grammatica pura logica che definisce le condizioni di un discorso dotato di senso, anche se e' falso
("il cerchio e' quadrato" e' una proposizione falsa ma intelligibile, essa ha un senso, e' un controsenso
-- Widersinn -- ma non un non-senso -- Unsinn; mentre "un verde e' o" non corrisponde alla
condizioni grammaticali minime di un qualsiasi linguaggio), diventano l'oggetto di lunghe e preziose
analisi nelle Ricerche logiche. Ma questi oggetti ideali di diritto sono indipendenti solo in rapporto
alle attivita' psichiche o storiche reali, fattuali, empiriche. Non essendo caduti dal cielo, non
appartenendo a un topos ouranios, sono dovuti nascere a partire da esperienze soggettive, sono
costituiti e intenzionati da una soggettivita' non empirica. Fino a quando il campo originario di questa
soggettivita' concreta non sara' stato scoperto e descritto, si potra' accusare Husserl -- cosi' come e'
stato fatto -- di logicismo e di realismo platonico. Quando egli ritornera', fin dall'ultima delle
Ricerche, all'origine intenzionale dell'oggettivita' degli oggetti, lo si accusera' al contrario, a partire
dallo stesso fraintendimento, di idealismo soggettivista.
L'epoche' e la costituzione statica
Tra l'ultimo tomo delle Ricerche, in cui compaiono i primi temi propriamente fenomenologici, e
l'elaborazione della fenomenologia trascendentale, Husserl attraverso' un periodo di profondo
scoraggiamento. Ma fu anche il momento di maturazione di quello che potrebbe essere chiamato il
discorso del metodo fenomenologico. Per riassumerle in una frase, le sue regole principali sono delle
regole di riduzione: riduzione eidetica, riduzione trascendentale.
La riduzione eidetica deve fornire l'accesso all'intuizione dell'essenza o eidos. L'essenza,
secondo la definizione metafisica tradizionale (quella di Aristotele evocata dallo stesso Husserl) e' cio'
per cui una cosa e' quella che e', l'attributo o l'insieme di attributi senza i quali essa non sarebbe cio'
che e' o non apparirebbe come cio' che essa e'. Per esempio, appartiene all'essenza di ogni corpo
l'essere esteso; non si potrebbe impedire che un corpo sia esteso senza cancellarlo come corpo.
L'estensione appartiene pertanto all'eidos generale di ogni corpo, mentre non e' cosi' per questa o
quella qualita' sensibile (colore, sapore ecc.). Questo lo posso sapere e lo posso affermare a priori, in
modo universale e necessario, dunque apodittico, senza ricorrere ad alcuna esperienza particolare.
Non ho bisogno, se non come esempio contingente, di incontrare questo o quel corpo e, al limite,
nessun corpo individuale, per avere l'intuizione dell'essenza estesa di ogni corpo in generale.
Ugualmente, appartiene all'essenza della percezione delle cose esterne e trascendenti che essa ci
mostri soltanto una o piu' facce dell'oggetto, ma mai la totalita' dei profili dell'oggetto. Husserl dice
che lo stesso Dio, se percepisse delle cose nello spazio, dovrebbe necessariamente confermare
quest'evidenza relativa all'essenza. Se si cercasse di immaginare un corpo o una percezione che si
sottrae a queste due necessita' eidetiche, ci si scontrerebbe con la coscienza di un'impossibilita'. Gli
esempi che abbiamo appena citato riguardano delle essenze la cui generalita' e' molto estesa: tutti i
corpi i quanto tali, tutte le percezioni di oggetti esterni in quanto tali. Ma ci sono delle essenze piu' o
meno generali che si riferiscono per esempio a ogni oggetto -- corporeo oppure no -- e che riguardano
solo questo o quel tipo di corpo, al limite questo corpo individuale percepito attualmente. Ogni
esistente individuale ha la sua essenza e appartiene a delle categorie o a delle regioni essenziali.
Bisognera' fare attenzione nel rispettare la gerarchia e l'articolazione delle generalita' d'essenza.
L'intuizione dell'essenza consiste a intenzionare [viser] il carattere essenziale, universalmente
evidente e a priori necessario, di ogni oggetto o categoria d'oggetto. Per fare cio', occorre "ridurre",
mettere tra parentesi, neutralizzare il fatto, l'esistenza individuale bruta, per esempio l'esistenza
contingente di questo o quel corpo, mettendo tra parentesi l'esistenza di questo corpo, la cui
esistenza e' contingente in rapporto ai predicati essenziali che posso riconoscere in esso. Posso avere
l'intuizione dell'estensione come essenza dei corpi, intenzionarla attraverso l'esempio contingente di
questo o di quel corpo, mettendo tra parentesi l'esistenza di questo corpo o, al limite, di ogni corpo
individuale. L'essenza non e' fondata in nessuna esistenza individuale. La tecnica della variazione
immaginaria, che facilita l'intuizione eidetica, consiste nel modificare con l'immaginazione i caratteri
di un oggetto, fino a quando questa o quella variazione privi l'oggetto della sua possibilita': per
esempio, posso immaginare dei corpi di ogni colore, di ogni peso ecc., ma non posso immaginare dei
corpi senza estensione. E'questo il segno per cui ho a che fare con un carattere invariante, a priori
necessario ed essenziale a ogni oggetto corporeo. La fenomenologia avra' a che fare sempre e solo con
delle essenze, essa sara' la scienza delle essenze e tutte le sue proposizioni dovrebbero dunque avere
un carattere di evidenza apodittica e incondizionata.
Ancora a questo proposito, l'indipendenza dell'essenza rispetto all'esistenza fattuale, la liberta'
dell'intuizione cui essa da' luogo, rischiano di essere interpretate come ipotesi metafisiche. Non e'
forse un'ipostasi delle essenze, un realismo platonico delle essenze, un nuovo sostanzialismo?
Anche quando ripropone il linguaggio platonico -- eidos -- o aristotelico -- ousia, quidditas -- Husserl
rifiuta vigorosamente il platonismo o il sostanzialismo. L'essenza non esiste. Essa non e' nulla al di
fuori del fatto, da cui la si puo' tuttavia separare nell'intuizione eidetica. E'una non-esistenza
originaria e irriducibile. L'estensione non e' nulla senza il corpo, ma essa non si confonde con alcun
corpo esistente. "Possono cosi' essere eliminati definitivamente e radicalmente tutti i pensieri in parte
mistici che si riferiscono soprattutto ai concetti di Eidos (di Idea) o di Essenza" (Ideen 1, § 3).
La riduzione trascendentale o epoche' fenomenologica mette tra parentesi la totalita' delle
esistenze, secondo un procedimento analogo. La totalita' delle esistenze, cioe' il mondo stesso.
Mettere tra parentesi non significa qui negare, ricusare, mettere in dubbio la sua esistenza, con uno
stile scettico o da metodo cartesiano. Non si tratta neppure di un idealismo assoluto di tipo
berkeleyano. Si tratta semplicemente di neutralizzare l'atto con cui sostengo, affermo o nego,
l'esistenza del mondo, e che metto in pratica nell'atteggiamento naturale, quello di tutti i giorni, ma
anche nell'atteggiamento dello scienziato o del filosofo classico. Con una modificazione
neutralizzante dello sguardo e mediante un atto libero che appartiene esso stesso all'essenza della
coscienza, posso sempre intenzionare il mondo e tutto cio' che accade in esso, tutto cio' che dipende
dalla sua esistenza, solo in quanto fenomeno: non come cosa o mondo che appare alla coscienza,
poiche' l'esistenza della cosa o del mondo non mi interessano piu', ma come apparire della cosa o del
mondo. La percezione di un oggetto non e' l'oggetto percepito; l'essere percepito dell'oggetto non e'
l'oggetto stesso. Smettendo di interessarmi a quest'ultimo nella sua esistenza, posso dirigere il mio
sguardo verso il suo essere-percepito o verso la percezione che ne ho. Essere-percepito e percezione
appartengono al vissuto della coscienza, il fenomeno del mondo appartiene alla coscienza, per
essenza esso non e' nel mondo. E io colgo il fenomeno in una prossimita' e in una certezza assolute e
indubitabili. Come gia' aveva detto Descartes, l'uomo che soffre di itterizia puo' sbagliarsi, giudicando
che il mondo sia giallo, non potrebbe sbagliarsi prendendo coscienza del fatto che egli lo vede giallo.
La fenomenologia, nel senso rigoroso del termine, sara' la descrizione, in termini di necessita' eidetica,
di questa esperienza fenomenica senza la quale il mondo, l'essere in generale, non apparirebbero, non
avrebbero senso e non darebbero mai luogo a un linguaggio e a un sapere. Solamente la riduzione
fenomenologica, l'epoche' che sospende la credenza o la tesi di esistenza del mondo, possono aprire
lo spazio della descrizione fenomenologica. Quest'ultima sara' inoltre trascendentale, poiche' descrive
una coscienza non-empirica, non-mondana, che e' allo stesso tempo la condizione di possibilita' di un
oggetto in generale, di un fenomeno per la coscienza in generale. Radicalizzazione dei progetti
cartesiani e kantiani, il cogito sottratto all'epoche' non e' piu' una sostanza, un'esistenza, perche' ogni
esistenza e' nel mondo; le condizioni di possibilita' dell'oggetto sono date a delle intuizioni originarie
e concrete, e non all'analisi delle facolta' formali appartenenti alla fattualita' di uno spirito finito. In
entrambi i casi e' proprio un residuo metafisico che limita il cartesianismo e il kantismo.
In un certo senso, la riduzione trascendentale e' una riduzione eidetica. Cio' che essa permette di
descrivere sara' sempre una necessita' relativa all'essenza e non una fattualita' empirica. Quest'ultima
e' in effetti "ridotta" assieme alla totalita' del mondo di cui essa fa parte. Comprendendo la riduzione
trascendentale come riduzione eidetica, si sara' certi di evitare l'idealismo empirico, questa o quella
soggettivita' reale che resiste all'ipotesi dell'annullamento del mondo (Ideen 1, § 49), poiche' essa ne
fa parte. Semplicemente l'essenza -- non l'esistenza -- della coscienza e' indipendente dall'esistenza
del mondo: e' la condizione di possibilita' dell'apparire di un mondo in generale.
La difficile problematica della riduzione e' anzi tutto esposta in Die Idee der Phänomenologie
(lezioni del 1907) e soprattutto in Ideen 1 (1913). In realta', appare ben presto il fatto che non c'e'
una sola ed unica riduzione, un solo gesto epochizzante, da compiere una volta per tutte. C'e' una
progressione infinita della riduzione, che incontra sempre sul suo cammino dei residui ingenui,
naturali e non critici, delle strutture costituite che bisogna ridurre per ritrovarne la fonte costituente.
Cionondimeno, la tappa segnata da Ideen 1, benche' rimanga preliminare, e' gia' molto importante.
Essa ci consegna una descrizione molto elaborata delle strutture piu' generali della coscienza
trascendentale, cosi' come essa si rivela in questa prima tappa della riduzione: correlazione hyle'morphe' e correlazione noesi-noema. La hyle' e' la materia sensibile del vissuto: non il colore rosso
della cosa che e' nel mondo e che si vede in questo modo escluso dalla riduzione, ma l'apparire del
rosso come pura qualita' sensibile; non la sensazione come realta' naturale, fisiologica o psicologica,
che e' anche nel mondo, ma il fenomeno vissuto che le corrisponde e che e' nel mondo. Questo
"materia" fenomenologica non e' intenzionale (il che suscitera' temibili problemi a proposito del suo
rapporto con la coscienza intenzionale). Essa appartiene realmente (reell, termine che Husserl
contrappone a real, che invece designa sempre una realta' naturale) al vissuto, alla coscienza. È
animata, attivata, da un'intenzione che le da' forma, da una morphe' che e' intenzionale e appartiene
altrettanto realmente (reel) alla coscienza. Una volta animata, essa rimanda a un oggetto fenomenico
vissuto, al noema o senso della cosa. Al noema corrisponde un atto, la noesi, che intenziona
l'oggetto. Il noema, che non e' una cosa nel mondo, ma e' il senso dell'oggetto per la coscienza (il suo
fenomeno, cio' che posso conservare nell'assenza stessa della cosa esistente) non appartiene tuttavia
realmente (reel) alla coscienza, dato che e' per essa, dato che e' il suo stare di fronte a essa. E'un
oggetto intenzionale, ma non reale, della coscienza. La noesi e' intenzionale ed e' realmente inclusa
nella coscienza. Dunque, si ottiene cosi' la differenziazione seguente: hyle' reale e non intenzionale,
noema intenzionale e non reale, morphe' e noesi intenzionali e reali (sempre nel senso
fenomenologico della parola reel).
Una volta di piu', tra le condizioni dell'oggettivita' in generale, dell'apparire del mondo in
generale, "all'origine del mondo" (Fink), si incontra una non-realta' e una non-reelta', quella del noema
che non appartiene ne' alla coscienza ne' al mondo, che non e' realmente ne' della coscienza ne' del
mondo. Per le ragioni addotte prima, la metafisica non poteva rendere conto di questo enigma.
Questo e' lo sfondamento trans-metafisico che l'epoche' ha reso possibile, nello stesso momento in
cui Husserl e' ancora obbligato a esporre il metodo nei concetti fondamentali della metafisica: eidos,
hyle', morphe', noesi, noema, epoche' ecc. Il ritorno alla lingua greca, destinato a liberare la descrizione
dalle sedimentazione che la tradizione ha depositato su ciascun concetto moderno, mostra proprio
l'ambiguita' di questa situazione.
La fenomenologia genetica
Qualsiasi presupposto metafisico sarebbe stato cancellato se le strutture della coscienza cosi'
scoperte fossero assolutamente originarie, se non fossero a loro volta costituite, dunque in un certo
senso ancora mondane. Ora, Husserl riconosce in Ideen I di dover ancora differire il problema della
temporalita' costituente della coscienza e di dover considerare ancora la temporalita' fenomenologia
come gia' costituita. Nelle Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstsein (lezioni del
1904-1905 curate da Heidegger nel 1928) aveva gia' studiato il problema della temporalita'
fenomenologica, di cui aveva fornito notevoli analisi. Ma a quel tempo si interessava soprattutto
degli oggetti temporali e affermava che "ci mancano i nomi" per descrivere quella "soggettivita'
assoluta" che e' il flusso temporale (§ 36).
Dopo Ideen I, occorreva dunque passare dalle analisi statiche alle analisi genetiche. Fu una grande
svolta nel pensiero di Husserl, ma non segno' alcuna rottura. Fu solo un progresso decisivo nel
movimento continuo di esplicitazione. La fenomenologia genetica, che mettera' l'accento su un
momento passivo della costituzione trascendentale, su quella che Husserl chiamera' genesi passiva,
si sviluppera' in molteplici direzioni.
Si trattera' innanzi tutto della genesi dell'ego stesso. Fino a questo punto, era stata considerata la
forma egologica della coscienza come costituita nel momento in cui cominciava l'analisi. Dunque, la
genesi dell'ego dovra' essere considerata come un problema: problema temibile che Husserl affronta
soprattutto nelle Meditazioni Cartesiane (1929) e in Ideen II (1912-1928). Ancora piu' difficile e' il
problema dell'origine trascendentale dell'intersoggettivita'. E'il punto su cui hanno rotto con Husserl
i filosofi contemporanei che riconoscono molto chiaramente il loro debito verso la fenomenologia
(Le'vinas, Sartre, Merleau-Ponty). Come puo' l'altro essere costituito con il suo senso d'alterita',
come fenomeno intenzionale dell'ego, all'interno della "sfera monodica" dell'ego verso la quale ci fa
ripiegare la riduzione? Tuttavia l'impossibile appare necessario: ogni senso e' senso per un ego in
generale. Nella quinta delle Meditazioni Cartesiane delle analisi minuziose e ammirevoli provano a
rispondere a questa questione e a descrivere l'enigma dell'apparizione nell'ego del senso di
qualcos'altro -- l'alter ego -- che non e' nel mondo, ma e' un'altra origine del mondo.
Era necessario rispondere a tale questione poiche' l'intersoggettivita' trascendentale e' la
condizione dell'oggettivita' in generale, dunque della scienza. E'oggettivo cio' che non solo vale per
me, ma per ogni altro da me. Affermare che l'oggettivita' ha un valore vuol dire fare appello a un
soggetto assolutamente altro. E'per questa ragione che il problema della genesi dell'alter ego e' in
rapporto, in particolare in Logica formale e trascendentale (§§ 95-96), con quello della fondazione
trascendentale della scienza e della logica come scienza della scienza. La logica formale, scienza dei
giudizi teorici riguardanti ogni oggetto possibile (l'oggetto in generale nella sua forma vuota e pura) e'
fondata in una logica trascendentale. In questa grande opera di Husserl, senza dubbio quella meglio
elaborata e piu' sistematica, siamo nuovamente rimandati alla vita della soggettivita' trascendentale
pura.
Ma il livello della logica classica e' il livello del giudizio, della predicazione oggettiva. Esso stesso
e' fondato su uno strato piu' profondo dell'esperienza, su un "logos del mondo estetico", quello della
sensibilita' e della percezione ante-predicativa. La scienza e la cultura contrassegnata dalla scienza ci
forniscono un mondo misurabile, le cui determinazioni sono esatte e sottoposte a una causalita' e a
una legalita' oggettive. Ma in quello che Husserl chiama il mondo della vita (Lebenswelt), la
percezione ci consegna delle forme non-esatte [anexactes] (il che non e' una tara, un'inesattezza), dei
contorni vaghi, uno stile di causalita' non oggettivo. E'sempre in questa esperienza percettiva e
"soggettiva relativa" che si radica la scienza, e' sempre al mondo della vita che essa rinvia in ultima
istanza. Dunque ci si dovra' chiedere in che modo l'oggettivita' e l'esattezza delle scienza nascono sul
suolo del mondo della vita. Questo ha a sua volta delle strutture essenzialmente universali che la
fenomenologia deve poter raggiungere, mettendo tra parentesi l'insieme delle proposizioni della
scienza. Le questioni che riguardano questi tre livelli (esperienza ante-predicativa, predicazione non
scientifica nel mondo-della-vita, giudizi oggettivi della scienza) vengono esposte in Erfahrung und
Urteil (redatto e curato da Landgrebe nel 1939 a partire da alcuni testi, una parte dei quali risale al
1919) e nella Krisis.
La formulazione di tali questioni fa apparire il senso di cio' che Husserl chiama la crisi delle
scienze e dell'umanita' europea, nel periodo in cui Hitler sale al potere e l'angoscia della storia si
impadronisce dell'Europa tra il 1930 e il 1939. La crisi e' sempre un oblio dell'origine. La crisi delle
scienze riguarda il fatto che l'origine e il fondamento soggettivo-relativo dell'esattezza ideale della
scienza sono state dissimulate. Le scienze hanno perso il loro rapporto con il mondo-della-vita.
Dunque noi non possiamo piu' sapere come sia stato reso possibile lo straordinario sviluppo del
progresso scientifico. Il senso della storia ci e' sottratto e il suo rapporto con l'esistenza non ci
appare piu'. Questa dissimulazione dell'origine non si e' prodotta soltanto nella scienza, ma anche,
contemporaneamente, nell'intera storia della filosofia affascinata dal modello matematico. Tutti i
tentativi di ritorno alla soggettivita' trascendentale (in Descartes, Hume, Kant) sono stati ricoperti da
quello che Husserl chiama "l'oggettivismo", in opposizione al "motivo trascendentale". La Krisis
segue questo alternarsi di svelamenti e di ricoprimenti di un motivo trascendentale che si compie
appieno solo con la fenomenologia. Compimento di un telos che aveva fatto irruzione in Europa con
l'avvento della geometria e della filosofia greche, dando cosi' il suo senso alla figura spirituale
dell'Europa. Quest'ultima non e' un aggregato geografico-politico, ma e' l'unita' di una responsabilita'
di fronte a un compito, a un progetto (Vorhaben). Senza il progetto di una scienza che produce delle
verita' universali, dunque trasmissibili all'infinito con il linguaggio e la scrittura (cfr. L'origine della
geometria), nessuna storia potrebbe aprirsi all'infinito. Il telos della ragione e' dunque la condizione
di ogni tradizione e di ogni storia pura e infinita. Questo telos che, dopo aver dormito "nella
confusione e nella notte" (della natura, dell'animalita', dell'uomo pre-europeo), ha fatto irruzione in
Europa come idea dell'infinito, e', ancora una volta, proprio il telos della metafisica come ontologia,
scienza dell'essere, linguaggio sull'essere. La metafisica e' per Husserl proprio la conoscenza
dell'essere in quanto essere: imperativo al tempo stesso pratico e teorico; la ragione teorica e' una
ragione pratica dominata dall'idea di un compito. "Per la filosofia e per la fenomenologia che
studiano la correlazione dell'essere e della coscienza, l'"essere" e' un'idea pratica, l'idea di un lavoro
infinito di determinazione storica" (Meditazioni Cartesiane § 41). Davanti alla crisi delle scienze,
della filosofia, dell'umanita', occorre dunque risvegliare questo ideale della ragione e restituirgli la sua
funzione arcontica. In questo senso il fenomenologo e' proprio il "funzionario dell'umanita'", perche'
la sola unita' di questo compito razionale puo' fondare e salvare l'unita' dell'umanita'. Questo ideale
razionale e' quello che presiede alla nascita della filosofia come metafisica. E quando Husserl svecchia
e rimaneggia in senso fenomenologico tutti i concetti fondamentali della metafisica (arche', telos,
entelechia ecc.), li impiega nel loro senso piu' pieno, nel senso ristabilito nel modo piu' pieno.
Sappiamo quanto Heidegger debba a Husserl e quanto lo deluse, allontanandosi da lui. Egli dice
che il pensiero dell'essere si e' perso, o assottigliato, o ritirato quando, con la nascita della filosofia, la
metafisica ha determinato l'essere come presenza, come prossimita' dell'ente davanti allo sguardo
(eidos, fenomeno ecc.) e di conseguenza come ob-getto. Questa determinazione dell'essere come presenza, quindi della presenza come prossimita' a se' dell'ente, come coscienza di se' (da Cartesio a
Hegel) delineerebbe la chiusura della storia della metafisica. La storia dell'essere, del pensiero
dell'essere, non si esaurirebbe in essa, la metafisica ne sarebbe soltanto un'epoca, in tutti i sensi di
questa parola (un periodo di ritiro e di sospensione necessaria cui fara' seguito un'altra epoca, dato
che la storia dell'essere e' la storia delle sue epoche). Privilegiando il linguaggio della metafisica, il
valore di certezza attribuito al fenomeno presente alla coscienza, all'oggetto noematico, alla
coscienza di se' come prossimita' a se', al presente vivente (lebendige Gegenwart) come forma ultima
e assolutamente universale della temporalizzazione e della vita della coscienza, Husserl ha forse
compiuto in questo modo un'ammirevole rivoluzione moderna della metafisica: un'uscita dalla
metafisica fuori da tutta la sua storia per ritornare alla fine alla purezza della sua origine. E'forse a
partire da qui che noi dobbiamo assumere l'epoche', l'epoche' fenomenologia e l'epoca storica che in
essa si riunisce. Cominciare a pensare la sua chiusura, cioe' il suo avvenire. Ricominciare: e' forse
quanto Husserl mormorava poco prima di morire: ... "Proprio ora che arrivo alla fine e ora che per
me tutto e' finito, so che devo ricominciare tutto da capo...".
Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr.




N° Post: 405
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 08:11:24 AM



Sul nascondimento dell'essere nella filosofia di Heidegger







Il problema fondamentale di Essere e tempo, com'e' noto, e' quello di chiarificare il "senso dell'essere". Questo problema nasce da una duplice constatazione. 1) C'e' innanzitutto il fatto fondamentale che noi comprendiamo necessariamente il senso dell'espressione 'essere'. Senza questa comprensione preliminare non potremmo in alcun modo rapportarci all'ente, ed "ente e' tutto cio' di cui parliamo, cio' a cui pensiamo, cio' nei cui riguardi ci comportiamo in un modo o nell'altro; ente e' anche cio' che noi siamo e come noi siamo"1. Questa comprensione dell'essere (Seinsverständnis) non e' una facolta' tra le altre, ma "appartiene alla costituzione essenziale del Dasein"2. Se non comprendessimo cio' che significa 'essere' non sapremmo distinguere l'essente dal non essente, non avremmo alcuna esperienza ne' di cio' che e' ne' di cio' che non e'. Non potremmo nemmeno dire che non si manifesta nulla perche', per fare un'asserzione di questo tipo, dovrebbe esserci gia' svelato il senso di "essere". "Noi possiamo cogliere gli enti in quanto tali, gli enti in quanto enti, solo se comprendiamo qualcosa come l'essere"3. La comprensione dell'essere consente ad Heidegger di circoscrivere il problema dell'essere nella sua differenza dall'ente. Non si tratta piu', come nell'ontologia tradizionale, di stabilire cio' che veramente e' e di coglierne l'essenza, ma di interrogarsi, fenomenologicamente, sul significato di cio' che noi intendiamo con la parola 'essere'. 2) Se la comprensione dell'essere e' cio' su cui si regge il nostro rapporto con l'ente, e' evidente anche come questa comprensione sia avvolta da oscurita' e indeterminatezza, per cui, ogni volta che tentiamo di spiegarci intorno all'essere stesso ( Sein selbst ), non riusciamo ad afferrare nulla. Il fatto e' "che gia' da sempre viviamo in una comprensione dell'essere" ma, nel contempo, "il senso dell'essere continua a restare avvolto nell'oscurita'"4. "Il concetto di 'essere' e' anzi il piu' oscuro di tutti"5. Tutti comprendiamo il significato di enunciazioni come "sono contento", oppure "il cielo e' azzurro" ma, se ci interroghiamo sul significato dell'e' contenuto in queste enunciazioni, la cosa sembra sfuggirci di mano "e quando ci studiamo di afferrarla si dissolve come un brandello di nuvola al sole"6.



Il problema e' dunque questo: il senso dell'essere e' manifesto e nascosto allo stesso tempo. Se da un lato la Seinsverständnis e' il presupposto ultimo del nostro sapere, dall'altro il senso dell'essere e' qualcosa di "fluttuante ed evanescente"7 che sembra sottrarsi a ogni indagine chiarificatrice. Noi comprendiamo il senso "ma non sappiamo che cosa significa 'essere'", "non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo 'e' '"8 . In Essere e tempo Heidegger parla di una "comprensione media e vaga dell'essere"9 che, piu' che rivelare, occulta il fenomeno dell'essere. Il fine dichiarato e' percio' quello di risalire, al di la' di questa comprensione media dominante (che pero' contamina anche la scienza e l'ontologia tradizionale), a una determinazione piu' genuina del senso dell'essere: "il problema dell'essere deve essere posto e portato a soluzione nella piena trasparenza di se stesso"10 .Se dopo la 'svolta' verra' abbandonato, e a ragione, qualsiasi proposito di fare piena trasparenza, sara' perche' il tema del "nascondimento" (Verborgenheit) avra' acquisito, nel frattempo, un'importanza sempre piu' grande. L'idea che l'essere abbia un'essenziale 'inclinazione' al nascondimento, o che si manifesti nascondendosi, diventera' anzi il filo conduttore per un'interpretazione unitaria dell'intera storia della metafisica.



Innanzitutto, la metafisica non presterebbe attenzione "all'avvenimento piu' degno di essere discusso, ossia al fatto che l'essere si schiude necessariamente al nostro comprendere"11. Cosi' ci si dimentica dell'essere perche' il suo concetto e' ritenuto qualcosa di ovvio e di scontato. Sicuramente l'essenza dell'essere "si e' gia' illuminata" ma "rimane ancora non problematizzata"12. La metafisica non riesce a pensare l'"essenza svelante" dell'essere: essa si rappresenta sempre e soltanto l'essente e non si rende conto che cio' e' possibile solo perche' "gia' traluce l'essere"13. Secondo questa interpretazione, cio' che dell'essere si nasconde non e' tanto la sua verita', quanto il fatto che questa verita' e' manifesta. Cio' che la metafisica non vede e' che l'essere e' manifesto e apre il nostro rapporto con l'ente. Tant'e' che Heidegger, in molti passi, parla di un senso "altamente determinato" dell'essere, di cosi' determinato da essere "quanto vi e' di piu' unico" e di autenticamente compreso14. Cio' che la metafisica dimentica di pensare e' la differenza tra l'essere e l'ente. L'essere non e' un ente, perche' e' cio' che "lascia essere" l'ente. L'essere, d'altra parte, non e' neanche nulla, perche', se cosi' fosse, non solo non ci sarebbe l'ente, ma non potremmo nemmeno avere 'notizia'o nozione del nulla. Dell'essere stesso non possiamo dire ne' che e' ne' che non e' e tuttavia, se non ne comprendessimo il senso, non potremmo ne' affermare ne' negare nulla. La Seinsfrage e' un nodo (logico?) sul quale Heidegger ha fatto inciampare il pensiero del nostro tempo, mostrando quanto concreta e determinante sia una questione cosi' apparentemente 'scolastica'. Che questa questione sia stata dimenticata dipende anche - cosi' almeno talvolta lascia supporre Heidegger - da un progressivo 'indebolimento' che il senso dell'essere avrebbe patito nel corso della storia occidentale. Se oggi la parola 'essere' e' un semplice flatus vocis, con un significato tanto vago quanto apparentemente superfluo, e' "perche' siamo caduti fuori dal suo significato e non riusciamo a ritrovarne l'accesso"15 .



Ma il fatto di ritirarsi nel non appariscente e di rendersi quasi invisibile al pensiero e' solo un aspetto della Verborgenheit dell'essere. Rimane sempre da spiegare perche', una volta individuatane l'importanza 'fondatrice', sia cosi' difficile afferrare e chiarire il senso dell'essere. Per quale motivo, ogni volta che tentiamo di rappresentarci l'essere, non riusciamo ad afferrare nulla? Questa impasse, per Heidegger, non dipende da un'insufficienza del nostro pensiero ma e' da ascriversi interamente alla struttura dell'essere. L'essere "inclina di per se' all'autonascondimento"16, ama ritirarsi in una dimensione di oscurita' e di mistero in cui il pensiero non lo puo' seguire. In questo caso cio' che si nasconde non e' piu' la forza svelante dell'essere ma la sua stessa verita'. A nascondersi, cioe', non e' piu' il fatto che l'essere e' manifesto; a nascondersi e' proprio l'essenza dell'essere: " questo illuminante mantenersi in se' con la verita' della propria essenza possiamo chiamarlo l'epoche' dell'essere"17. Heidegger evidentemente suppone che l'essere abbia una verita' propria che non coincide solo col suo esser differente dall'ente. L'idea che l'essere sia concepibile solamente come Differenza, sulla quale hanno insistito tanti interpreti, non esaurisce certamente il problema della Seinsfrage. Bisogna che l'essere abbia un'essenza propria affinche' questa possa nascondersi. Sono famose le pagine dell'Introduzione alla metafisica in cui Heidegger, partendo dall'ambiguita' del verbo scheinen (presente anche nell'italiano 'apparire'), sostiene che l'essere appare - nel senso che si mostra e 'risplende' - solo in quanto e' costantemente esposto al rischio di trasformarsi in semplice 'parvenza'. L'essere propende a nascondersi "sia nel grande occultamento e silenzio, sia nella piu' superficiale finzione e dissimulazione"18.



La tesi che la "verita' dell'essere" si nasconda, o che si dia in modo velato o parziale, implica che essa venga sostanzialmente fraintesa dal pensiero. Dire infatti che l'essere si nasconde, significa dire che il pensiero non puo' coglierlo se non in modo inadeguato. L'essenza dell'essere rimarrebbe sempre al di la' del modo in cui viene intesa. Si introduce qui una frattura tra il modo in cui l'essere appare, e cioe' viene compreso, e il modo in cui esso e'. Che altro significa parlare di un 'enigma' dll'essere19 se non suggerire l'ipotesi che, dietro a cio' che si mostra e che noi comprendiamo, si celi dell'altro? L'essere, percio', non sarebbe solo dimenticato ma anche essenzialmente frainteso. O perlomeno colto in maniera parziale, dato che parte della sua verita' sarebbe sepolta in "tesori non ancora scoperti"20 che attendono solo di essere ritrovati. La velatezza dell'essere puo' avere vari significati: puo' voler dire che l'essere si manifesti solo in parte, oppure addirittura che si mostri per quello che non e'. In ogni caso, abbiamo visto, essa presuppone una differenza tra il modo in cui l'essere e' e il modo in cui esso appare. Questa idea e' del tutto inaccettabile, proprio perche' la differenza tra essere e apparire si fonda sul senso dell'essere cosi' come appare, e quindi non e' applicabile all'essere stesso. L'essere non puo' apparire che cos'i' com'e' e non puo' essere altro da come appare, perche' l'idea stessa di 'apparenza', cioe' la possibilita' che qualcosa possa manifestarsi altrimenti da com'e', e' interamente contenuta e prescritta dall'essere cosi' come ci appare. Per questo stesso motivo la verita' dell'essere e' necessariamente cosi' come noi la intendiamo, perche' l'ipotesi che una parte di essa sia nascosta, proviene dalla comprensione dell'essere che noi di fatto abbiamo. La verita' dell'essere non puo' nascondersi ne' totalmente ne' parzialmente, perche' l'opposizione manifesto/nascosto riposa interamente su quella parte di verita' dell'essere che si manifesta e che, proprio per questo motivo, non potra' che essere tutta.



Parlare di un''inclinazione' dell'essere al nascondimento equivale ad applicare all'essere quella concezione della verita' come adeguazione che Heidegger, si badi, non critica, ma fonda sullo svelamento (ale'theia) dell'essere stesso. La verita' come adeguazione, proprio come l'opposizione tra essere e apparire, deriva dal modo in cui l'essere e' di fatto compreso, cioe' dal suo senso. Per quanto riguarda l'essere stesso, c'e' una corrispondenza perfetta tra cio' che noi comprendiamo - il senso21- e cio' che e' compreso, tra il pensiero e la 'cosa'. Se l'idea di verita' proviene dal senso dell'essere, se "l'essere della verita'" riposa sulla "verita' dell'essere"22, non sussiste evidentemente alcuna differenza tra senso e verita' dell'essere: "senso dell'essere e verita' dell'essere dicono la stessa cosa"23. Qualunque sia il modo in cui noi intendiamo l'espressione 'essere', e' a partire da esso che noi ci forgiamo le idee del vero e del falso. La verita' dell'essere e' interamente contenuta, senza residui, nella comprensione che ne abbiamo. Percio' non c'e' alcun velo da togliere, nessuna dimensione di nascondimento, in quanto l'essere stesso - Sein Selbst - e' quanto di piu' evidente e determinato si manifesti. Se ci fossero dei dubbi o delle ambiguita' riguardo a cio' che significa 'essere', non avremmo alcuna possibilita' di dubitare, vale a dire la possibilita' di supporre un poter-essere, perche' tale possibilita' sussiste solo nella misura in cui noi comprendiamo l'essere in modo assolutamente certo e univoco. Le opposizioni fondamentali tra essere e apparenza, tra verita' ed errore, tra certezza e dubbio - ovvero le distinzioni tra 'cio' che e'', 'cio' che solamente appare', 'cio' che appare ma non e'', 'cio' che puo' essere', 'cio' che non e' affatto', ecc. - si costituiscono a partire dal modo del tutto determinato con cui noi intendiamo l'essere, senza che questa comprensione possa venir modificata o aprirsi su nuove prospettive o punti di vista. Heidegger ha sicuramente visto questa 'datita'' assoluta del senso dell'essere, ma l'ha posta sullo stesso piano dell'indeterminatezza e dell'oscurita' con cui questo stesso senso sembra manifestarsi24.



Il motivo per cui Heidegger avanza l'idea della Verborgenheit e' dovuta al fatto, come abbiamo visto, che il pensiero non e' in grado di cogliere e di fissare l'essere in concetti e significati. Ma l'impossibilita' di dire e significare l'essere - di saperlo - non implica affatto che il suo senso sia oscuro, ma solo che esso proviene dal di fuori del linguaggio. Se, in via del tutto essenziale, non ci sono parole capaci di definire il senso dell'essere, e' perche' la definizione e il linguaggio presuppongono, come loro condizione di possibilita', la comprensione preliminare di questo senso, che allora sfugge alla presa di qualsiasi sapere proprio nella misura in cui lo rende possibile. Questa comprensione e' assolutamente determinata e univoca in quanto e' sottratta al gioco delle interpretazioni e dei rinvii semantici che sottende invece a qualsiasi forma di sapere concettuale. Non c'e' percio' un accesso piu' o meno autentico alla verita' dell'essere, e questo non nel senso che tutti i punti di vista siano ugualmente validi e giustificati - come sostiene la moderna scempiaggine relativista -, ma nel senso che la comprensione dell'essere non puo' che essere una, univoca, e necessariamente vera. Se non ci intendessimo in modo assolutamente univoco quando usiamo la parola 'essere' non ci intenderemmo su nulla, nemmeno sull'ipotesi che la comprensione e la comunicazione potrebbero anche non esistere. La Seinsverständnis, infatti, non si da' se non in quanto comprensione condivisa dagli altri: la necessita' che l'altro intenda l'essere nello stesso modo in cui lo intendo io e' costitutiva del senso dell'essere stesso.



Husserl sostiene che l'ente sensibile e spaziale si da' solo attraverso "adombramenti" e prospettive25, per cui c'e' sempre la possibilita' che, ad un certo punto, la cosa si riveli essere diversa da quella che pareva, o che addirittura si riveli non essere affatto (come nel caso dell'allucinazione o del sogno). Gli enti sensibili si offrono solo per "facce", e fa parte essenziale del loro "modo di darsi" la possibilita' che essi siano diversi da come appaiono. Si da' sempre il caso che un nuovo aspetto metta in crisi tutta la serie di adombramenti precedentemente percepita in base alla quale io avevo costruito l'identita' della cosa. E questo, dice Husserl, in infinitum26. "Per quanto dunque possiamo procedere nell'esperienza, per grandi che siano le continuita' di percezioni attuali della medesima cosa da noi percorse, rimarra' sempre per principio un orizzonte di determinabile indeterminatezza"27. Non possiamo mai essere certi dell'ente sensibile, ne' riguardo la sua essenza ne' riguardo la sua esistenza. Esso si manifesta in modo necessariamente "inadeguato"28 e non c'e' scienza capace di venire a capo di questa inadeguatezza costitutiva. C'e' sempre una zona dell'ente che rimane nascosta. La cosa non perviene mai a una datita' assoluta, ed e' questo che la mantiene in una posizione di "trascendenza" nei confronti dell'io. Trascendenza che, peraltro, puo' sempre rivelarsi illusoria: non avremo mai la sicurezza che l'ente sensibile si dia veramente o non sia, piuttosto, un'illusione creata da noi (bisogna anche aggiungere che, simmetricamente, nemmeno la non esistenza della cosa puo' manifestarsi in modo definitivo). E' noto che Husserl contrappone al "modo di darsi" inadeguato e solo presuntivo dell'ente trascendente il "modo di darsi" assoluto degli atti di coscienza o Erlebnisse : solo questi ultimi sono cosi' come appaiono e perche' appaiono : del loro essere e del loro esser-cosi' non si puo' dubitare. Se il "principio di tutti i principi" stabilisce formalmente che solo cio' che "si da'" o "si offre" originalmente all'intuizione e' fonte legittima di conoscenza, l'istanza del cogito prescrive che non le cose, ma solo gli atti con cui la coscienza le coglie si diano veramente. Le "cose stesse" a cui bisogna ritornare sono in realta' gli Erlebnisse. Cio' che allora originalmente si mostra alla coscienza non e' altro che la coscienza stessa. Ma come potremmo parlare di 'inadeguatezza' o di 'indeterminatezza' nel modo di apparire dell'ente sensibile (in opposizione alla piena datita' con cui si mostrano gli Erlebnisse) se non ci fosse gia' manifesto in modo assolutamente indubitabile cio' che significa 'apparizione inadeguata' in opposizione a cio' che e' il 'vero essere'? Se non avessimo gia' , cioe', una comprensione dell'essere come di un alcunche' di distinto dall'apparire? La distinzione husserliana tra l'"essere assoluto dell'immanente" (la coscienza) e l'"essere puramente fenomenico del trascendente" (la cosa)29, ovvero la distinzione tra essere e apparire, presuppone uno svelamento in piena datita' del senso dell'essere. Per cui, cio' che originalmente si offre all'intuizione, cio' che si manifesta in piena evidenza e senza alcun adombramento, la "cosa stessa" del pensiero, che precede per questo anche l'evidenza apodittica del cogito, e' cio' che va sotto il titolo di 'essere'. Ma se e' vero, come dice Heidegger, che il cogito presuppone lo svelamento dell'essere, Husserl ha ragione quando sostiene che l'ente "trascendente" puo' manifestarsi solo in maniera parziale e presuntiva. E' l'ente a nascondersi, non l'essere. E' l'ente che puo' avere aspetti nascosti e mostrarsi sotto nuove prospettive. La comprensione dell'essere, che contiene in se' la comprensione della differenza tra essere e apparire, prescrive che cio' che e', vale a dire l'essente (non l'essere), non coincida necessariamente con la sua manifestazione e si trovi, per cosi' dire, in uno stato di indecisione tra com'e' e come appare. La verita' dell'ente si produce come lotta tra svelamento e nascondimento, senza che sia mai dato a sapere se cio' che si mostra e' finalmente il vero essere o solamente un'altra apparenza. E' per questo che, tra l'altro, ogni verita' 'ontica' puo' essere falsificata.



Cio' che non puo' essere invece mai falsificato e' l'essere stesso. La nostra comprensione dell'essere, ad esempio, non potra' mai venire modificata da una nuova scoperta empirica, perche' la 'scoperta' dell'essere e', nello stesso tempo, piu' vecchia e piu' 'futura' di qualsiasi scoperta empirica, ed e' lo spazio gia' aperto senza il quale nessun avvenimento empirico potrebbe verificarsi. Il senso dell'essere non puo' ne' arricchirsi ne' precisarsi - ne' tantomeno essere falsificato - per semplice accumulazione di 'dati': esso e' gia' dato una volta per tutte e in modo definitivo, prima di ogni dato particolare. E' per questo che l'idea di una "storia dell'essere" solleva non poche perplessita'. In fondo, se ci fosse una storia del modo in cui l'essere si da' o si manifesta, noi non ne sapremmo nulla. Come potremmo sapere cio' che l'essere era o cio' che sara' se non partendo da cio' che esso e' ? Se non, cioe', dando per scontato che rimanga immutabile ? Pensare che l'essere possa avere avuto, o potra' avere, un senso diverso da quello che di fatto ha, e' per noi del tutto impossibile. Anche perche' l'idea di 'storia', insieme a quelle di 'verita'' e di 'sapere', sparirebbe totalmente dal nostro orizzonte di pensiero.



Siamo ben lontani, come si vede, sia dalle tesi del pensiero ermeneutico (specialmente dalle sue varianti 'deboli') sia da quelle del cosiddetto decostruttivismo. Queste due tesi convergono nell'idea che l'essere non sia in alcun caso riducibile alla 'categoria' della presenza (origine delle deprecabili nozioni 'forti' di fondamento, arche', identita', centro, ecc.), essendo, nella sua dimensione piu' autentica, evento in diffe'rance, svelamento sempre di la' da venire, ecc. L'essere non si presenterebbe mai in se stesso, e proprio questa sua celatezza essenziale costituirebbe la riserva a cui attingerebbe la storia nella sua inesauribile capacita' di produrre il nuovo e l'inedito. Sempre altro dall'ente presente e dalle parole che lo dicono, l'essere impedirebbe al discorso di chiudersi e di cogliere in qualche modo delle verita' ad esso esterne, costringendo le parole a rilanciarsi in sempre nuove interpretazioni il cui unico fondamento e' la tradizione linguistica da cui provengono e da cui sono sollecitate. Non c'e' niente di male ad essere hegeliani, tanto meglio se senza l'armamentario della teleologia della fine della storia. Ma tutto cio' ha ben poco a che fare con la logica interna del pensiero heideggeriano che, pur tra molte divagazioni poco convincenti sul destino e sulla storia dell'occidente, parte proprio dall'idea, continuamente rimeditata, di una manifestazione dell'essere in se stesso, che si da' in un husserliana "intuizione categoriale" paragonata alla fine nientemeno che all'esti gar einai di Parmenide29. "Anwest nämlich anwesen", e' presente infatti l'essere presente: cosi' Heidegger traduce il frammento parmenideo, facendo di queste parole la sigla testamentaria del suo pensiero. E' presente l'essere presente; ovvero: l'essere e' dato, svelato, manifesto, qui e ora e gia' da sempre. Nel 1969, nella sua unica intervista televisiva, Heidegger diceva che "il segno piu' caratteristico del destino in cui noi ci troviamo [ la dimenticanza della questione dell'essere ] e' -per quello che riesco a vedere - il fatto che la questione dell'essere, che io pongo, non e' stata ancora compresa "30. Non sembra che, nel frattempo, le cose siano cambiate di molto.


Commenti:
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 08:12:15 AM



Scritto da Maurizio Penzo




N° Post: 404
Sipolino Fabio
Tuesday 27th of July 2021 08:07:47 AM


Intervista a JACQUES DERRIDA




Piergiorgio Odifreddi

Nel 1966 un giovane filosofo francese di origine ebrea e algerina e di nome Jacques Derrida
tenne una conferenza alla Johns Hopkins University, e scateno' un terremoto intellettuale
proponendo un nuovo modo di leggere e interpretare testi che divenne noto come
decostruzionismo. Da un giorno all'altro Derrida divenne l'"enfant terrible" della filosofia
continentale, e il decostruzionismo suscito' applausi e fischi nei dipartimenti umanistici.
Nel 1967 Derrida esplose anche sul mercato editoriale, con una trilogia di opere magmatiche e
difficili che contribuirono ad aumentare il numero sia dei suoi estimatori che dei suoi detrattori:
"La scrittura e la differenza", "La voce e il fenomeno" e "La grammatologia". Da quel momento i
suoi titoli si sono succeduti a girandola, e hanno ormai raggiunto la settantina.
In occasione dell'incontro di Orta Derrida ha acconsentito ad affrontare con noi il tema del
controverso rapporto fra il suo pensiero e la scienza.
Lei deve aver avuto un certo interesse per la matematica, se il suo primo libro e' stata
un'introduzione alle "Origini della geometria" di Husserl. Come ci e' arrivato?
Quand'ero studente, negli anni '50, in Francia c'erano due approcci tradizionali alla
fenomenologia. Uno, dominato da Sartre e Merleau-Ponty, si concentrava sulle percezioni.
L'altro, quello marxista, cercava di legare la fenomenologia alla politica. Io ero invece interessato
alla scrittura, e nel suo libro Husserl affrontava precisamente il problema di come la scienza e la
matematica possano parlare e scrivere degli oggetti ideali. Husserl pensava che solo attraverso il
linguaggio gli oggetti ideali possano essere prodotti storicamente, ed entrare a far parte della
tradizione scientifica.
Oggetti ideali nel senso platonico?
Questo e' il punto. Husserl si opponeva a Platone, il quale non credeva affatto che le idee
dovessero essere trascritte nel linguaggio, che per lui era soltanto un ausilio secondario. Per
Husserl, invece, il linguaggio era essenziale per la stessa produzione di teoremi matematici o
teorie scientifiche. E io volevo appunto capire il ruolo centrale del linguaggio, nella letteratura e
nella scienza.
E questo ruolo sarebbe cio' che lei chiama "logocentrismo''?
Bisogna anzitutto distinguere il logocentrismo da un concetto vicino ma diverso, il fonocentrismo:
l'idea, cioe', che l'oralita' sia superiore alla scrittura, che la parola sia piu' presente e piu' vicina alla
vita. Il fonocentrismo, che e' universale, diventa logocentrismo con le scritture fonetiche, i cui
segni rappresentano appunto dei suoni. Allora l'autorita' del "logos" si trasferisce alla scrittura, in
tutti i suoi significati: di parola, ragione, proporzione, ...
E qual e' l'essenza della sua critica al logocentrismo, nella "Grammatologia"?
Piu' che un errore filosofico, il logocentrismo e' una struttura culturale. Basta pensare al "Vangelo
secondo Giovanni": "in principio era la parola''. O al "Fedro" platonico, in cui il linguaggio diventa
una rappresentazione di una rappresentazione, perche' la parola scritta rappresenta la parola
orale che rappresenta il pensiero. O a Sassure, in cui il linguaggio e' il significante di un
significante. Io ho cercato di elaborare un concetto di "traccia'' completamente generale, che
potesse adattarsi sia al linguaggio scritto che a quello orale.
La traccia e' cio' che rimane?
No, no! Puo' anche essere cancellata. Semplicemente, la traccia e' cio' che fa riferimento a
qualcos'altro, senza mai essere presente autonomamente. Anzi, la decostruzione del
logocentrismo non si puo' separare dalla decostruzione dell'autorita' e del privilegio della
presenza, sia spaziale e temporale.
Lei ha appena pronunciato la parola chiave della sua filosofia: "decostruzione''.
La parola deriva da un'espressione di Heidegger, "Destruktion", da intendersi come
"destrutturazione'' e non come ``distruzione''. Io la uso nel senso di un'analisi dei diversi livelli in
cui si stratifica la cultura.
E c'e' anche un aspetto complementare, di ricostruzione?
Preferirei parlare di affermazione di cio' che e' rimosso, piu' che di ricostruzione. Per sottolineare
che la decostruzione e' qualcosa di positivo, non di negativo.
Leggendo i suoi libri, mi e' sembrato di vedere esempi di decostruzione lungo tutta la
storia della matematica: Euclide decostruisce Pitagora, Cartesio decostruisce Euclide, ...
Certamente la decostruzione non e' un fenomeno contemporaneo, si e' sempre verificata. Quando
un filosofo costruisce un sistema, c'e' sempre qualcosa che rimane inconsistente e che finisce per
decostruirlo automaticamente.
Gli informatici direbbero che ogni programma ha una "backdoor" insospettata.
Non si tratta soltanto dell'inaspettato: la decostruzione e' l'accadere dell'impossibile, o di cio' che
sembrava impossibile.
Uno dei motti del decostruzionismo e' che "non c'e' niente al di fuori del testo''.
Bisogna stare attenti a non fraintenderlo, intendendo per "testo'' un libro: dire "non c'e' niente al di
fuori del libro'' sarebbe sciocco. Il testo va inteso in un senso generalizzato, che arriva a
comprendere l'intero mondo come un insieme di tracce: in questo senso, non c'e' nient'altro.
Sarebbe come dire che non c'e' la metafisica?
Se si trasforma la fisica in un "testo'', allora si puo' dire che "non c'e' niente al di fuori del testo''
significa che non c'e' la metafisica.
E per quanto riguarda la matematica, che legami ci sono con il teorema di Godel?
Il teorema di Godel, che ho citato fin dal mio primo libro su Husserl, tratta di un tipo di limitazione
che potremmo chiamare "omogenea'': qualcosa che potrebbe essere decidibile o calcolabile in
linea di principio, non lo e' in pratica. A me interessa una limitazione piu' forte, di tipo
"eterogeneo'': cio' che non e' decidibile o calcolabile nemmeno in linea di principio. E mi interessa
per le applicazioni all'etica, o alla politica.
Nel senso che la liberta' ha queste caratteristiche?
In un certo senso, si'. Se sappiamo cosa fare, si tratta solo di realizzare un programma. E'
quando non sappiamo cosa fare, che siamo costretti a prendere delle vere decisioni: ad esempio,
quando due persone stanno annegando e noi possiamo salvarne una sola. La responsabilita'
etica, giuridica o politica passa attraverso questa indecidibilita', che e' di un tipo diverso da quello
logico.
Mi sembra che lei abbia rivelato, anche in questo colloquio, di prendere seriamente la
scienza e la matematica. Come mai la sua filosofia e' invece divenuta una specie di
anatema negli ambienti scientifici?
Ci sono anzitutto delle beghe accademiche causate dal ruolo che ho, o che si crede che abbia,
negli ambienti umanistici americani. E poi c'e' una giusta reazione all'uso sbagliato delle metafore
scientifiche da parte degli umanisti. La cosa ridicola e' che il bersaglio sia diventato proprio io,
benche' nella "Mitologia bianca'', in "Margini della filosofia", abbia esplicitamente criticato questo
uso. Il fatto e' che coloro che mi attaccano non leggono i miei libri.
Non sarebbe meglio che umanisti e scienziati parlassero di piu' fra loro, e si leggessero di
piu' a vicenda?
Assolutamente. E sono convinto che dovremmo farlo da entrambi i lati, anche se temo di non
aver fatto abbastanza io stesso.




N° Post: 401
Sipolino Fabio
Monday 26th of July 2021 08:11:11 AM



Magistrale lezione del filosofo Carlo Sini su La Differance di Derrida










N° Post: 398
Sipolino Fabio
Monday 26th of July 2021 07:22:49 AM


Habermas: anche una storia della filosofia




di Leonardo Ceppa


Nella Prefazione dell'ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea e' domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si e' formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un'intuizione teorica proiettata all'indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l'altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si puo' raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.

Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni piu' volte sviluppate nei decenni precedenti.

Ma sa anche che nessuna tesi filosofica puo' appoggiarsi sull'impegno soggettivo di chi la pronuncia, per quanto grande sia la sua convinzione. Cosi' nello scavalcare, ponendola al centro, la biforcazione cruciale tra Hume e Kant da lui vista all'origine della spaccatura della modernita' -- tra necessitarismo scientistico, empiristico e positivistico, da un lato, e costruttivismo linguistico intersoggettivo e comunicativo, dall'altro -- egli sceglie una via di mezzo: quella di limitarsi a sottolineare una differenza che sempre si ritrova tra gli opposti partiti. "Nella concorrenza delle impostazioni [mi sono accorto che] si presentava sempre una identica differenza nei loro assunti di fondo (...) le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo pero' appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso, le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze" (p. 10).

La filosofia e' una scienza, ma non una scienza come tutte le altre: e' una scienza sui generis. Le scienze normali restringono, specializzandolo, il loro campo di azione, la filosofia invece lo allarga. E lo allarga in maniera tanta smisurata da trascinarvi dentro occhio, oculare, e tutti gli strumenti del ricercatore. L'osservatore diventa un mago stregone. Lo scienziato della modernita' e' il novello Faust. Laddove, dice Habermas, la scienza specialistica lavora "nel dire sempre di piu' su sempre di meno" (p. 12), la filosofia mantiene tutta la sua faustiana (o hegeliana) presunzione della totalita', tanto da far dipendere il destino dello scienziato (e dell'uomo) dal modificarsi del suo sapere. Sapere del mondo e autocoscienza dell'uomo restano legati insieme dall'uso che l'uomo impara a fare delle sue conoscenze. In questo senso Habermas non separa la "scienza" dall'effetto di "rischiaramento" ch'essa produce. Dal XVIII secolo in poi, Wissenschaft e Aufklärung, scienza e presa di coscienza vanno di conserva, tenute insieme da quel trattino grammaticale (miracoloso nella sintesi tedesca), che lega Selbst-- e Weltverständnis in una medesima emissione di fiato.

C'e' anche qualcosa di cruciale che il sapere filosofico condivide con le scienze "normali" della nostra epoca: la tendenza alla specializzazione e alla divisione del lavoro. E' una tendenza inevitabile, feconda, persino desiderabile, la quale tuttavia, nella versione positivistica della filosofia, minaccia di trascinar via (o far dimenticare) quel trattino miracoloso che lega il sapere del mondo sia al destino dell'uomo sia al destino di Dio. Ma perche', agli occhi di Habermas, questo pericolo del positivismo resta una minaccia reale per la filosofia contemporanea? Perche' in realta' quest'ultima -- per non perdere di vista il rapporto alla totalita' -- si trova oggi a fronteggiare una preoccupante e smisurata crescita di complessita': moltiplicandosi e arricchendosi il sapere del mondo, la struttura economica della societa', le tecniche d'intervento sul corpo e sulla psiche. Con convinzione Habermas ripete la diagnosi di Marx: gli uomini rischiano di diventare le appendici organiche di una scienza e di una tecnica vampiresche, la cui organizzazione umana (il sapere umanistico del cosmo e dell'uomo) diventa sempre piu' inabbracciabile e inafferrabile (unu'berschaubar, p. 12).

Di qui la tentazione (ecco la polemica di Habermas contro il positivismo filosofico) di arrendersi, di rinunciare all'impulso illuministico che ancora animava Kant e Faust, di abbandonare l'impresa umanistica di "dare forma" a se' stessi nella configurazione del mondo (il tema del Gestalten, ricco di risonanze). Allora del progetto moderno resterebbero in piedi soltanto le gloriose rovine. E al filosofo contemporaneo non resterebbe che ripiegare in un atteggiamento di ellenistico disincanto. Un fatalismo dal sapore classicistico verso cui Habermas ha sempre manifestato un orrore palese.



2. Un "processo di formazione" tra la sfida delle contingenze e le speranze della ragione

A che serve, si chiede Habermas a questo punto, ripercorrere nei dettagli -- ancora una volta -- tutta la storia della filosofia fino al suo punto di arrivo? Questa storia sembra talora diventare il virtuosistico e compiaciuto ricamo su una vicenda mille volte diagnosticata, difesa e omaggiata: il progetto di una modernita' in pericolo, la facolta' di trascendere la contingenza nei processi dell' apprendimento, il peso, infine, che con l'eredita' millenaria della religione viene oggi a scaricarsi su una corrente di filosofia postmetafisica. Asse centrale su cui ruota tutto il progetto: la indissolubilita' di Aufklärung e Wissenschaft, sapere del mondo e conoscenza dell'uomo, insomma il magico trattino (binde-strich) tra l'uomo e il suo ambiente. Dopo avere scritto, alla fine del libro, il capitolo sui posthegeliani, Habermas si accorge di aver capito una cosa. Il processo delle ramificate controversie teoriche non ha piu' bisogno di allargarsi: basta mettere in rilievo i presupposti sistematici e metodologici di cui lui si e' servito in tutta la sua carriera professionale. La sua tenacia servira' allora a illustrare quella "implicita idea di filosofia" cui ha sempre lavorato, dando ai suoi problemi una impostazione metodologica, che e' di di tipo esistenziale e personale, morale e politica, ancor prima che accademica e professionale. Alcuni dettagli diventano secondari e la filosofia-a-360 gradi scende dal cielo prendendo la forma di un Ansatz: di un approccio, di una visione, di un metodo costruito e perfezionato attraverso i decenni. Gli stessi strumenti metodologici illuminano senza sforzo la direzione del cammino: dalla "costellazione occidentale di fede e ragione", cioe' da quella "osmosi semantica" citata nella copertina del primo volume, alla "liberta' della ragione" (genitivo soggettivo e insieme oggettivo) auspicata nel secondo volume come obbiettivo postmetafisico del processo.

Nella Prefazione a questi due volumi Habermas ricorda le drammatiche svolte della storia universale: 1) l'eta' assiale delle religioni mondiali, 2) l'arricchimento reciproco, nell'Europa cristiana, di fede e ragione, cioe' quella simbiosi che nella modernita' sfocia in scissione, 3) il dissolvimento della falsa metafisica hegeliana nell'impostazione intersoggettiva della pragmatica linguistica.

Le nobili domande della filosofia di Kant -- cosa posso conoscere, cosa posso fare, in che cosa sperare -- rimangono le stesse, ma presentandosi in un "formato" diverso: muovendo dalla "situatezza" dell'uomo finito queste domande non si camuffano piu' nella forma di un Assoluto, cioe' come fossero formulate da un punto di vista divino oppure positivisticamente scientifico. E proprio l'approccio teorico di Habermas, tra quelli concorrenti oggi nella professione, e' quello che piu' sottolinea la cosa. In questo senso il sistema filosofico di Habermas e' personale e professionale nello stesso tempo. Dall'esercizio filosofico resta ineliminabile un momento "performativo" -- di responsabilita' soggettiva e morale, espressiva e politica -- che caratterizza l'autore senza potersi nascondere.

Habermas ce ne da' subito la prova scendendo in lizza con alcuni avversari ( p. 11). Per lui e' impossibile, per esempio, prendere sul serio i modelli di Kuhn, Foucault e Feyerabend, perche' escluderebbero in via pregiudiziale la possibilita' dell'apprendimento, l'occasione di dare al mondo una Gestaltung (un ordine umano). Le rivoluzioni scientifiche di Kuhn contro il falsificazionismo di Popper, il discorso come "maschera del potere" sviluppato da Foucault, l'anarchismo metodologico di Feyerabend, non muovono da una matrice situativo-esistenziale dell'uomo. Queste opzioni renderebbero impossibile concepire le svolte e i cambi-di-paradigma come "risposte fallibili" agli stimoli dell'apprendimento. Il processo di innovazione -- sempre aperto agli esiti piu' diversi perche' si impara anche dagli errori -- resta per Habermas il campo di tensione intersoggettiva che collega le esigenze della situazione di radicamento -- i bisogni della matrice e gli abissi della contingenza -- alle risposte e ai tentativi di soluzione proposti da una ragione fallibile. Verso la fine di questa Prefazione, Habermas formula cosi' la sua idea di genealogia: passare sugli abissi dell'esistenza (Abgru'nde) usando le ragioni (Gru'nde) come ponti avventurosi, p. 16).



3. Il discorso di "fede e ragione" nell'angolo di mondo chiamato Europa

Il rapporto tra religione e filosofia (che con bella espressione Habermas chiama "osmosi semantica") incontra nell'occidente europeo un destino particolare. A quella metafisica greca nata nei commerci dell'Egeo e che, nell'era assiale, rappresentava una delle poche significative immagini-di-mondo, tocco' in sorte un destino del tutto particolare. Infatti, lungo i secoli del platonismo cristiano che mise radici nell'impero romano, andava realizzandosi uno "doppio attraversamento" di contenuti lungo il confine che divideva la ragione dalla fede, la filosofia dalla religione. Per un verso, credenze sostanziali della narrativa cristiana passavano il confine con la filosofia diventando, in questo campo, saperi razionalmente dimostrabili. In senso contrario, verita' metafisiche costruite dai filosofi platonici si trasformavano, appena giunte nel campo della fede, in elaborati teoremi della dogmatica religiosa.

Potremmo addirittura parlare di un destino "secolare e glorioso" se osserviamo come, nella prospettiva con cui Habermas ci racconta il lento formarsi della filosofia postmetafisica, un ininterrotto arco temporale si protende da Agostino fino alla Deutsche Klassik. Infatti, i temi della "autonomia" e della "liberta' della ragione" -- che caratterizzano la modernita' dando sviluppi vertiginosi alla "ragion pratica" postkantiana -- non avrebbero mai potuto nascere se non sulla base di quella "osmosi semantica" che Habermas sceglie come guida della sua ricostruzione storica (p. 15). Anzi, il pensiero secolare di un ramo della filosofia postmetafisica contemporanea si e' oggi talmente emancipato dalle sue lontane origini teologiche da creare quasi "sproporzione" in favore di una filosofia tanto laica quanto risonante di echi religiosi (basti pensare ad autori come Adorno, Kafka o Levinas), a tutto svantaggio della teologia dogmatico-professionale. Per questo, nel panorama culturale contemporaneo, troviamo sempre piu´ scrittori e filosofi "secolari" (cioe' laici e postmetafisici) che trattano temi di pertinenza pseudo-religiosa. Sono persino diventati piu' numerosi dei laicisti empiristi che, a partire da Hume, riducono psicologicamente la religione a favola consolatoria. Cosi', quando Habermas polemizza contro la sclerosi laicistica di molta filosofia contemporanea, lo fa anche per mostrare come (pur non essendosi mai interrotta la osmosi semantica tra fede e ragione) si siano oggi spostate le linee dei vecchi confini disciplinari. Nella disordinata polifonia dell'opinione pubblica, tocca spesso ai filosofi laici trattare temi morali, giuridici e politici, che tradiscono evidenti origini bibliche o religiose. E lo fanno piu' spesso dei filosofi empiristi, che considerano tali temi come superate zavorre oltrepassanti l'orizzonte delle loro divisioni specialistiche.

Questo spiega da ultimo la soverchiante responsabilita' che Habermas accolla a quel ramo di filosofia postmetafisica (il ramo kantiano dei 360-gradi, non quello humeano dello sbaraccamento specialistico) che accetta di dialogare -- sullo stesso piano -- intra moenia coi filosofi ed extra moenia coi teologi. Trattando proprio di quelle questioni che vengono pudicamente evitate dai laicisti rigorosi (chiusi a riccio in quelle specializzazioni "che dicono sempre di piu' su sempre di meno"). Alla fine Habermas non esita a formulare una tesi coraggiosa di questa portata: "Al di la' dei suoi aspetti palesemente postmetafisici, la questione che la filosofia deve sentirsi in grado di affrontare ed elaborare si decide oggi sulla rinnovata eredita' del lascito religioso. Anche se questo e' problema che riguarda soltanto uno dei rami in cui si e' scisso il pensiero postmetafisico" (p. 15 corsivo mio,).

Sembrava infatti che il problema religioso, dopo la moderna scissione tra fede e ragione, dovesse sciogliersi come chiedeva Hume, per via pacifica e senza clamore, passando per la via naturalistica ed empiristica delle considerazioni antropologiche di empiristi e utilitaristi. Invece, scrive Habermas, vediamo con sorpresa scatenarsi nella Sinistra hegeliana una furiosa polemica antireligiosa contro le confessioni del protestantesimo borghese e contro l'assimilazione hegeliana della religione nell'automovimento idealistico dello Spirito. Autori come Feuerbach, Marx e Kierkegaard (ma possiamo anche includere Nietzsche) combattono le consolazioni della religione chiesastica con spirito ardentemente anticlericale. E c'e' molto di paradossale, sembra aggiungere Habermas, in questo "anticlericalismo religioso" evocante quelle tracce kantiane di ragion pratica, autonomia e liberta'-della-ragione, che paiono disperse lungo la storia di una insopprimibile e irriducibile "emancipazione umana" che rifiuta di sciogliersi in fatalismo stoico.




Eros Barone



Vorrei portare, quale commento di questo articolo sulla storia della filosofia, la mia testimonianza di insegnante e di cultore di una disciplina "bella e impossibile". Le aporie sorgenti dai rapporti fra le idee e le cose sensibili in Platone; il destino autoconfutatorio dello scetticismo nel ragionamento "elenctico" attraverso cui Aristotele fonda il principio di non contraddizione; l'argomento del "terzo uomo" nella critica aristotelica e, prima ancora, nell'autocritica platonica della dottrina delle idee; la prova ontologica dell'esistenza di Dio in Anselmo di Aosta e le critiche di Gaunilone, di Kant e di Russell; la contraddittorieta' del principio dell'autocausazione e dell'automovimento nelle prove "a posteriori" dell'esistenza di Dio elaborate da Tommaso d'Aquino; il conflitto epistemologico tra realismo e strumentalismo nell'interpretazione della "rivoluzione scientifica" copernicana; il carattere aporetico del dualismo cartesiano; la dimostrazione dell'unicita' della sostanza in Spinoza; la deduzione trascendentale delle categorie e le antinomie della ragione in Kant; la deduzione dialettica dell'Io puro in Fichte; l'identita' fra soggetto e oggetto nella concezione hegeliana dell'Assoluto; l'inversione dei rapporti di predicazione in Feuerbach; l'analisi del feticismo della merce e la teoria del plusvalore in Marx; l'uomo come "essere delle lontananze" in Heidegger; l'uomo come "essere che e' cio' che non e' e non e' cio' che e'" in Sartre; l'uomo come allotropo empirico-trascendentale in Foucault... Ecco i 'passaggi' (alcuni fondamentali, altri opzionali) che fanno dello studio della filosofia una prova difficile e impegnativa che permette allo studente di verificare il suo personale rapporto di adeguatezza o inadeguatezza rispetto alla comprensione di questo universo concettuale. Nel corso della mia carriera, avendo insegnato filosofia prevalentemente al liceo scientifico, devo riconoscere che il liceo scientifico offre una formazione piu' completa di quella, pur assai pregevole, culturalmente raffinata e metodologicamente rigorosa, che offre il liceo classico, poiche', a differenza di quest'ultimo, non e' sbilanciato eccessivamente verso un determinato gruppo di materie e consente la convivenza, su un piede di parita', delle "due culture" (quella umanistica e quella scientifica) di cui ha parlato Charles Snow nel suo noto libriccino. Il principale difetto del liceo scientifico, nondimeno, e' quello di non fare posto alle scienze sociali (economia, diritto, psicologia e sociologia), che costituiscono l'anello mancante, il vincolo di connessione strutturale fra le materie umanistiche e quelle scientifiche, destinate, diversamente, a rimanere separate fra loro da un abisso incolmabile. Tre giudizi particolarmente significativi, fra quelli che io stesso solevo sollecitare dai miei allievi al termine delle lezioni dedicate a pensatori fondamentali della storia della filosofia, mi piace in questa sede ricordare. "Il mondo di Hegel non esiste", rispose in modo perentorio un mio studente, Mario Perego, nel lontano 1988. Ma e' proprio per renderne possibile la conoscenza e la comprensione - gli feci osservare -- che i filosofi come Hegel hanno costruito e fatto funzionare, attraverso determinate categorie concettuali, i loro 'mondi': in effetti, il concetto di cane non abbaia. "La scienza a nulla servirebbe se non servisse a mettere in rilievo la dignita' dell'uomo", asseri' in modo paradigmatico, citando Kant, un altro mio studente, Stefano Zibetti, nel 1995. "Marx e' una pietra miliare della storia della filosofia", rilevo' nel 1989 in modo lapidario un altro studente di Somma Lombardo, di cui non ricordo il nome.
Come risulta, a ben guardare, anche dalle risposte di studenti particolarmente attenti e motivati, quali sono quelli di cui ho citato i giudizi, il punto archimedico dello studio della filosofia (e della stessa filosofia 'tout court') e' il rapporto tra logica e storia. Va detto allora che tale rapporto e' fondato sulla duplice consapevolezza che, per un verso, non vi sono proposizioni filosofiche che godano di una sorta di statuto di extraterritorialita' rispetto ai condizionamenti (economici, politici e ideologici) della storia e, per un altro verso, tali proposizioni, quando sono il frutto di una ricerca logicamente argomentata e autenticamente filosofica, ci offrono delle verita' che, pur non essendo assolute e restando, fino a prova contraria, relative, non per questo sono prive di valore e di oggettivita'. Orbene, posso dire, avendo fatto tesoro di questa premessa teoretica, che il fine pratico (in senso sia morale-individuale sia etico-civile) che ha sempre guidato il mio insegnamento della filosofia e' stato quello consistente nel mostrare ai miei allievi che tale disciplina, certamente non da sola ma in un costante rapporto di 'concordia discors' con tutte le altre discipline, e' la via maestra per giungere, prima concettualmente e poi, perche' no?, praticamente, a trasformare il destino in liberta' e la natura in causalita'. Precisamente questo e' stato il contenuto cognitivo e valoriale sotteso a tutte le mie lezioni. Ritengo che un certo numero di allievi lo abbiano co'lto, un grande numero forse solo intui'to, pochi siano rimasti indifferenti (esiste, come e' noto, anche la cosiddetta 'ignava ratio' e lo stesso insegnante, anche se nei momenti migliori possa illudersi di esserlo, non e' un demiurgo). La filosofia, del resto, e' in se' una disciplina fortemente selettiva e quindi aristocratica, poiche' la ragione stessa, che pure e' in linea di principio universale, e', rispetto a categorie particolari ma assai potenti come il sentimento, la tradizione, il pregiudizio, l'immaginazione o la sensazione, un patrimonio per pochi. Presumo, fra l'altro, che proprio questo sia il motivo che spiega le valutazioni in genere piuttosto estensive che vengono formulate dagli insegnanti di filosofia sulle prestazioni dei loro allievi: una circostanza che spiega anche perche', nel mercato delle ripetizioni, essi non abbiano alcun posto (il che, tutto sommato, e' da considerare un titolo di onore). E'un grande merito della scuola italiana, che va ascritto ai due dio'scuri del neo-idealismo italiano, Croce e Gentile, aver dato all'insegnamento della filosofia un posto importante e non marginale nella 'ratio studiorum' dei licei. Occorre, tuttavia, ribadire, dissipando i persistenti equivoci alimentati da semplificazioni banali e da corrive demagogie, che l'accessibilita' 'alla' cultura non coincide con l'accessibilita' 'della' cultura e, quindi, con l'accessibilita' della disciplina che della cultura e' la spina dorsale. E'questa la ragione per cui la filosofia, pur presentandosi alle giovani menti dei nostri studenti con un sorriso in apparenza accattivante, manterra' sempre l'attitudine enigmatica e sfuggente che si ritrova nel sorriso dell'a'ugure. E'vero che quel sorriso e' un invito, ma e' altrettanto vero che esso e' una sfida, poiche' riguarda una delle prove piu' ardue che la ragione dell'uomo proponga all'uomo stesso.


Commenti:
Sipolino Fabio
Monday 26th of July 2021 07:28:37 AM



Tratto da:

https://sinistrainrete.info/filosofia/20853-leonardo-ceppa-habermas-anche-una-storia-della-filosofia.html




N° Post: 396
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 07:37:03 PM


Decostruzione




Enrico Manera
Aprite un libro di filosofia e dopo tre passi di Hegel in epigrafe, collocati in forma triangolare, trovate un testo che occupa i tre quarti della pagina mentre il restante spazio e' occupato da una colonna di testo autonoma. Il testo principale e' un saggio di Jackie "Jacques" Derrida del 1972, corredato di note e illustrazioni, mentre a lato per oltre venti pagine corre come controcanto una lunga e visionaria digressione di Michel Leiris dedicata a Persefone tratta da Biffures (1948).



Timpano e' il saggio che apre il volume Margini di Derrida (1972) ed e' un manifesto programmatico che illustra le ragioni della decostruzione nel momento in cui le mette in atto: tutte le occorrenze del lemma 'tympan' vengono fatte risuonare, dal tympaniser (= ridicolizzare) al timpano come tamburo (che e' anche timbre) e come parete dell'orecchio umano su cui il significato si inscrive nell'ascolto, fino al significato tipografico di "timpano" come telaio di legno, parte di un congegno che produce scrittura. E "timpano" e', nell'architettura del tempio greco, la superficie triangolare iscritta nella cornice del frontone, la parte superiore della facciata, cio' che "annuncia" il tempio e ne e' l'ingresso.

Tutto questo, e il surplus di senso che viene generato dall'insieme, e' una pratica filosofica antifilosofica che mina il territorio del logos e costringe a muoversi in esso come camminando sulle uova; essa dice come la filosofia tradizionale si sia presentata con le caratteristiche di un luogo "sacrale" che ha la pretesa di superare ogni limite e di potere fare proprio, discorsivamente, ogni forma di alterita'. Decostruzione e' allora il processo inverso che entra, anche topologicamente e tipograficamente, nella macchina testuale della scrittura filosofica con l'obiettivo di profanarla in nome di una asistematica e deliberata espropriazione:una insistenza interpretativa sui "margini" del testo e del suo significato che ne fa saltare i confini e le frontiere, per cogliere in fallo le pretese della filosofia mostrando l'impossibilita' di giungere a conclusioni definitive e a un sapere che sia assoluto.



Il successo, e anche un certo abuso, della decostruzione si lega alla vasta fortuna che l'opera di Derrida ha avuto, imitato e idolatrato come profeta di un nuovo verbo arcano e seduttivo o vituperato e ridotto a macchietta come il funambolo di una diavoleria post-moderna, astrusa e incomprensibile.Negli Stati Uniti fin dagli anni settanta il "decostruzionismo" ha travalicato gli ambienti accademici, uscendo dal dibattito filosofico per investire la cultura nel senso piu' ampio: e' assai raro che a un filosofo, per di piu' contemporaneo, siano ispirati un documentario (Derrida di K. Dick e A. Z. Kofman, USA, 2002, premiato al Sundance Film Festival), un gruppo alternative-rock (i californiani Deconstruction di D. Navarro, ex Jane's Addiction, tra 1993-4) e un film di Woody Allencome Deconstructing Harry (1997, noto in Italia come Harry a pezzi). Come e' successo?



La parola francese de'construction e' usata da Derrida fin dal 1967 per tradurre il tedesco Destruktion e Abbau con cui Heidegger (Sein und Zeit, 1927) indica la necessita' di "distruggere" i contenuti stratificati nella storia dell'ontologia per farne emergere il perduto senso originario: oltre quelle intenzioni la decostruzione diventa la pratica filosofica -- piu' che un "metodo" -- legata al pensatore franco-algerino e al suo stile personale, "un'operazione concernente la struttura o l'architettura tradizionale dei concetti fondatori dell'ontologia e della metafisica occidentale" (1987) volto a farne emergere la genesi, con particolare riguardo al ruolo del linguaggio e della sua logica.



Rifacendosi a Nietzsche e Freud e rileggendo la filosofia da Platone a Husserl, Derrida individua nella presenza la nozione che regge l'idea della metafisica come "fondamento" e riconosce nel logocentrismo e nel fonocentrismo i suoi correlati: la filosofia ha cioe' sempre pensato il logos come sede della verita', elemento intelligibile e interiore che si contrappone alla sensibilita' e all'esteriorita'; allo stesso modo ha inteso la voce (phone') con la sua attualita' e vitalita' come strumento della verita', contrapponendola alla scrittura, condannata dallo stigma della morte e dell'assenza di cio' che designa: cosi' dal Fedro platonico, che con la condanna della scrittura sanciva il legame scienza-verita'-logos nella parola viva. La scrittura e' allora cristallizzazione e momento negativo, separata dal suo autore, presso il quale non e' piu', e quindi destinata a circolazione autonoma, eccedente ed aberrante.







La centralita' del logo-fonocentrismo, parallela alla svalutazione della scrittura, manifesta la concezione dell'essere come pienezza, perfezione e stabilita': ma idee, sostanze e concetti non si danno mai nella loro aseita', in quanto sono il risultato di una dinamica differenziale posta alla base della costituzione della soggettivita', con la quale Derrida, rileggendo la dialettica hegeliana intende portare alle estreme conseguenze lo strutturalismo. Come nel linguaggio, non esistono termini autoposizionali in quanto essi, se pur si presentano come tali, si definiscono solo attraverso rapporti di differenza reciproca: se significato e significante si manifestano sempre insieme ogni segno e' "segno di segno" che rinvia ad altri segni senza che vi possa essere approdo e riposo.



La scrittura dunque e' il paradigma di riferimento, modello su cui pensare filosoficamente l'attivita' di pensiero: essa non e' il vettore esterno che rappresenta e comunica contenuti interiori ma e' la condizione trascendentale costituente del pensare. L'inscrizione di una traccia sensibile -- scrittura che rende la mente simile alla tavoletta di cera su cui si imprime ogni "segno" nella percezione -- rende possibile il senso come risultato dei processi di significazione: la necessita' dell'inscrizione delle differenze e' dinamica fondante di cio' che un giorno si chiamera' "significato", "presenza", "autocoscienza".



Differanza(termine che traduce il francese diffe'rance) e' il gioco delle differenze e dei rinvii, differimento continuo in cui ogni segno rimanda a un altro: condizione della concettualita' poiche' ogni concetto diventa tale sulla base degli scarti reciproci, in assenza di senso assoluto. La diffe'rance da luogo a un organizzazione di sistemi a partire dalla rimozione della loro legalita' interna e cosi' la metafisica tradizionale puo' presentarsi come origine e fondazione diventando il discorso che informa e innerva ogni istituzione: il discorso apofantico e' il perno che istituisce la concezione dell'essere su cui la cultura occidentale ha eretto la propria razionalita' diventando l'ovvieta' del mondo e la sua naturalita'; ma questo e' il risultato di un processo storico "politico" prima ancora che teorico.



Derrida e' in sintonia con la stagione culturale tra gli anni sessanta e settanta che, con la sintesi di marxismo e di antropologia, vede la semiolinguistica come scienza della (contro)cultura e strumento privilegiato della critica dell'ideologia. La sua grammatologia ("scienza del gramma") e' una delle forme piu' radicali di analisi del linguaggio e del pregiudizio conservatore che assume come ipostasi extrastoriche quelle che sono istituzioni culturali specifiche di una determinata organizzazione sociale: la stessa canonizzazione della cultura europea coincide con il processo di trasformazione della metafisica classica in volto necessario della verita'.



L'"imperialismo" della filosofia occidentale opera attraverso la divaricazione tra termini che la pratica della decostruzione, analisi del movimento della differenza,mette in luce.Il linguaggio della metafisica si articola in coppie oppositive: termini come realta' e immagine, presenza e rappresentazione, autenticita' e rappresentazione, originale e derivato, modello e copia, visibile e invisibile,intelligibile e sensibile, verita' e errore, spirito e materia, anima e corpo, natura e cultura, bene e male, appaiono sovrapponibili alla diade voce/scrittura. Esse non sono simmetriche ma gerarchicamente situate in modo tale che un termine prevalga sull'opposto per nascondere la loro relazione, sancendo al tempo stesso l'impossibilita' di una diversa declinazione del medesimo orizzonte concettuale.



Sembra impossibile uscire dal paradosso per cui la "scoperta" delle leggi dello spirito umano avviene attraverso una razionalita' che comporta l'obliterazione della specifica forma di mitologia su cui si e' costruito l'Occidente: la stessa filosofia altro non sarebbe che una mitologia che si pretende forma universale della ragione. Per Derrida l'aspetto ornamentale, metaforico e mitico del discorso filosofico si e' progressivamente occultato mediante un processo di ipostatizzazione dei significanti che muove progressivamente dal verosimile al vero. Come leggiamo in Margini, "la metafisica -- mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell'Occidente: l'uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioe' il mythos del suo idioma, per la forma universale di cio' che egli deve ancora chiamare la Ragione. [...] Mitologia bianca -- la metafisica ha cancellato in se stessa la scena favolosa che l'ha prodotta e che tuttavia resta attiva, irrequieta, inscritta in inchiostro bianco, disegno invisibile e nascosto nel palinsesto".



Decostruire significa allora smontare un sapere che si presenta come immediato e legittimo mostrando le opposizioni concettuali che costituiscono il linguaggio filosofico e le mancanze su cui erigono, i giudizi di valore inavvertitamente o implicitamente incorporati nei discorsi filosofici; ma la decostruzione, come si e' visto, e' soprattutto pratica metacognitiva di scrittura: performance intepretativa e artistica sul testo che fa esplodere il potenziale sovversivo taciuto dalle sue righe, inattingibile se non superficialmente dal linguaggio metafisico.



La pratica decostruttiva di ogni scritto chiama in gioco anche l'occhio, a partire dal fatto che la scrittura e' grafia su spazio bianco che con il suo sparire permette l'emersione del testo fino a rendere possibile il gioco interpretativo sugli elementi non fonetici, come punteggiatura, spaziature, virgolette, corsivi, segni grafici, margini. Decostruzione e' la messa in atto della differanza nella lettura dei testi, processo che inverte le logiche di codificazione testuale rovesciandone il tratto autoritario, dogmatico e gerarchico, permettendo di leggere la filosofia come letteratura e viceversa, di giocare sugli elementi testuali piu' marginali (opposizioni, rinvii, consonanze, somiglianze). Ogni interpretazione e' cosi' simile alla ricognizione sui resti di una civilta' ridotta in rovina da una catastrofe, che sono riempiti di nuovo senso e di una cultura sempre "altra" nella ricezione: la metafisica diventa una sorta di "inconscio teorico" all'interno del quale l'interprete-decostruzionista fa emergere il rimosso.



Nonostante l'azione di disturbo, la dislocazione e l'esplosione dei significanti che hanno come obiettivo polemico il sapere istituzionale, in Derrida rimane la consapevolezza che la filosofia non puo' superare il suo linguaggio ponendo fine a se stessa; la narratologia rigetta ogni metafisica affermando l'incapacita' di uscire dal suo stesso alveo. Come la scrittura e' confinata nei suoi margini, la filosofia e' condannata a rimanere dentro ai suoi confini in un lungo interminabile addio.



Si e' gia' detto come decostruzionismo si associ a post-strutturalismo e post-modernismo, definizioni in cui l'autore peraltro non si e' mai riconosciuto. Le linee in cui l'influenza del filosofo si e' articolata e ramificata sono di fatto gia' presenti nel suo pensiero: nella teoria dell'interpretazione in particolare gli Yale Critics hanno sottolineato il momento della ricezione, riprendendo suggestioni romantiche nel riaffermare il ruolo creativo della critica intesa come prosecuzione dell'opera. In chiave di sociologia della cultura, anche in virtu' della profonda affinita' con il marxismo, una molteplicita' di autori ha messo in discussione l'autorita' della e nella produzione culturale ad ogni livello (rapporto tra sapere e potere, politiche editoriali, ruolo autorale), permettendo l'esplosione dei cultural studies e lo studio di territori del conoscere svalutati dalla cultura "alta" (cinema, televisione, fumetti, musica pop, videogiochi, internet).



Nell'ambito delle scienze umane, in particolare nella storia della storiografia e nell'antropologia, il decostruzionismo rientra nella riflessione che sottolinea l'importanza del momento soggettivo e autorale rispetto a quello ingenuamente oggettivo: dichiarata impossibile ogni neutralita', l'oggetto di studi e' inteso come il risultato della disciplina che se ne occupa, capace nelle sue forme di scrittura di una sovradeterminazione che puo' giungere sino all'"invenzione". Analogamente la radicalita' della decostruzione ha influenzato i gender studies e il pensiero post-coloniale che hanno visto in essa uno strumento per sottolineare la fluidita' del concetto di "identita'": maschile e femminile cosi' come razza, etnia, nazionalita' diventano categorie inservibili e soggette a smobilitazione, mostrate nel loro essere prodotti privi di contorni netti e di peso ontologico a favore di una concezione oscillante e instabile dell'identita', irriducibile a categorie metafisiche e oggetto di continua rinegoziazione da parte dei soggetti che se ne fanno portatori.



Nella sua eredita' la decostruzione e' il coronamentodella critica alla cultura occidentale e della "violenza metafisica" di cui questa si e' resa protagonista: smascherando i processi di finzione poietica che in ogni societa' presiedono alla costruzione delle varie forme di umanita'/sapere/cultura, il lavoro di decostruzioneli rende palesi e li colloca all'interno delle vicende storiche, sociali e politiche con cui interagiscono. Con essa la crisi del cogito e della soggettivita' logentrica, antropocentrica ed eurocentrica e' davvero completa. Il rinvio all'altro e' condizione di ogni identita', irriducibile e non passibile di risoluzione hegelianamente intesa; perche' solo la relazione istituisce la presunta autotrasparenza che, in quanto tale, non si da' mai.



Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 07:38:10 PM



Tratto da:

https://www.doppiozero.com/dossier/anniottanta/decostruzione



N° Post: 395
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 11:07:50 AM


heidegger e lacan: ascolto del linguaggio, ascolto dell'essere





If we want to reflect philosophically on Language it is necessary to differentiate the concept of language as communication and the concept of language as a philosophical problem in itself: human beings do not speak, but are spoken by Language, and we can only listen to Language by listening to its silence. This second point of view on language entails many consequences, like psychoanalytic theorizations which considers human beings as a speaking beings. This condition of instinctual lacking in human beings (theirs condition of dependence on the Other) makes language a way to have social recognition, which realizes itself upon founding the institutions. The Law formalizes the social relations as symbolic recognizing. In the "communication society" the role of Language (also as Law) in the human beings' life is reduced more and more as a function of administrative and commercial transactions, entailing a degradation of social links.

La morte non e'
Nel non poter comunicare
Ma nel non poter piu' essere compresi
(P.P. Pasolini, 1964, p. 113).


Secondo Heidegger (1959, pp. 29-30) la riflessione filosofica sul linguaggio non puo' non prendere le mosse da un'iniziale e fondamentale presa di distanza di natura metodologica dalle diverse discipline (dalla linguistica alla psicologia) che si occupano del linguaggio. Se esse infatti tendono sostanzialmente a definirlo come un sistema di segni utili a veicolare dei significati (che corrisponde alla concezione piu' diffusa) la filosofia si occupa del linguaggio in se stesso. Pur riconoscendo il valore di tali discipline, la riflessione filosofica deve poterne prescindere, deve cioe' poter porre tra parentesi il dato del senso comune secondo il quale si parla per dire qualcosa, trasmettere un messaggio (ivi, p. 30). La concezione del linguaggio come comunicazione considera lo stesso su un livello di esteriorita' [1], rispetto alla quale la riflessione filosofica deve dunque astrarre.
Nella prospettiva filosofica heideggeriana il linguaggio in se stesso e' portatore di un'intrinseca connotazione ontologica. Il parlare infatti non e' semplicemente l'espressione di un messaggio tra due esseri dotati di parola, ma fonda l'essere stesso delle cose di cui esso parla: la parola e' gia' in se' cosa di per se stessa (Heidegger, 1959b, p. 151). Colto in tale prospettiva, come qualcosa di piu' di un semplice strumento in dotazione agli esseri umani per condividere esperienze, il linguaggio (?????) si rivela essere legato all'atto del posare (??????), al puro stare-dinnanzi delle cose (Heidegger, 1954b, p. 145-146). Il linguaggio e' legato alla presentazione delle cose in un "posare-raccogliente", e, per questo motivo, puo' esser colto in tale valenza ontologica da un preciso tipo di ascolto: ascoltare il silenzio del linguaggio significa andare ben oltre il semplice battere meccanico del suono sul timpano. Il linguaggio, in quanto ?????, richiede cioe' un ascolto che si differenzia dall'udire ("sordo") del vivere quotidiano:

"non me", cioe' questo individuo che parla, non il suono del suo discorso voi dovete ascoltare. Voi non udite affatto autenticamente fino a che i vostri orecchi rimangono attaccati soltanto al risuonare e al fluire di una voce umana per afferrare in essa una frase che faccia al caso vostro. Eraclito inizia la sua sentenza con un richiamo contro l'udire esercitato per il puro piacere dell'udito. Ma questo avvertimento si fonda su una indicazione che orienta verso l'udire autentico (ivi, p. 147)

E'in questo orientamento dell'udire come ascoltare che si puo' cogliere nel linguaggio il riferimento alle cose stesse, e non in quanto significati o messaggi in cui il rappresentato e' gia' dato in una prefigurazione offerta nella medieta' del senso comune. In tale udire vi e' qualcosa di piu': il linguaggio parla e in quanto ????? pone l'essere delle cose in se stesse, "l'essere dell'essente".
Cio' che quindi farebbe la differenza nel concepire filosoficamente il linguaggio e' il punto di ascolto di esso, donde deriva che non e' tanto l'uomo a parlare quanto piuttosto il linguaggio (Heidegger, 1959c, p. 200).

Il linguaggio e l'essere parlante
Quella di distinguere tra la concezione del linguaggio come parlante e come strumento di comunicazione e' un'operazione fondamentale che diventera' un principio cardine anche nella teorizzazione psicoanalitica di Lacan [2] che non a caso tradusse in francese lo scritto Logos di Heidegger. A partire da queste coordinate filosofiche la comprensione psicoanalitica del linguaggio assume un valore differente rispetto a quella meramente psicologica, esso viene concepito cioe' non come semplice strumento di mediazione tra singoli ma piuttosto come tessuto che organizza e struttura le relazioni sociali (Gurgel, 2009, p. 167), soprattutto a partire dalla funzione della parola come atto di riconoscimento fondamentale del soggetto.
In questo senso Lacan descrive il rapporto che l'essere umano intrattiene con il linguaggio in termini di "campo", cioe' come luogo entro il quale l'essere parlante e' calato gia' fin da prima della sua nascita biologica (che e' quindi successiva alla sua nascita simbolica). Riflessioni che porteranno lo psicoanalista a dire che l'inconscio, cioe' cio' che abita l'umano nella maniera piu' profonda e radicata, e' strutturato come un linguaggio [3].
Si vede bene come sia nella prospettiva filosofica heideggeriana che in quella psicoanalitica lacaniana il linguaggio vada ben oltre la pura e semplice comunicazione tra individui [4], quali soggetti che si scambiano, in piena coscienza e consapevolezza, messaggi e significati, quasi come si trattasse di merci [5]. L'uomo e' piuttosto parlato dal linguaggio e, anzi, e' traumatizzato fin nel corpo dal significante. Un rapporto che in psicoanalisi e' spesso sintetizzato con il gioco di parole mote'rialite' (Lecoeur, 2016, p. 33), quale sintesi di parola e materia, per indicare l'effetto materiale che hanno le parole sul soggetto, sul suo corpo (la parola e' gia' cosa).
Quanto l'uomo sia segnato dal linguaggio si nota sin dalle prime fasi dello sviluppo infantile. Sin dalla nascita l'uomo e' gettato in uno stato di incompletezza biologica e carenza istintuale che lo rendono estremamente dipendente dal proprio ambiente, cio' obbliga l'infans a costruirsi degli strumenti per esprimere le proprie necessita' e a indirizzarle all'Altro da cui dipende in maniera totale (Romano, 1989, p. 178). In tale stato di dipendenza gia' il vagito, il pianto, il grido diventano delle forme primordiali di comunicazione, fino a che la parola non si istaura come rappresentazione di qualcosa che manca (simbolo), come domanda rivolta all'altro rispetto ad un proprio appetire che tuttavia gia' nell'essere comunicato e' mancato. La domanda cosi' mediata dalla parola si sazia non dell'oggetto che essa potrebbe ottenere come risposta ma del gesto stesso di risposta da parte dell'Altro (cioe' del significante). Cosi' il linguaggio fin dal principio possiede l'uomo nei suoi bisogni, dai quali questi risulta sempre essere decentrato: le sue domande non chiedono soddisfazione specifica in un oggetto ma veicolano un desiderio, il quale a sua volta si soddisfa della propria insoddisfazione, di quel vuoto che corrisponde al desiderio stesso che e' il desiderio dell'Altro. La dipendenza fondamentale che chiede accudimento diviene cosi', nella mediazione simbolica del linguaggio, domanda di riconoscimento (Romano, 2002, p. 34). In questo senso il linguaggio e' per l'uomo ben piu' che comunicazione, esso e' la cifra stessa del proprio desiderare, cioe' (nel riconoscimento) del proprio esser soggetto e, quindi, del proprio stare al mondo.
A partire da tale strutturazione del rapporto tra soggetto e linguaggio si rileva come quest'ultimo funga da operatore delle relazioni interpersonali garantendo una funzione di terzieta', di mediazione e garanzia simbolica della relazione. L'effetto di riconoscimento e regolazione delle relazioni sociali assume consistenza specifica nell'istituzione della Legge, quale organizzazione della soggettivita' in rapporto alla struttura sociale. Un luogo simbolico in cui il soggetto trova un proprio orientamento nel vivere sociale, organizzando il proprio agire e desiderare entro l'orizzonte del Terzo (l'Altro della Legge e del linguaggio):

la nozione di ordine simbolico [...] significa che l'animale parlante intrattiene con il mondo un legame di identita'/alterita' e che ogni soggetto intrattiene con se' un legame della stessa natura. Cosi' precisato, il simbolico comporta l'idea di un elemento di costrizione, caratteristico della struttura linguistica (Legendre, 2007, p. 49).

Linguaggio e societa'
Cosi', se il linguaggio e' la struttura che impernia l'umano nella relazione sociale, facendolo con cio' nascere come soggetto di fronte alla Legge, il diritto ne e' per certi versi l'oggettivazione. Nella funzione di refe'rence (cioe' rimando infinito dell'autorita' simbolica ad un altro: "in-nome-di") il diritto istituisce formalmente la funzione di terzieta', garanzia del riconoscimento del soggetto come titolare di desideri-diritti. In tale organizzazione sociale, afferma Legendre, il soggetto nasce all'interno del mondo sociale e cio' gli permette di avanzare una domanda di riconoscimento di se' come essere parlante desiderante.
Un'organizzazione che tuttavia viene messa sempre piu' in crisi nella societa' contemporanea dall'operazione di riduzione del diritto a mero strumento amministrativo, il che erode il suo statuto genealogico (cioe' la sua fondazione simbolica nella forma di "a-nome-di"). La visione tecnico-scientifica del diritto riduce l'organizzazione della struttura simbolica, garanzia del riconoscimento, a mera funzionalita' tecnica, utile a regolare unicamente i rapporti individuali entro un contesto di scambi commerciali svuotati dell'orizzonte di significato (Romano, 2002, p. 125). Un processo di degradazione del diritto da garante del riconoscimento a mera amministrazione funzionale dei rapporti di soggetti di mercato "indipendenti", che conduce gia' in se' una visione pre-filosofica (pre-heideggeriana) del linguaggio quale mero strumento di comunicazione, veicolo di messaggi. Il diritto cosi' nella sua degradazione da ordine simbolico ad astratta operativita' porta con se', sincronicamente, una degradazione al livello sociale del linguaggio stesso. Nella dimensione del mercato globale il vivere sociale tende sempre piu' ad essere amministrato secondo una modalita' economicistica, in cui il linguaggio diffuso e' sempre piu' di natura tecnica e avalutativa (ivi, p. 125). Il sapere tecnico che impregna e desertifica l'universo simbolico muta il linguaggio da evocante (col suo rimandare ad un orizzonte di senso) a numerico (ivi p. 202), riducendosi cosi' a veicolo di disposizioni amministrative e contabili. Il numero sostituisce la lettera, per cui il linguaggio non organizza piu' il riconoscimento soggettivo ma diviene mera cifra che comunica se stessa. In altri termini si tratta di un linguaggio e di un diritto che si auto-fondano e si auto-giustificano in nome della propria funzionalita' e non in quanto genealogia dell'autorita' simbolica (per usare un termine legendriano) (Avitabile, p. 349).
Nello perdita del valore di riconoscimento simbolico del linguaggio, la societa' occidentale contemporanea si delinea come "societa' della comunicazione", cioe' una societa' in cui il linguaggio e' ridotto a veicolo pubblicitario, strumento per comunicare ed eseguire transazioni commerciali, cifra numerica per indicare il prezzo di un prodotto, il saldo da pagare (Romano, 2002, p. 125). Un mondo in cui l'individuo riscopre la propria assoluta liberta' privata, privata anche del terreno del riconoscimento che ne garantirebbe l'effettiva realizzazione (Honneth, 2001). Il desiderio del singolo, lasciato libero dalle costrizioni che i vincoli sociali e simbolici che di per se' operano (Legendre, 2007, p. 49), non si realizza in una pretesa di carattere normativo ma precipita nella condizione di appetito, di bisogno soddisfatto dall'oggetto di consumo (Romano, 2002, p. 124-125). Nella societa' della comunicazione si ha a che fare con individui liberi ma privi di autentica autonomia (Perniola, 2004, p. 52), si tratta cioe' di "io", di soggetti atomistici in una relazione casuale tra loro e privi di mediazioni simboliche. Per questa ragione anche il compito della psicoanalisi assume un connotato differente rispetto a quello che avrebbe potuto assumere precedentemente, esso cioe' "non consiste nell'adattare le persone allo statu quo sociale e comunicativo, ma semmai nel ristabilire la loro relazione con l'ordine simbolico" (ibidem).
Nella degradazione simbolica del linguaggio la societa' della comunicazione, quale societa' degli scambi economicamente orientati, realizza il massimo del potenziale tecnico, lo stesso che Heidegger (1954, p. 21) designa "minaccia" per l'uomo: essa lo distoglie dal raccoglimento, gli impedisce cioe' di ascoltare nel silenzio del linguaggio l'essere delle cose.

Appendice
[1] "La parola greca che corrisponde al nostro "linguaggio" e' ??????, la lingua. Il linguaggio e' ???? ??????????, un'emissione di suono che designa qualcosa. Questo modo di pensare il linguaggio come espressione, che e' bensi' corretto, ma che lo considera dall'esterno, rimane in seguito determinante. Lo e' ancora oggi. Il linguaggio e' considerato espressione e viceversa. Ogni specie di espressione tende ad essere considerata come una specie di linguaggio. [...] Eppure una volta, all'inizio del pensiero occidentale, l'essenza del linguaggio baleno' nella luce dell'essere. Una volta, quando Eraclito penso' il ????? come parola- guida, per pensare in questa parola l'essere dell'essente" (Heidegger, 1954b, p. 156).
[2] "Lacan si sbarazza cosi' di ogni concezione ingenua, psicologistica, del linguaggio: il linguaggio non si esaurisce affatto in una facolta' soggettiva che si acquisisce evolutivisticamente mediante l'esperienza e la memoria. All'opposto, l'idea di Lacan sostiene non che l'uomo impari a parlare ma che e' il linguaggio che parla l'uomo, nel senso che l'essere dell'uomo dipende strutturalmente dall'orizzonte del linguaggio. Il linguaggio non e' dunque un mero strumento della comunicazione ma e' un campo, una rete, una struttura che determina il soggetto. E'questo il carattere "primordiale" che Lacan, come per Heidegger, non e' l'uomo che parla, ma il linguaggio; e' il linguaggio che fa l'uomo" (Di Ciaccia, Recalcati, p. 45).
[3] Riguardo tale concezione del linguaggio come campo di strutturazione relazionale che precede la nascita del soggetto stesso anzi la permette al livello simbolico e' ben esemplificato da quanto Lacan dice a proposito dell'ignoranza della legge penale: "Si presume che nessuno ignori la legge, -- questa formula trascritta dall'humor di un Codice esprime peraltro la verita' di cui la nostra esperienza si fonda e che conferma. Nessun uomo l'ignora infatti, poiche' la legge dell'uomo e' la legge del linguaggio da quando le prime parole di riconoscimento hanno presieduto ai primi doni [...]" (Lacan, 1966, pp. 264-265). Si veda ancora a questo proposito Gurgel, 2009, pp. 167-168.
[4] "Ce sujet conscient, maîtrisant, fait la diffe'rence entre linguistique et psychanalyse. Leurs terrains e'piste'mologiques sont distincts. Les linguistes et les psychanalystes "e'coutent" certes des paroles, mais de facon diffe'rente. Les premiers cherchent a' de'crire des langues, a' construire une the'orie scientifique de leur fonctionnement. Leur souci est l'objectivite', le ge'ne'ral, suivant en cela le chemin aristote'licien. Aussi pour-chassent-ils "tout" subjectivite', alors que les psychanalystes la revendiquent dans l'e'coute associative et que leur but consiste non en une the'orie du langage mais de l'Incoscient" (Houdebine, 2005, pp. 987-988).
[5] "[...] e' piu' importante ricordare che questa ideologia del soggetto-cosciente ha costituito la filosofia implicita della teoria dell'Economia Politica classica, e che Marx ha criticato proprio la sua versione "economica", rifiutando l'idea di "homo economicus", secondo la quale l'homo e' il soggetto cosciente dei propri bisogni e questo soggetto-di-bisogno e' l'elemento ultimo e costitutivo di ogni societa'" (Althusser, 1993, p.215).

Riferimenti bibliografici
-- Althusser L., (1993), Il caso Tiblisi, 1976-1984, in Sulla Psicoanalisi. Freud e Lacan, Raffaello Cortina, Milano, 1994.
-- Avitabile L., La filosofia del diritto in Pierre Legendre, Giappichelli, Torino, 2004.
-- Di Ciaccia A., Recalcati M., Jacques Lacan. Un insegnamento sul sapere dell'inconscio, Bruno Mondadori, Milano, 2000.
-- Gurgel I., Linguaggio, in "attualita' lacaniana. Rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi", n. 10, 2009, pp. 167-169.
-- Heidegger M. (1954), trad. it. Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 2014.
-- Heidegger M. (1959), trad. it. In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano, 1973.
Houdebine A.-M., voce "Linguistique et psychanalyse", in de Mijolla A. (a cura di), Dictionnaire international de la psychanalyse, Hachette Litte'ratures, Parigi, 2005.
-- Honneth A. (2001), trad. it. Il dolore dell'indeterminato, una attualizzazione della filosofia politica di Hegel, manifestolibri, Roma 2003.
-- Lacan J. (1966), trad. it. Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino, 2002, pp. 230-316.
-- Lecoeur B., La voce, in "La Psicoanalisi", n. 60, 2016, pp. 32-44.
-- Legendre P. (2007), trad. it. Lo sfregio, Giappichelli, Torino, 2010.
-- Legendre P., Droit, communication et politique. Entretien avec Daniel Dayan et Jean-Marc Ferry, in "Hermes", n. 5-6, 1989, pp. 21-32.
-- Pasolini P. P. (1964), Una disperata vitalita', in Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano, 2001, pp. 112-114.
-- Perniola M., Contro la comunicazione, Einaudi, Torino, 2004.
-- Romano B., Il diritto tra desiderio e linguaggio. L'autocoscienza in Hegel e l'inconscio in Lacan, Bulzoni, Roma, 1989.
-- Romano B., Filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2002.


Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 11:08:35 AM



http://ritirifilosofici.it/heidegger-e-lacan-ascolto-del-linguaggio-ascolto-dellessere/




N° Post: 394
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 11:03:02 AM


LINGUAGGIO, UOMO, EVENTO




di Andrea Sacconi



[Questo lavoro e' nato come contributo per la Call for Papers del 2017 della Rivista Logoi, il cui tema era Heidegger e i linguaggi. Tuttavia non e' stato mai pubblicato.

La versione qui riproposta riprende sostanzialmente quella inviata alla Rivista Logoi nel 2017, fatta eccezione per l'ultimo paragrafo (Aggiunta: L'Evento e il fondamento essenziale della verita') che e' stato scritto nel Gennaio 2019 con il fine di esplicitare alcuni impliciti contenuti nell'articolo; esplicitazioni che cercano di ampliare il raggio d'azione della ricerca che l'articolo indica, l'oggetto della quale e' la filosofia di Martin Heidegger e il suo tentativo di pensare prima e oltre l'onto-teologia.

Chi scrive pensa che tale tentativo possa avere applicazioni anche da un punto di vista "pratico-esistenziale", anche nell'ambito delle cosiddette pratiche filosofiche. ]





Abstract

This paper will be f0cused on three Martin Heidegger's philosophy keystones: language, human, Event. As we will see in this work, it's impossible to give a conceptual hierarchy to these three terms. As a matter of fact, each term will reciprocally take on a meaning by the other two, as Heidegger himself describes in his paper The Language. In keeping this process, Heidegger makes use of an alternative logic than the traditional one.



Parole-chiave:

Linguaggio, Uomo, Evento, Aletheia



Tutta la riflessione filosofico-speculativa di Martin Heidegger puo' essere vista come il tentativo di pensare l'essere[1] in maniera piu' originaria e piu' essenziale rispetto ai modi propri del pensiero dominante della metafisica in quanto onto-teologia.

Al di la' delle differenze storiche, quest'ultima ha sempre pensato l'essere in quanto Essere, determinandolo cioe' nel modo dell'ente, vale a dire dell'essente-presente, arrivando anche a pensarlo come Ente Sommo. La modernita' poi, figlia del cartesianesimo e caratterizzata dal concetto di verita' come concordanza, certezza, correttezza, ha fondato la propria speculazione filosofica sul dualismo soggetto/oggetto, dando preminenza al lato oggettivo del dualismo stesso. Persino laddove l'Essere e' pensato come Soggetto (in Hegel in maniera particolare), e' sempre la sua determinazione come ente che assume l'importanza maggiore. E'Heidegger stesso che, attraverso una ricostruzione della storia dell'idealismo, da Platone a Hegel, ci indica questo aspetto non immediatamente visibile e per lo piu' trascurato[2].

Heidegger, consapevole della violenza che ogni determinazione metafisica comporta nell'affrontare il problema fondamentale della filosofia, tenta di indicare una via alternativa per fare luce sulla questione dell'essere. E'per questo che egli insiste, piu' o meno esplicitamente in ogni sua opera, nel mettere in evidenza l'importanza di un "altro inizio" per la filosofia, un inizio piu' originario raggiungibile attraverso il ri-pensamento del concetto di verita' propria dei Greci, in particolare dei Presocratici.

Questo concetto, espresso dalla parola greca Aletheia, secondo Heidegger e' stato pensato dai Greci in maniera essenziale soltanto in parte, per di piu' in modo soltanto unilaterale[3]. L'imposizione di uno solo degli aspetti che l'Aletheia suggeriva e comprendeva nel suo concetto originario (quello della "sveltezza come manifestativita'", dell'ente prima e della coscienza poi) ha condotto il pensiero verso quell'essenza della verita' come concordanza, certezza, correttezza che ancora oggi predomina. Tale essenza della verita', oltre ad esprimere l'approfondimento filosofico a cui la verita' metafisica e' stata sottoposta nel corso della storia del pensiero, denota anche l'essenza storica della verita' stessa. Le fasi che la metafisica ha attraversato fino ad oggi, che sono anche le fasi epocali della storia dell'umanita', sono, in definitiva, le fasi della trasformazione storica del concetto e dell'essenza della verita'.

Puo' l'essenza della verita' essere ri-pensata oggi, nell'epoca del compimento della metafisica, in maniera originaria, piu' originaria persino di come essa fu pensata dai primi filosofi greci?

Tutta l'opera heideggeriana non vuole far altro che questo: ri-pensare in maniera piu' essenziale e comprensiva l'essenza della verita' greca; ri-pensare cioe' il "primo inizio" della filosofia, andare alla sua origine non pensata (o pensata soltanto unilateralmente) per proporre un "altro inizio". Ogni fase storico-metafisica puo' essere spunto per riconquistare questa originarieta' iniziale. Se da un lato, nelle sue opere di "storia della metafisica" Heidegger evidenzia bene il nesso che esiste tra la trasformazione dell'essenza della verita' in quanto Aletheia unilateralmente pensata e il tema dell'oblio dell'essere, dall'altro, nelle sue opere piu' speculative (tra le quali i Contributi alla filosofia hanno senza dubbio un ruolo centrale) insiste molto sul carattere "ek-sistenziale" di questo concetto di verita'. E'a partire da un profondo ri-pensamento dell'essenza della verita' in quanto Aletheia che Heidegger, infatti, formula la sua definizione di essere come Evento, definizione questa che e' il fulcro di tutta l'opera heideggeriana. Comprendere cosa significhi Evento per Heidegger e' un passo indispensabile per capire il suo pensiero.



Da quanto detto in questo breve e sintetico tentativo di riassumere l'articolata, profonda e complessa ricerca di Martin Heidegger, emerge che e' sull'essenza della verita' che Heidegger, in definitiva, ri-cerca. La verita', per come egli la intende, e' si' verita' per l'uomo, ma, prima di tutto, e' Verita' dell'essere, "primo passo" verso la comprensione del "suo" senso. In questo doppio genitivo e' racchiusa tutta l'enigmaticita' dell'essere che Heidegger tenta di comprendere; enigmaticita' che e' ben evidenziata dal termine heideggeriano "oscillazione". Non solo tale verita' e' verita' sull'Essere, cioe' sua determinazione ontologico-metafisica, ma essa e' prima di tutto Verita' propria dell'essere, a cui anche l'uomo (e l'esserci che in definitiva egli e') appartiene. L'"oscillazione" allora si esprime in quel rapporto, di vicendevole scambio, tra esserci ed essere, tra quel progetto-gettato che e' l'uomo e l'Aperto in cui quest'ultimo e', appunto, inevitabilmente gettato fin dall'inizio; cioe' tra l'uomo e quel mondo che appare come mondo e puo' essere mondo solo dopo e grazie all'insistenza ek-sistente dell'uomo stesso.

Nel rapporto di oscillazione vicendevole si deve scovare al contempo l'appartenenza dell'uomo all'essere ma anche l'indispensabilita' dell'uomo per l'essere, cioe' per la manifestazione della "sua" "essenziale permanenza".

Heidegger descrive cosi' questo rapporto vicendevole tra essere ed esserci:



L'essere ha bisogno dell'uomo per essere essenzialmente e l'uomo appartiene all'essere per compiere la sua estrema determinazione in quanto esser-ci.

[...] Questo rimbalzo (Gegenschwung) di aver bisogno e appartenere costituisce l'essere come Evento, e il primo compito speculativo che ci spetta e' quello di elevare l'oscillazione (Schwingung) di questo rimbalzo nella semplicita' del sapere e di fondarlo nella sua verita'.[4]



Con queste parole abbiamo la resa esplicita, seppur ancora poco chiara, di cosa Heidegger intenda per "essere come Evento". L'oscillazione, qui evidente, tra essere ed esserci suggerisce che non solo l'essere ha bisogno dell'intervento ek-statico dell'uomo per essere essenzialmente, ma che l'essere e' Evento, dunque (anche) esperienza; un'esperienza essenziale, fondamentale, pre- ed ultra-metafisica; un'esperienza autentica attraverso cui l'uomo (cioe' l'esserci in quanto suo modo d'essere) viene "appropriato" dall'essere stesso esperendone cosi' la Verita'. Heidegger ha dunque di mira l'apertura verso quella che si potrebbe chiamare una "autentica esperienza dell'essere". A confermare cio' il seguito del paragrafo: "Dobbiamo d'altra parte rinunciare all'abitudine di voler assicurare questa essenziale permanenza dell'essere come qualcosa che puo' essere rappresentato in un modo qualsiasi per chiunque e in ogni tempo."[5] L'esperienza dell'essere e' non solo pre- ed ultra-metafisica, ma, di piu', essendo appunto esperienza, disponibilita' positiva all'Evento, non e' rappresentabile metafisicamente, non e' totalmente comunicabile attraverso il linguaggio della concettualita' tradizionale.



L'unicita' dell'essere (in quanto Evento), l'irrappresentabilita' (nessun oggetto), la somma stranezza e l'essenziale velarsi: non sono che indicazioni, seguendo le quali dobbiamo prima di tutto prepararci per presagire, di fronte all'ovvieta' dell'essere, cio' che piu' di tutto e' raro, nella cui apertura noi stiamo, anche se il nostro essere uomini il piu' delle volte opera nel senso del distogliercene.[6]



Ma allora, se l'autentica esperienza dell'essere, quella che "lo" fa apparire come Evento contribuendo cosi' alla "sua" manifestazione essenziale, non puo' essere ne' descritta concettualmente ne' tantomeno fissata metodologicamente, come puo' venir comunicata, spiegata e, quindi, compresa?

La riposta a questa domanda e' contenuta nei molti tentativi che Heidegger compie nei suoi scritti, a partire da quelli esplicitamente rivolti alla questione del linguaggio. In questi scritti, nei quali Heidegger prende spesso a tema il modo pensante-poetante del linguaggio stesso, si assiste ad un argomentare non-lineare e non deduttivo, dunque molto poco conforme alla resa linguistica del pensiero propria della tradizione occidentale.

Non a caso si e' scelto il termine "tentativo" per descrivere il procedere della riflessione heideggeriana. Non perche', in quanto tentativi, questi scritti possano non arrivare ad una qualche conquista conclusiva o, peggio ancora, non abbiano ben chiaro il tema su cui provano a far luce; bensi' perche', in questi scritti, Heidegger si serve del linguaggio, e di cio' che la forma linguistica, nel suo svilupparsi, suggerisce o impone di prendere in considerazione, al fine di aprire per il proprio lettore orizzonti di senso piu' essenziali, di condurlo verso quel Luogo (Ort) dove l'ovvio diviene misterioso e il semplice carico di senso. Insomma, ogni scritto heideggeriano puo' essere visto come tentativo perche' e' una indicazione, un sentiero poco o per nulla battuto, un modo di condurre il lettore a quella radura che e' quell'Aperto nel quale e dal quale poter fare un'esperienza autentica dell'essere.



In questo lavoro prenderemo spunto da uno "scritto-tentativo" heideggeriano contenuto ne In cammino verso il linguaggio[7]. Seguendo il pensiero di Heidegger, pensiero che, come si vede bene durante la lettura, si fa nel mentre si esplicita linguisticamente, cercheremo di mostrare come il procedere del pensiero stesso abbia come propria ultima meta quella di ben-disporre l'ente a cui si rivolge (cioe': l'uomo) alla possibilita' dell'esperienza dell'essere in quanto Evento, di offrire cioe' al lettore un approdo alla radura dell'essere, luogo pre-metafisico nel quale puo' dischiudersi il Mistero dell'essere stesso.



RICERCARE SUL LINGUAGGIO

Nel saggio intitolato Il linguaggio[8], Heidegger ricerca, come si evince gia' dal lapidario titolo, sul linguaggio.

Ma cosa significa ricercare su qualcosa? Cosa viene ri-cercato?

La tradizione metafisica e' chiara a tal proposito: cio' che si ricerca e' l'essenza dell'oggetto preso a tema, la determinazione di cosa esso sia in universale. Cio' risulta possibile solo se si puo' disporre di un punto fermo fondamentale dal quale evincere l'essenza dell'oggetto. Per quanto riguarda la ricerca sul linguaggio, il punto fermo che la tradizione ha fissato e' l'uomo, l'uomo in quanto animal rationale.

Heidegger accetta questo stretto legame tra uomo e linguaggio. Tuttavia si chiede: sappiamo noi cos'e' un uomo?

Certo, chiedere del linguaggio e', inevitabilmente, chiedere anche dell'uomo. Uomo e linguaggio si co-appartengono. Pero', una volta tolta la certezza del termine fondamentale, tutto sembra cadere in un abisso. La strada verso la ricerca dell'essenza del linguaggio sembra impraticabile una volta perduta la determinazione fondamentale sull'uomo. E'possibile una strada alternativa per far luce sul linguaggio?

Heidegger indica questa strada trasformando il modo stesso di ricercare e, a monte, anche il ricercato stesso. Nel saggio infatti viene messo in risalto piu' volte che non e' l'essenza del linguaggio cio' che e' da ricercare, ma, come dice il titolo, ("soltanto") il linguaggio.



Noi non vogliamo aggredire il linguaggio per coartarlo entro la stretta di idee gia' prefissate. Non intendiamo ricondurre l'essenza del linguaggio a un concetto perche' questo possa fornire un'idea del linguaggio utilizzabile in tutti i casi, tale da appagare ogni esigenza del pensiero presentativo.[9]



Poco dopo, in maniera quasi programmatica, Heidegger delimita il metodo del suo tentativo di pervenire al parlare del linguaggio.



Il riflettere sul linguaggio esige pertanto che noi ci inoltriamo entro il parlare del linguaggio per prender dimora presso il linguaggio: nel suo parlare, cioe', e non nel nostro. [...] E'al linguaggio che va lasciata la parola. Non vorremmo ne' fondare il linguaggio in qualcosa di estrinseco e altro rispetto ad esso, ne' vorremmo spiegare per mezzo del linguaggio altro dal linguaggio stesso.[10]



L'obiettivo della ricerca e' chiaro ma enigmatico: non ci si puo' appoggiare a nulla di esterno al linguaggio e neppure utilizzare il linguaggio per spiegare qualcosa che non lo riguarda, qualcosa che sia altro da esso. L'idea di uomo in quanto animal rationale non solo non puo' servire da base di partenza per la ricerca sul linguaggio, ma deve essere messa da parte, e anche in discussione, se si vuole intraprendere il viaggio verso il parlare proprio del linguaggio stesso.

Di piu': tra i due termini in co-appartenenza (uomo e linguaggio), e' il secondo ad essere fondamentale per il chiarimento del primo; cioe', una volta pervenuti al linguaggio in quanto linguaggio-che-parla si potra' forse sapere qualcosa di piu' anche sull'essenza dell'uomo. ""Erortern" il linguaggio non significa tanto riportare esso, bensi' riportare noi, al luogo della sua essenza: convenire nell'Evento.[11]" Heidegger ha qui di mira l'apertura per quella che abbiamo chiamato "autentica esperienza dell'essere"; vuole cioe' ben-disporre l'uomo all'esperienza dell'essere in quanto Evento.

Ma come e dove cogliere il parlare del linguaggio?

Ogni espressione linguistica puo' fungere da oggetto per pervenire al parlare del linguaggio. Tuttavia, per perseguire questo fine, alcuni modi linguistici sono piu' appropriati di altri. Intanto la forma scritta: essa e' gia' detta, e' possibilita' realizzata, e' traccia che rimane e perdura e che, in questo perdurare, custodisce i segreti del linguaggio stesso. Poi, tra le molteplici espressioni scritte, non tutte sono manifestazioni piene e pure del parlare proprio del linguaggio. Un discorso di un politico, cosi' come uno slogan pubblicitario o addirittura una lista di attivita' da svolgere, sono tutte espressioni linguistiche che appartengono troppo ad un contesto specifico; esse rimandano si' ad un mondo di significati ma, appunto, proprio denotando il proprio mondo, non parlano mai, direttamente e puramente, del proprio del linguaggio. Pur essendo possibile, ipoteticamente, utilizzare queste espressioni per pervenire al parlare puro del linguaggio, il percorso che andrebbe seguito sarebbe troppo lungo e tortuoso e comporterebbe il riflettere su aspetti del mondo non strettamente riguardanti il linguaggio e il suo parlare. E'per questo che, per tentare di cogliere il parlare del linguaggio, oltre alla forma scritta e' opportuno scegliere espressioni linguistiche piene e pure. Tra queste la forma poetica e', per Heidegger, la forma piu' essenziale, quella nella quale la parola detta "si configura come una pienezza iniziante".[12]

Nello scritto Il linguaggio Heidegger prende a tema una poesia di Georg Trakl intitolata Una sera d'inverno. Concentrando la nostra attenzione non solo su cio' che Heidegger determina come l'essenziale di questo componimento, ma anche sul modo attraverso cui trae fuori dall'espressione linguistico-poetica questo essenziale, cercheremo di mostrare come l'analisi della poesia sia un tentativo di condurre ad una certa esperienza del linguaggio, un insegnamento che ha come scopo quello di indicare un nuovo modo per il pensiero e per il pensare, in definitiva uno stimolo per ben-disporre alla ricerca della Verita' dell'essere e, al medesimo tempo, anche una tentazione, uno stimolo rivolto all'essere stesso affinche' si manifesti come Evento[13].



IL PARLARE DEL LINGUAGGIO

La poesia di Trakl Una sera d'inverno e' composta di tre strofe. Ogni strofa descrive tre ambientazioni: un paesaggio invernale esterno, il contrasto tra chi vive questo paesaggio da viandante e chi invece puo' rifugiarsi nella propria abitazione, la soglia che divide l'esterno dall'interno.

Heidegger rifiuta subito di analizzare tradizionalmente il componimento, e lo fa per non rimanere troppo legato a quell'idea di linguaggio che domina ormai da millenni e che in esso vede "l'espressione, attuata dall'uomo, di moti interiori dell'animo e della visione del mondo che li regge."[14] Considerare il linguaggio come espressione non puo' che sbarrare la strada a chi vuole trovare un fondamento adeguato per pervenire al Luogo (Erorterung) e al proprio del linguaggio in quanto linguaggio-che-parla. Per contro Heidegger sentenzia cosi' sul linguaggio e sulla sua ricerca:



Il linguaggio nella sua essenza non e' ne' espressione ne' attivita' dell'uomo. Il linguaggio parla. Noi ricerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia. Cio' che si cerca e', pertanto, racchiuso nella poeticita' della parola.[15]



Cosa significa qui "parlare"? Come funziona tale parlare del linguaggio?

La poesia, dice Heidegger, "parla" attraverso il linguaggio. Questo parlare "nomina" la sera d'inverno. Questo nominare "chiama" e, in questo chiamare, "avvicina" cio' che chiama, cio' che e' lontano, cioe' e' "appello alla lontananza". Il parlare e', al contempo, un chiamare presso (alla presenza) e lontano (all'assenza).

Qui si tratta di mettere in evidenza l'attivita' performativa sui generis che il linguaggio poetico svolge nel momento stesso in cui realizza il suo contenuto, realizzando cosi' anche se stesso. La chiamata del linguaggio e' un'azione particolarissima, capace di creare un legame tra una lontananza assente e una vicinanza presente. Di piu': essendo un chiamare, la chiamata del linguaggio non puo' che essere situata, anzi: "invita" a venire nel Luogo da cui parla. Questo invito e' rivolto tanto alle cose che la poesia nomina (la neve, la campana, il paesaggio invernale esterno; la casa, la tavola, il rifugio interno), quanto alle "dimensioni spazio-temporali" ed "esistenziali" di cui si puo' fare esperienza, ovvero la presenza e l'assenza. L'invito che la parola poetica proferisce e' un invito al "mondo". Non solo: invitando il mondo al proprio "luogo", la parola poetica non puo' che invitarlo anche ad essere cio' che e' essenzialmente; l'invito non e' un invito "quantitativo" ma "modale", e' cioe' un invito che chiama l'essere e non gli enti; e' un invito che in definitiva si ri-volge all'"essere cosa delle cose."[16] Ri-volgersi all'essere significa pre-disporsi all'Evento, prepararlo, tentare la "sua" venuta.

La seconda strofa, infatti, funziona come un preparativo. Pur rivolgendosi ora ai mortali (anzi: ad alcuni tra essi, cioe' ai viandanti, a coloro che sono in cerca della propria dimora), i versi che la compongono "dicono al mondo di venire"[17], e lo fanno nella modalita' propria del genere poesia, cioe' attraverso la metafora (qui espressa dall'"albero delle grazie"). Il parlare del linguaggio poetico tenta di ri-volgersi all'essere per mezzo del dire che "sollecita" il mondo a venire. Dice Heidegger:



Come il chiamare [della prima strofa], che nomina le cose, chiama presso e rimanda lontano, cosi' il dire [della seconda strofa], che nomina il mondo, e' invito a questo a farsi vicino e, al tempo stesso, lontano. Esso affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le cose nello splendore del mondo. Il mondo concede alle cose la loro essenza. Le cose fanno essere il mondo. Il mondo consente le cose.

Il parlare delle prime due strofe parla nell'atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose.[18]



Questo estratto mostra bene il rapporto vicendevole che si instaura tra "mondo" e "cose". Non c'e' qui spazio per una netta divisione categoriale tra cio' che e' mondo e cio' che e' cosa; entrambi si reggono reciprocamente; l'essenza dell'uno e' riposta sul fondamento dell'altra e viceversa; i due termini si compenetrano senza possibilita' di discernimento intellettivo.

Eppure la differenza tra i due termini si da', cosi' come si da' una loro unita'. I due termini differiscono nello Stesso ma, anche, si con-fondono nella Differenza. Bisogna allora trovare cio' che differenzia ma allo stesso tempo unifica mondo e cose rendendoli aspetti dello Stesso.

Questo elemento di differenziazione e di reciproca appartenenza non puo' essere scovato per mezzo degli strumenti propri del pensiero metafisico-rappresentativo. La relazione che si instaura tra mondo e cose non puo' essere determinata come una relazione oggettiva, cioe' "oggettivamente esistente". Qui Heidegger implicitamente suggerisce che c'e' bisogno di una nuova "Logica" per poter pensare l'essere pre- ed ultra-metafisicamente, cioe' per poterlo esperire come Evento.

Heidegger rintraccia tale elemento nell'intimita' tra i due termini; intimita' che e' espressa nella poesia per mezzo dell'immagine della "soglia" in quanto "dif-ferenza", "frammezzo".



Mondo e cose non sono infatti realta' che stiano l'una accanto all'altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi i Due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unita'. Per tale unita' sono intimi. La linea mediana e' l'intimita'. [...]

L'intimita' di mondo e cosa e' nello stacco del frammezzo, e' nella dif-ferenza.[19]



La "soglia" appare nella terza strofa della poesia. E'qui che la poesia, attraverso il suo linguaggio, conquista qualcosa di non-saputo per offrirlo al pensiero filosofico affinche' lo fondi nel sapere: "Nel nominare, che chiama cosa e mondo, quel che e' propriamente nominato e' la dif-ferenza".[20] Questa conquista e' gia' presente ed operante, seppur in maniera implicita e latente, in ogni verso della poesia:



La composizione operata dalla differenza non e' qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi la differenza sopraggiungesse recando una linea mediana e con questa congiungesse mondo e cose. La dif-ferenza, in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioe' stabilisce il loro essere l'uno per l'altro, di questo fondando e compiendo l'unita'.[21]



Cio' significa che la dif-ferenza precede (anche logicamente) la manifestazione del mondo e delle cose, cosi' come pre-cede la loro essenza rendendo possibile il loro rispettivo relazionarsi. Qui, il sapere implicito che la poesia porta con se' scopre qualcosa che il pensiero metafisico non potra' mai mostrare. Piu' essenziale delle cose intese come enti calcolabili, piu' essenziale anche del mondo inteso come progetto aggregato di queste cose, questa dif-ferenza e' il fondamento sul quale entrambi i termini si reggono, e' la condizione di possibilita' del mondo e delle cose, la loro "dimensione":



Il termine "dif-ferenza" non indica percio' piu' una distinzione posta tra oggetti del pensiero rappresentativo. Ne' la dif-ferenza e' solo una relazione oggettivamente esistente fra mondo e cosa, che il pensiero presentativo, venendovisi ad imbattere, possa constatare. Ne' la dif-ferenza e' comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa. La differenza di mondo e cosa fa che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello che consente le cose.

La dif-ferenza non e' ne' distinzione ne' relazione. La dif-ferenza e' semmai la dimensione del mondo e delle cose.[22]



E'dunque la terza strofa che regge e da' senso a cio' che le altre due hanno chiamato. Qui e' racchiusa l'"essenza del parlare" come "autentico chiamare" che fa venire mondo e cose nella loro essenziale, reciproca intimita', nella "quiete" del loro essenziale relazionarsi. Dice Heidegger: "La dif-ferenza acquieta in duplice maniera. Acquieta, facendo si' che le cose riposino nella grazia del mondo. Acquieta, facendo si' che il mondo trovi appagamento nella cosa."[23] La dif-ferenza, come condizione di possibilita' del mondo e delle cose, rende possibile il loro manifestarsi essenziale. Qui Heidegger vuole ben-disporre chi sta leggendo a tale duplice manifestazione. Infatti, cio' che in definitiva Heidegger ha di mira e' mostrare la possibilita' di un'esperienza nuova, piu' autentica, del mondo e delle cose.

Scoperta la dif-ferenza, tanto il mondo quanto le cose possono apparire, oltre che in base al loro reciproco legame non-metafisico, sotto una luce nuova, pre- ed ultra-metafisica. Esperire mondo e cose attraverso questa luce e' fare esperienza di quello che Heidegger chiama Evento, cioe' quella manifestazione dell'essenza della Verita' in quanto Aletheia non-unilateralmente pensata e concretamente esperita. Affinche' l'Evento si manifesti non basta ne' l'intelletto che divide ne' la Ragione che unisce. L'essere in quanto Evento "ha bisogno" dell'ek-staticita' autentica dell'uomo, del suo essere progetto-gettato modalmente pre-disposto ad essere appropriato dall'essere stesso.



LINGUAGGIO, UOMO, EVENTO

In questa analisi della poesia di Trakl la figura che rimane sullo sfondo e' l'uomo, nel suo ruolo di lettore.

Heidegger, infatti, ha mostrato cosa sia il linguaggio-che-parla, che-chiama, che-nomina e invita. Poi ha determinato questo parlare del linguaggio come Evento, come "l'evenire della dif-ferenza"[24] che fonda e rende possibile mondo e cose nel loro reciproco dispiegarsi essenziale. Tuttavia non ha affrontato il tema dell'uomo, di quell'ente cioe' per il quale mondo e cose possono manifestarsi ed essere-essenzialmente. Eppure tutta l'analisi sembra essere a lui rivolta; tutto il percorso tracciato e' espressione di un modo che vuole ben-disporre l'uomo all'ascolto del linguaggio; e' un tentativo e una indicazione affinche' l'uomo, attraverso il parlare essenziale del linguaggio, possa pre-disporsi all'esperienza autentica dell'essere in quanto Evento. La conclusione del saggio esplicita questo implicito insegnamento



Il parlare umano, in quanto parlare dei mortali, non ha il proprio fondamento in se stesso. Il parlare dei mortali ha il suo fondamento nel rapporto col parlare del linguaggio. [...]

Il modo con cui i mortali, quando la dif-ferenza li chiama a se', a loro volta parlano e' il corrispondere. Il parlare mortale presuppone l'ascolto della Chiamata, identificandosi con la quale la quiete della dif-ferenza chiama mondo e cose nella cesura della sua semplicita'. Ogni parola del parlare mortale parla sul fondamento di questo ascolto e solo come questo ascolto.

I mortali parlano in quanto ascoltano. Essi prestano attenzione al richiamo della quiete della dif-ferenza, anche quando non lo conoscono. L'ascolto prende dalla Chiamata della dif-ferenza cio' che immette nella parola percepibile. Questo parlare ascoltando e recependo e' il cor-rispondere.[25]



Solo nel cor-rispodere capace di ascoltare la Chiamata del linguaggio l'uomo si pone in maniera autentica rispetto all'essere; solo sapendo la dif-ferenza come condizione di possibilita' di quell'Aperto da cui scaturiscono essenzialmente mondo e cose l'uomo puo' esperire l'essere sotto la luce nuova dell'Evento. In questa esperienza tanto il mondo quanto le cose perdono il loro essere mero mondo progettabile e mere cose utilizzabili e manipolabili. Entrambi i termini si mostrano "come lo spazio libero (das Freie) dell'audacia del creare, come lo spazio scoperto (das Ungeschu'tzte) della disputa della gettatezza; entrambi in se' coappartenentesi come la radura per il velarsi"[26], e, in questo modo di mostrarsi, mostrano anche la finitezza ek-statica dell'uomo, meglio: dell'esser-Ci, del "Ci in quanto fatto-avvenire e fatto proprio nell'Evento."[27]

Queste parole di Heidegger cosi' enigmatiche, eppur anche cosi' pregne di significato, vogliono descrivere precisamente cosa significhi esperire l'essere in quanto Evento e appartenere all'E-vento in quanto evento-appropriazione. Heidegger vuole qui descrivere, attraverso un linguaggio unico eppure anche inevitabilmente tradizionale, quella "autentica esperienza dell'essere" che e' stata il vero motivo del presente lavoro. Per giungere a tale "esperienza" bisogna essere ben-disposti nei confronti dell'essere, ma anche tentare la "sua" manifestazione essenziale, ben sapendo che tale manifestazione e' figlia della "decisione" dell'uomo stesso in quanto esser-ci, l'espressione della sua massima ed estrema "Responsabilita'".

Tentare l'essere e' prima di tutto un esercizio estremo del pensiero per pensare pre- ed ultra-metafisicamente. Nello scritto Il linguaggio, Heidegger, nell'insegnare al lettore come pensare alternativamente alla tradizione, non puo' che indicare anche un'esperienza alternativa concreta, un'esperienza che vede essere ed esserci "venirsi incontro", cor-rispondersi, dipendere l'uno dall'altro e, quindi, anche appartenere l'uno all'altro. Nell'esperienza autentica dell'essere ne' essere ne' esserci si volgono le spalle, ma si compenetrano, si rispondono, si con-fondono, si completano. Pervenire all'esperienza dell'essere in quanto Evento non significa ne' assumere una posizione idealistica ne' tantomeno una empirista, ma, semplicemente, "abitare" il fondamento abissale su cui ogni posizione metafisica, pur non sapendolo, si fonda. Riuscire a farne esperienza e' il primo passo verso l'accettazione da parte dell'uomo del suo ruolo estremo e essenziale di "attualizzatore di mondi".



AGGIUNTA: L'EVENTO E IL FONDAMENTO ESSENZIALE DELLA VERITÀ

Nel corso di quanto detto finora abbiamo insistito piu' volte sulla ricerca dell'essenza della verita' come cuore del problema posto da Heidegger in tutta la sua opera. Abbiamo anche sbrigativamente ammesso, con Heidegger, la storicita' della verita' stessa, storicita' che, nell'epoca in cui viviamo, si manifesta nella verita' come concordanza, certezza, correttezza. La Verita' dunque non sarebbe (neppure Essa!) Una, ma soggetta anch'essa al divenire storico? Cio' che per noi oggi e' "vero" non e' detto che lo sarebbe stato anche per un uomo della Grecia Antica? Cosi' ammettendo, non si rischia di far decadere la Verita' stessa a mero "dato storico contingente" o, peggio ancora, a "invenzione" dell'uomo? a quella "specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere"[28] di cui parla Nietzsche? dunque a nulla di Assoluto ma piuttosto, semplicemente, a valore, in fondo, "umano, troppo umano" ?

Per essere all'altezza di queste obiezioni, le quali non solo conducono alla deriva scettica in quanto posizione filosofica, ma soprattutto portano a quello scetticismo relativista che oggigiorno caratterizza il cosiddetto senso comune e che porta con se' una certa rassegnazione all'insensatezza dell'esistenza, e' necessario rispondervi in maniera radicale, andando cioe' a cogliere la radice di cio' che accomuna le varie essenze della verita' che storicamente si sono avvicendate e mostrando che sempre tale radice si e' radicata su un terreno-fondamento non indagato in quanto tale, ma accolto piuttosto, e accolto come saldo solamente per semplice, immediata fiducia.

Qual'e' questa radice? Cosa le varie essenze della verita' che si sono storicamente avvicendate hanno in comune?

Cio' che storicamente, di volta in volta, e' stato determinato come vero e' stato sempre e solo un ente (oggi diremmo un oggetto). La sbrigativa indagine dell'idealismo assoluto hegeliano che qui e' stata proposta, e che segue cio' che ci indica Heidegger, mostra appunto questo: che anche laddove (in Hegel) il vero e' considerato come Soggetto; anche in quel Sistema che in definitiva conclude e porta a compimento la razionalita' metafisica occidentale dimostrando con forza che non c'e' alcuna inconoscibile "cosa in se'" e che il Soggetto Spirituale e' Assoluto, che nulla vi e' esteriore e che Esso Tutto puo' abbracciare tramite il movimento dialettico sapere/verita'; anche cioe' laddove la coscienza in quanto soggetto e' presa massimamente sul serio e portata dialetticamente alle sue estreme e ultime conseguenze facendola approdare alla sua determinazione ultima, espressa dalle parole hegeliane "puro autoriconoscimento dello Spirito nell'assoluto essere-altro"[29]; anche in questo percorso la coscienza non ha potuto saper-si, cioe' determinarsi come vera, che tramite i contenuti in cui essa, di volta in volta, ha saputo riconoscer-si; cioe', anche in Hegel, cio' che la coscienza e', e' sempre necessariamente determinato in quanto contenuto o oggetto di coscienza, seppur venga da Hegel considerato come Altro della coscienza in cui la coscienza stessa deve ri-conoscersi.

Il vero dunque, in tutta la storia della metafisica fino al suo compimento nella speculazione hegeliana, e' sempre e solo stato un ente, fosse anche un ente o contenuto di coscienza. Questa e' la determinazione comune delle varie essenze della verita' metafisica. La Verita' allora e' sempre stata qualcosa di esteriore alla coscienza, magari un qualcosa intenzionato dalla coscienza, un contenuto dell'esperienza di quest'ultima, ma mai la coscienza stessa.

Con cio' non vogliamo semplicemente affermare che la Verita' vada posta su lato coscienziale, cioe' su cio' che la coscienza in se' e', sul suo proprio movimento in quanto movimento intenzionale che da' forma ai propri contenuti; non vogliamo cioe' ribaltare cio' che la Verita' e' e posizionarla dal lato soggettivo del rapporto soggetto-oggetto. E'questo rapporto stesso che va messo in discussione, che va indagato in quanto manifestazione dell'essenza storico-metafisica della Verita'. Da questo punto di vista, ci sembra che l'essenza della verita' determinata come Evento-appropriazione non solo possa essere un'alternativa alle essenze (storiche) della verita' proprie della tradizione onto-teologica, ma soprattutto la prima possa essere considerata come il supporto fondamentale su cui le seconde hanno potuto metter radici. Ma qual'e' la differenza tra l'essenza della verita' intesa come Evento e le essenze della verita' onto-teologiche?

Lo abbiamo visto: le verita' che produce l'onto-teologia sono sempre determinazioni dell'ente, quest'ultimo interpretato di volta in volta in base alla maniera metafisica del proprio periodo storico-epocale. Tali determinazioni chiedono sempre e solo l'enticita' dell'ente e mai il suo essere. E'a partire dalle possibilita' che tali determinazioni hanno dischiuso che si e' arrivati alla considerazione dell'ente come mero oggetto calcolabile.

Radicate su un fondamento indomandato, queste determinazioni sono state il reale motore della Storia; di una Storia che forse e' giunta ad un punto ulteriore svolta. Il rapporto soggetto-oggetto su cui si fonda il modo contemporaneo di dare senso al mondo sembra subire uno sbilanciamento senza precedenti dal lato "oggettivo-oggettuale" del rapporto stesso: non solo siamo sempre piu' succubi del possesso dell'oggetto, tanto che e' quest'ultimo a definire cio' che socialmente ma anche interiormente siamo; non solo i processi di produzione, sempre piu' automatizzati, determinano non solo il prodotto ma anche il suo fruitore in maniera tecnico-scientifica, quasi fosse anch'esso un oggetto nel grande processo produttivo globale; non solo infine la politica ha perso il suo ruolo di guida visto che prende le proprie decisioni non in vista di un progetto futuro ma semplicemente in base ad un calcolo prettamente economico-egoistico che punta sempre e solo a ri-guadagnare il proprio minuscolo presente; soprattutto, in un mondo che vuole ri-proporre un presente in continuo progresso, l'esperienza concreta e viva diviene esperienza che fa della velocita' della risposta il suo proprio valore principale, precludendosi cosi' inevitabilmente un contatto con cio' che il presente esperito avrebbe da offrire. Il movimento intenzionale della coscienza sembra che vada eseguito il piu' velocemente possibile.

Tuttavia, in ogni istante della nostra vita, l'alternativa a questa deriva alienante che snatura il variegato e straordinario poter-essere dell'uomo, ci si presenta costantemente come occasione che puo' essere colta. Questa alternativa, nella filosofia di Heidegger, prende il nome di Evento-appropriazione, verita' anch'essa, e forse piu' profonda di quelle verita' metafisiche su cui la Storia si e' fondata; verita' la cui propria essenza non e' teoretico-metafisica ma "estetico-esistenziale" vale a dire: verita' che scaturisce dall'esperienza della presenza che ognuno di noi costantemente fa; verita' che riconosce nella presenza del presente un qualcosa di misterioso (meraviglia e terrore ad un tempo); verita' dell'uomo (doppio genitivo) che sa assecondare l'Evento della presenza (la nostra presenza, in definitiva la mia esperienza) facendolo proprio e, allo steso tempo, venendo da esso appropriato.

"L'essere ha bisogno dell'uomo per essere essenzialmente" dice Heidegger nel gia' citato Paragrafo 133 dei Contributi, riferendosi a cio' che solo l'uomo puo' davvero realizzare in questo mondo, su questa terra: la pienezza estatica del venir-alla-presenza, l'attualizzazione concreta dell'essere stesso.

Prosegue Heidegger:



Ma allora l'essere non viene a dipendere da un altro, se tale aver-bisogno costituisce addirittura la sua essenza e non ne e' solo una conseguenza essenziale?

Ma come possiamo parlare di di-pendenza se questo aver bisogno trasforma appunto cio' di cui ha bisogno nel suo fondamento e soltanto cosi' lo costringe a diventare se stesso.

E, viceversa, come puo' l'uomo sottomettere l'essere se deve appunto lasciare la sua perdizione nell'ente per diventare colui che e' fatto proprio dall'essere e gli appartiene? (NOTA: pg. 255)



Dall'implicito di queste parole si puo' evincere cio' che Heidegger ha di mira: la costituzione di quella che nel corso del presente lavoro e' stata indicata come una "nuova Logica", una logica cioe' che fa dell'oscillazione vicendevole tra essere ed esserci il suo Primo Principio. Del resto, come gia' riportato, Heidegger stesso, poco dopo, individua esplicitamente il programma della speculazione filosofica futura nell'"elevare l'oscillazione di questo rimbalzo nella semplicita' del sapere e di fondarlo nella sua verita'", primo passo verso la costituzione di questa "Logica" a-venire che vede nell'uomo capace di essere appropriato dall'essere in maniera "autentica"[30] colui che attualizza, realizza il possibile dell'essere, colui che porta il presente all'Evento della presenza, cioe' (anche) colui che potenzialmente e' (e forse deve essere) testimone-artefice dell'Evento-Avvento dell'essere.

La domanda che con forza dunque emerge da quanto appena detto circa il ruolo che l'essere umano ha nell'essere e per l'essere e' dunque la domanda enigmatica ed essenziale della filosofia: cos'e' l'uomo?; domanda questa che ottiene la sua pregnanza propriamente filosofica soltanto alla fine di un lungo cammino riflessivo e che, una volta formulata nella sua pienezza speculativa, porta con se' l'impellenza di una "decisione"[31] fondamentale circa cio' che, non solo l'uomo, ma l'umanita' stessa dovra' essere.

La formulazione di tale domanda richiede la pre-disposizione da parte dell'uomo all'Evento inteso come Evento-appropriazione, come cioe' Apertura al Mistero del venir-alla-presenza, Apertura alla quale appartengono propriamente non solo il che cosa che nell'Apertura appare ma anche l'a chi questo qualcosa appare, vale a dire anche l'uomo in quanto testimone-artefice dell'apparire stesso. In questo senso, essere appropriato dall'essere significa (anche) poter pervenire al proprio dell'uomo.

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BIBLIOGRAFIA

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2011
Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), Adelphi, Milano 2007
Heidegger, Essere e Tempo, Mondadori, Milano 2012
Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 2013
Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994
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[1] In questo lavoro verra' usato il termine "Essere" quando ci si riferisce al modo metafisico tradizionale di pensare il che della questione fondamentale della filosofia, e "essere" quando il che di tale questione e' pensato secondo il modo alternativo, pre- ed ultra-metafisico, indicato da Heidegger. La dicitura "essere" ci sembra possa esprimere meglio il carattere di "esistenzialita'" necessario per approcciarsi a tale questione in maniera alternativa, mentre "Essere" evidenzia il carattere di enticita' di tale "oggetto" d'indagine. Se la metafisica puo' essere definita come quel "pensiero dell'essere [che] prende l'ente, nel senso di cio' che e' li' presente e sussistente, come punto di partenza e come meta per l'ascesa verso l'Essere, la quale diventa subito anche la discesa che porta all'ente" (M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall'evento), Adelphi, Milano 2007, Par. 258, p. 413), l'alternativa di pensiero heideggeriana, invece, pensa l'essere nel modo dell'Evento, modo questo che sara' oggetto del presente lavoro.

[2] Secondo Heidegger, la metafisica pensa sempre e solo l'essere dell'ente, cioe' mira a determinare l'enticita' dell'ente, la sua oggettualita', la sua essenza ideale. Hegel, pensando l'Essere come Spirito Assoluto, dunque come Soggetto che pensa dialetticamente se stesso per mezzo del Suo essere-altro, sembra ribaltare il procedere tradizionale: non si ha piu' a che fare con l'ente ma solo con l'enticita' in quanto elemento ideale e, per questo, proprio della coscienza, meglio: dello Spirito; la "cosa in se'" sembra superata definitivamente dal movimento dello Spirito pensante Se'. Tuttavia, questo primato apparente dell'enticita' rispetto all'ente, e' in realta' il modo piu' estremo di considerare in primis sempre e solo l'ente: "l'oggettualita' come tale, gia' per quel che riguarda la sua essenza, per non dire della sua provenienza dalla storia dell'essere, e' non solo riferita all'oggetto, bensi' anche determinata in base all'oggetto e prendendo le mosse da esso, inteso nel senso di una precisa interpretazione dell'ente." (Contibuti alla filosofia, cit., Par. 259, p. 416) Heidegger vuole qui mostrare come la metafisica, anche nella sua forma hegeliana, non puo' che partire da e arrivare all'ente, sempre e comunque. Essa, anche nella dialettica hegeliana, non riesce a pensare l'essere senza determinarlo di volta in volta come oggetto. Anzi, nella dialettica hegeliana si assiste ad un primato dell'ente (inteso come autocoscienza e ragione che si rap-presenta) sull'enticita' maggiore rispetto a quello della metafisica precedente. Ogni rap-presentar-si del soggetto autocosciente e' sempre un auto-determinarsi come ente, come oggetto. Nella dialettica hegeliana il concetto di esperienza (su cui Heidegger fonda la sua diversita' da Hegel e da tutta la metafisica precedente) e' solo apparente. Ogni momento della Fenomenologia dello Spirito, ad esempio, determina sempre e solo l'essere della coscienza come ente, pensando cosi', in definitiva, l'essere come Essere.

[3] Heidegger, nel Par. 209 dei Contributi alla filosofia, indica come gia' in Platone l'alfa privativo di A-letheia vada perduto. In Platone, infatti, non viene posta la domanda "sulla velatezza e sul velamento, sulla loro provenienza e sul loro fondamento" (Contributi alla filosofia, cit., Par. 209, p. 329), ma e' messo in luce soltanto il "lato positivo" di tale concetto di verita', cioe' il fatto che qualcosa si sveli, divenendo cosi' accessibile e manifesto. La s-velatezza viene quindi fissata come accessibilita' e manifestativita'; a rimanere indomandata e' l'Apertura come tale, cioe' l'essenza della Verita' come Aletheia concretamente e non-unilateralmente pensata.

[4] M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., Par. 133, p. 255

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, (a cura di A. Caracciolo), Mursia, Milano 2013

[8] M. Heidegger, Il linguaggio, ne In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 27-44

[9] M. Heidegger, Il linguaggio, cit. pp. 27-28

[10] Ibid., p. 28

[11] Ibid., p. 28. Nel saggio successivo a quello oggetto del presente lavoro, contenuto ne In cammino verso il linguaggio e intitolato Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, Heidegger riflette sulla parola tedesca "Erorterung" che comunemente e' tradotta con "discussione". Rifacendosi all'etimologia della lingua tedesca subito viene messo in risalto cio' che "Ort" significa: esso indica il Luogo, quel luogo essenziale che "custodisce senza racchiudere", quel luogo che permea di se' tutto cio' che gli appartiene e che, cosi', da' la possibilita' alle cose di dispiegarsi nel loro vero essere. "Erortern" allora significa pervenire a tale Luogo, ma seguendo delle indicazioni non immediatamente riconoscibili e, in ogni caso, non strettamente calcolabili. Queste indicazioni vanno tratte si' da cio' che e' scritto e dal senso che lo scritto porta con se' significandolo, ma, di converso, cio' che e' scritto non puo' essere compreso nella sua essenzialita' originaria se non si presuppone gia' una Erorterung dello scritto stesso, vale a dire se non ci si e' gia' imbattuti nel Luogo (Ort) che custodisce i significati essenziali dello scritto. Questo rapporto di reciproca influenza tra concetti significati e pre-comprensione del loro luogo d'origine e' non solo manifestazione del cosiddetto "circolo ermeneutico", ma soprattutto e' sintomo, espressione di un "modo logico" alternativo rispetto alla logica dell'identita', della contraddizione e della deduzione su cui si fonda tutta la metafisica occidentale.

[12] M. Heidegger, Il linguaggio, cit. p. 31

[13] Cosa significa "tentare l'essere affinche' si manifesti come Evento"? L'Evento, essendo possibile solamente attraverso un ripensamento dell'essenza della Verita' nel senso dell'Aletheia non-unilateralmente pensata e concretamente esperita, non solo non puo' essere compreso ma neppure intuito come qualcosa che e' (o e'-possibile) per mezzo del pensiero metafisico e delle sue categorie nette. Nel paragrafo 229 dei Contributi alla filosofia Heidegger mostra la differenza tra il pensiero della "filosofia dell'Evento" e quello della tradizione metafisica nella versione del suo compimento, cioe' nella forma della filosofia dialettica di Hegel. Di questo paragrafo cosi' complesso possiamo qui soltanto accennare quanto segue: la dialettica, cioe' la risposta di Hegel al problema filosofico dell'esteriorita', si fonda sulla differenza e sulla "distanza" che l'istanza auto-cosciente instaura con l'Essere di cui di volta in volta fa esperienza per arrivare a pensarlo e a pensarsi come Spirito Assoluto; la "filosofia dell'Evento", invece, vuole mostrare che esserci ed essere, uniti autenticamente, sono Evento, esperienza abissale, con-fusa e creatrice di mondo; che esserci ed essere sono reciprocamente destinati l'uno all'"altro"; che, se differenza e distanza si danno, esse non sono che differenza nella stessa, "globale" e vicendevole esperienza, e distanza avvicinante-allontanante tra i due termini, rispettivo movimento dell'esserci incontro all'essere e viceversa (nell'Evento), o rispettivo volgersi le spalle l'uno all'"altro" (nell'oblio e nell'abbandono). In questa lettura, sbrigativa e poco approfondita, si nasconde l'obiettivo di Heidegger di rendere possibile per il sapere una nuova "Logica" non-metafisica, cioe' quel "primo compito speculativo" che consiste "nell'elevare l'oscillazione" del rimbalzo tra esserci ed essere "nella semplicita' del sapere e di fondarlo nella sua verita'" (cfr. Contributi alla filosofia, cit. Par. 133, p. 255). "Tentare l'essere" allora assume il duplice significato di "fare un tentativo" e di "essere una tentazione" nell'essere, per l'essere. Questo duplice significato rappresenta un modo possibile che ha l'uomo di pre-disporsi per l'esperienza dell'E-vento inteso come evento-appropriazione, cioe' per sperimentare su di se' quell'unitaria esperienza autentica della Verita' dell'essere fondata sull'oscillazione instaurantesi tra essere ed esserci di cui si parlava sopra. A tal proposito si veda, ad esempio, il Par. 5 dei Contribuiti (Per i pochi -- per i rari), nel quale Heidegger delinea quello che lui chiama "stato d'animo fondamentale" e che altro non e' che una sorta di pre-disposizione esistenziale all'esperienza dell'Evento-appropriazione.

[14] M. Heidegger, Il linguaggio, cit. p. 32

[15] Ibid., p. 33

[16] Ibid., p. 35

[17] Ibid., p. 36

[18] Ibid., pp. 36-37

[19] Ibid., p. 37

[20] Ibid., p. 38

[21] Ibid., p. 37

[22] Ibid., pp. 37-38

[23] Ibid., p. 40

[24] Ibid., p. 41

[25] Ibid., pp. 42-43

[26] M. Heiddegger, Contributi alla filosofia, cit. Par 205, pp. 325-326

[27] Ibid., p. 326

[28] Cfr. Nietzsche, La volonta' di potenza, Par. 493, cit. in M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 421

[29] Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2011, p. 77

[30] Non possiamo qui approfondire come si caratterizza in Heidegger l'autenticita' propria dell'esserci. Possiamo qui solamente suggerire quanto questo termine sia centrale in tutta la filosofia heideggeriana, a partire dalla Seconda Sezione di Essere e Tempo: Esserci e temporalita'.

[31] Decisione: altro termine heideggeriano il cui senso non puo' qui essere definito ma soltanto essere affidato a rimandi esterni, tra i quali i Par. 42-49 e i Par. 253-256 dei gia' citati Contributi alla filosofia (dall'evento) dove e' evidente (tra l'altro) che tale termine emerge sullo sfondo della domanda che chiede "che cos'e' l'uomo" e che da tale domanda essenziale acquista il suo senso.


Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 11:04:09 AM



https://www.ifacecrf.it/linguaggio-uomo-evento/



N° Post: 393
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:59:15 AM


Della lingua, dell'uomo, dell'essere e del Paradiso




Cio' che qui vorrei proporre e' un percorso di riflessione sul legame tra l'uomo, la parola, l'essere, stretti in un solido saldo. Mi appoggero' principalmente ad alcuni momenti del pensiero di Walter Benjamin e Martin Heidegger, con i quali, seppur in prospettive diverse, la speculazione filosofica in tal senso ha potuto toccare vette di potenza rivelatrice.

L'uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell'ozio. In un modo o nell'altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perche' il parlare ci e' connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volonta'. Si dice che l'uomo e' per natura parlante, e vale per acquisito che l'uomo, a differenza della pianta e dell'animale, e' l'essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s'intende affermare soltanto che l'uomo possiede, accanto ad altre capacita', anche quella del parlare. S'intende dire che proprio il linguaggio fa dell'uomo quell'essere vivente che egli e' in quanto uomo. L'uomo e' uomo in quanto parla.

Quello che e' possibile leggere lateralmente e' il celebre incipit del saggio Il linguaggio di Martin Heidegger, del 1950. Il discorso, del quale conservero' la terminologia (nella traduzione di Caracciolo e Perotti), si inserisce nell'ampiezza dell'intera ricerca filosofica del tedesco, ma cio' che in questa sede mi interessa e' rilevare come venga istituito un legame esistenziale tra l'essere uomo e l'essere parlante. E' nel linguaggio, per Heidegger, che si apre la soglia al cammino dell'essere. Il nostro parlare e', nell'atto della denominazione, un chiamare le cose al mondo. E'sempre essenzialmente deittico lo stare al mondo dell'uomo, e' un costante indicare cio' che non c'e', affinche' sia. E cio' che si indica, dunque, non e' tanto la cosa in se', non essendoci, appunto, quanto la distanza tra noi e la cosa. Da questa distanza, si vede cosi' quella tra la cosa e il mondo, tra noi e il mondo, tra questi tre domini e una dimensione superna. La chiamata si rivolge all'intero quadrato dell'esistente. Il linguaggio fa emergere allora la distanza nell'unita', la dif-ferenza nell'intima vicinanza. Il linguaggio parla la quiete, il silenzio, il non-essere. E' in quel territorio che l'essere puo' rivelarsi. E'nella dif-ferenza tra il mondo e la cosa che l'essere si scorge, nella quiete dell'intimita' che la chiamata crea tra mondo e cosa, pur non eliminandone la distanza e la separatezza. Ma, essendo la parola cosi' connaturata all'uomo, ed essendo esso l'unico essere denominante, allora e' l'uomo stesso a essere chiamato dal linguaggio: il quale, appunto, non muove da un atto di volonta', giacche' e' perfettamente gia' nell'uomo, gia' l'uomo. Egli semplicemente cor-risponde al parlare del linguaggio. E' il linguaggio a parlare, a cum-vocare gli enti a compiere un percorso d'incontro.

In alcuni passi molto suggestivi, Martin Heidegger sceglie il crepuscolo come scenario di questo incontro: e' nella negativita' del tramonto che si dispiega la possibilita' dell'alba. Il crepuscolo e' la linea di passaggio continuo tra cio' che e' stato e che, morendo, torna a essere. E' nel momento del crepuscolo che la dif-ferenza si acquieta nella distanza minima tra i referenti, eppure la piu' essenziale, perche' invalicabile. In quella sfumatura balugina l'essere. Del resto, il passaggio dal giorno alla notte e' un elemento fondamentale del ritmo creativo di Dio, come esposto in Genesi 1. L'essere necessita della sera per potersi raccogliere in se' e, in questo esaurirsi, tornare a essere immediatamente creativo, la mattina.

Ora, il mio ragionamento percorrera' soprattutto il filo del discorso condotto da Walter Benjamin in un saggio giovanile del 1916-1917, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo. Il lavoro e' appunto giovanile e di certo di portata ridotta, eppure le testimonianze epistolari rivelano quanto questo saggio fosse ritenuto importante dall'autore. Dalla genesi travagliata, poiche' sempre pensata in rapporto alla costruzione di una grande opera sistemica, progetto definitivamente abbandonato negli anni Trenta, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo resta allora un'esperienza del tutto particolare nel percorso di Benjamin, che in questa opera, muovendo dall'esegesi di Genesi, arriva a strutturare una vertiginosa e certo suggestiva logo-ontologia, con le parole di Gianfranco Bonola. I presupposti filosofici di Benjamin e Heidegger sono estremamente distanti, eppure, a questa altezza, non e' possibile non percepire la fascinazione di una certa sintonia di visione. La riflessione di Benjamin e' largamente precedente a quella di Heidegger, ma la potenza espressiva del secondo puo' ben servire per aprire una breccia e addentrarsi nella complessita' del discorso. Complessita' che, prima di essere logico-concettuale, e' innanzitutto sentimentale ed emotiva, culturale. Perche' entrambi, pur con prospettive differenti, riconoscono al linguaggio un mistero, una propria autonomia dalla comunicazione umana. Cio' e' quanto mai distante dalla nostra visione, che appropriatamente Benjamin definisce "concezione borghese della lingua", tutta incentrata su uno sterile strumentalismo antropocentrico. Ambedue i filosofi, invece, pongono l'evento linguistico come precedente e piu' essenziale (heideggerianamente, nel senso di universale) rispetto all'uomo, che pure rimane l'unico ente in grado di cor-rispondere a quel parlare puro del linguaggio. Per cogliere la profonda distanza che separa questa concezione della lingua da quella popolare, bastera', credo, riflettere sul titolo del saggio. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, ove la congiunzione "e" assume un forte valore disgiuntivo: vi e' sia una lingua generale, sia un lingua dell'uomo. Non siamo forse noi portati a pensare che la lingua sia una facolta' eminentemente umana? E qual e', allora, questa lingua generale della quale la lingua dell'uomo e' una dimensione specifica?

Per Walter Benjamin, la comunicazione e' un fatto universale, essenziale dunque, e percio' ogni ente possiede un proprio linguaggio, giacche' ogni ente compie in un qualche modo un'azione di comunicazione di se' al mondo. Il filosofo chiarisce, quindi, che "lingua significa, in questo contesto, il principio rivolto alla comunicazione di contenuti spirituali negli oggetti in questione [...]. In breve, ogni comunicazione di contenuti spirituali e' linguaggio, dove la comunicazione mediante la parola e' solo un caso particolare, quello del linguaggio umano e di quello che e' alla base di esso o fondato su di esso." Sara' fondamentale tenere a mente questa definizione. Il mondo, e' chiaro, comunica a prescindere dall'uomo. Eppure l'uomo, che Heidegger ci ricorda essere l'unico parlante, non puo' non conservare un ruolo primario nell'esistenza del linguaggio. Vi e' un'interpretazione diffusa del linguaggio come espressione, ovvero come un qualcosa di altro rispetto a cio' che viene comunicato: il linguaggio come medium, insomma. Per Benjamin tale pensiero e' ancora limitato dalla cultura mercantile e propone a tal proposito un efficace esempio in riferimento al proprio idioma. La lingua tedesca, e cosi' ogni altra, non e' espressione di cio' che noi possiamo comunicare mediante essa, ma e' espressione di cio' che in essa si comunica. Un contenuto informativo ha un proprio peso oggettuale che prescinde dall'evento linguistico e, di fatti, puo' essere espresso in ogni lingua. Eppure, vi e' sempre uno scarto di un qualcosa di ancor piu' essenziale del significato, che non puo' essere colto ne' tantomeno traslato in un lavoro di traduzione. Questa piccola distanza incolmabile (ritorna, evidentemente, il tema heideggeriano della distanza, della dif-ferenza che spalanca l'essere) puo' essere vista, in Benjamin, come l'essenza spirituale della lingua, che linguisticamente si esprime. E'anche qui, dunque, il linguaggio stesso a parlare piu' e prima degli uomini. Mi tornano in mente, allora, le parole del poeta svedese Tomas Tranströmer, Nobel per la Letteratura 2011 e da me gia' qui omaggiato in un articolo precedente, definisce un'assurdita' teorica la traduzione poetica, seppur pragmaticamente necessaria. Cosi' anche Benjamin, nel suo Il compito del traduttore, del 1921-1923, dichiara l'impossibilita' di una traduzione come perfetta traslazione da un codice a un altro, ma riconosce al traduttore il ruolo di intessere trame tra le lingue, nella prospettiva pragmatica di ripristinare, in definitiva, una lingua adamitica, perduta nelle particolarizzazioni e in grado di essere immediatamente espressione del senso spirituale dell'uomo. L'uomo, ancora: sul suo ruolo cardinale torneremo. Per concludere questo passaggio, e' necessario dunque rimarcare un nucleo concettuale fondamentale: l'essere linguistico di un ente e' l'espressione del suo essere spirituale, nel senso che cio' che vi e' di comunicabile nell'essere spirituale si comunica linguisticamente. Cio' che vi e' di comunicabile nell'essere spirituale e' il suo stesso essere linguistico: la lingua, dunque, comunica se' stessa; comunica la propria comunicabilita'.

Cosi' inquadrato il problema, la riflessione sulla lingua dell'uomo non puo' che far emergere alcune peculiarita' sostanziali. Se e' vero che ogni essere comunica il proprio spirituale nell'essere linguistico, e' altresi' vero che la lingua dell'uomo non comunica, dal punto di vista del contenuto, direttamente se stessa. Essa non parla, o non sembrerebbe parlare in prima analisi, dell'uomo in se'; parla piuttosto di altro: dice il mondo, ne nomina gli oggetti. Accettando il ragionamento, dobbiamo dunque asserire che l'uomo comunica il suo proprio essere spirituale nominando gli altri oggetti. Sarebbe dunque cosi' la natura stessa dell'uomo, la sua essenza, quella di nominare il mondo, chiamare le cose all'essere. Del resto, l'immagine dell'uomo responsabile della nominazione del mondo e' uno dei grandi topoi della civilta' di radice semitica e dunque anche della cultura occidentale. Non fu forse Adamo incaricato di assegnare i nomi a cio' che Dio ha creato? Ci torneremo e sara' interessante leggere parallelamente altri luoghi delle Scritture, ove, di contro, l'essere di Dio esibisce il proprio loquace mutismo.

Ribadiamo: cio' che si comunica dell'essere spirituale e' l'essere linguistico; l'essere linguistico dell'uomo e' la lingua: l'uomo, dunque, comunica se stesso nella lingua. Ma se la lingua dell'uomo e' l'azione di nominare le cose in base a cio' che del loro linguaggio egli ha udito, allora "ogni natura, in quanto si comunica, si comunica nella lingua e quindi in ultima istanza nell'uomo." La lingua dell'uomo e' l'unica ad avere questa riflessivita' metalinguistica, per cosi' dire, ed e' l'unica lingua pura, giacche' il suo essere spirituale e' tutto linguistico, nella propria struttura. Cio' perche' "dove l'essenza spirituale nella sua comunicazione e' la lingua stessa nella sua assoluta interezza, la' soltanto vi e' il nome, e la vi e' il nome soltanto. Il nome come patrimonio della lingua umana garantisce quindi che la lingua stessa e' l'essenza spirituale dell'uomo [...]." L'elemento del nome e' filosoficamente e culturalmente determinante. Cosa e' un nome? "La parola, il nominare, riporta l'essente che si schiude dal suo premere immediato e prepotente nel suo essere, e lo mantiene in questa apertura, delimitazione e stabilita'." Sembrerebbe, dunque, che il nome abbia un valore conclusivo, di chiusura e apertura. Chiusura di cosa? Apertura a cosa? Delimitazione della realta', apertura alla conoscenza e all'essere. Nella nostra cultura biblica, il nome e' l'atto conclusivo della creazione ed e' affidato all'uomo, appunto. Ma, l'istanza del nome, in rapporto alle riflessioni precedenti, ha innanzitutto una pregnanza filosofica. Lo spirito dell'uomo parla nel nome degli oggetti, che e' la sua lingua: esso non puo' dirsi in se' e per se'. Vi e' una distanza gradale e intensiva tra questa dimensione linguistica e quella di uno spirito che si dica tutto per se' stesso, immediatamente. Questo dirsi assoluto e' proprio solo dello spirito di Dio, nell'evento della rivelazione. La rivelazione divina, pur nella propria cripticita', e' l'unico evento linguistico del tutto estraneo all'incomunicabilita': in essa, lo spirito e' non solo totalmente, ma anche e soprattutto immediatamente linguistico e, come tale, si comunica di per se'. I risvolti teologici di un simile argomento sono facilmente intuibili. E, del resto, abbiamo accennato al mutismo di Dio; mutismo che rivela l'essere. Non possiamo non pensare, in tal senso, a Esodo 3:14: "Io sono colui che sono". Dio, qui, si rivela totalmente come essere e cosi' e' muto all'uomo, nel senso che egli non esce da se' stesso, non si fa conoscibile. Il silenzio parla, con Heidegger. E'una voragine questa ironia divina, che dandosi nella sua immediatezza resta incoglibile. E infatti, Mose' dovra' operare in nome dell'Io sono, non di colui che e' (in quest'ultima proposizione c'e' un movimento di uscita da se' e ritorno, verbalizzata nella terza persona, che consente la conoscibilita'. Io sono, invece, e' un'espressione che rimane in se' stessa). La lingua dell'uomo, allora, sembrerebbe partecipare a questa natura secondo un'intensita' attenuata. Le arti, la poesia in particolare, necessitano degli oggetti per aprire lo spirito dell'uomo all'espressione. Per creare, l'uomo indica continuamente oggetti altri. Lo spirito supremo, Dio, conclude la propria creazione nell'uomo, spirito puramente linguistico.

E'a questo punto giunto il momento di rivolgersi alla lettura dei primi due capitoli della Genesi, che propongono i due racconti della creazione. Nell'ottica di questa trattazione, i due racconti possono essere illuminati da una nuova luce unificante che ne evidenzi la complementarita'. In Genesi 1 il legame tra lingua e creazione e' evidente. Lo schema creativo e' disse -- fu: la lingua dello spirito di Dio e' immediatamente creatrice, totalmente attuale. Tutto il creato e' dunque in Dio, che appena si pronuncia subito concretizza l'essere negli enti. Nominando, Dio agisce, in lui il nome e' verbo. Ma la sua azione, essendo denominativa-vocativa, e' anche conoscitiva. E infatti il terzo momento della creazione e' propriamente un momento conoscitivo: "E dio vide che era cosa buona". Questo terzo momento non e' empiricamente e ontologicamente separato dagli altri due, non puo' esserlo: Egli chiama le cose a essere, le nomina, poiche' gia' ne possiede la conoscenza. E, di fatti, alla sua chiamata le cose rispondono materialmente, risultando create. Allo stesso modo avviene la creazione dell'uomo (maschio e femmina), ai quali affida il dominio del creato. Cosi' si conclude Genesi 1. Genesi 2 riprende la narrazione dal settimo giorno, mutando pero' il racconto della creazione dell'uomo e posticipandola. Qui tutta la creazione e' presentata come gia' conclusa ma, soprattutto, come frutto di un lavoro, non come pura evocazione. E infatti anche l'uomo e' artigianalmente plasmato dal fango della terra: fango sul quale Dio alita il proprio spirito, il proprio fiato. Fiato che e' allo stesso tempo anima e principio materiale della parola: voce. L'uomo diventa esistente consustanzialmente all'essere parlante, queste dimensioni, come gia' detto, sono strutturalmente coincidenti e compenetranti. A Genesi 1:19 leggiamo che "Allora il Signore Dio plasmo' dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome." Dio porta all'uomo le proprie creature perche' esso le nomini, ma l'enunciato marca fortemente sulla centralita' dell'azione umana: Dio vuole sapere come gli animali verranno chiamati, poiche' e' l'uomo a doverlo fare. Questa dinamica ci ricorda poi il sacramento del battesimo. Dio conosce ovviamente gia', nell'immediatezza della creazione, il nome dell'essenza del creato. Eppure questa nominalita' e' ancora tutta ontologica, tutta ancora in Dio, nel suo spirito. Qui, Heidegger a mio avviso avrebbe spinto il discorso ancora piu' lontano di Benjamin, affermando che perche' l'essere si faccia strada e' necessario il vuoto che si crea tra la dimensione del nome in se' delle cose, posseduto solo da dio, e la denominazione mondana, che si approssima soltanto all'essenza, senza mai raggiungerla. Ma e' proprio in quella distanza, riprendendo le fila del discorso iniziale, che l'essere puo' dir-si tale. Benjamin invece si concentra proprio sul rituale battesimale come consacrazione a Dio: il nome viene imposto perche' la creatura nominata si presenti al cospetto di Dio. Ma non e' forse lo spirito di Dio l'Essere? Ecco allora che ci appare piu' chiaro il compito dell'uomo rispetto alla denominazione (e anche l'affinita', in questa circostanza, tra Benjamin e Heidegger): la lingua dell'uomo chiama gli enti all'essere, suona l'adunata che chiama i quadrati del cosmo a ritrovarsi nell'essere. Cosi', la creazione di Dio puo' dirsi completa (e i due capitoli della Genesi filosoficamente legati). L'essere pone se' stesso, ontologicamente, negli enti: esso si sa. Ma perche' esso possa conoscersi esistenzialmente, e' necessaria una chiamata esterna, una denominazione. E'l'uomo, in ultima istanza, a fornire una dimensione esistenziale all'essere. E cosi' l'uomo, nella sua esistenza linguistica, e' l'unico che puo' risalire, a ritroso, all'essere, che e' sempre li' in quella distanza tra il padre e il figlio che e' dolora, incolmabile, necessaria.

Sara' interessante ragionare ora sul come l'uomo imponga i nomi. La concezione borghese della lingua suggerirebbe un rapporto causale e strumentale tra l'oggetto e il suo nome. Cio' non e' evidentemente possibile, nell'ottica di Benjamin, poiche' gli oggetti parlano una lingua non verbale. L'uomo coglie questo parlare, ponendosi in ascolto (e questo porsi in ascolto della lingua degli oggetti e' innanzitutto un rapportarsi esistenziale agli stessi), e lo traduce nella propria lingua. La lingua degli oggetti, la loro voce, e' l'eco della voce creatrice di Dio. Cosi', l'azione del dare il nome e' il residuo della potenza creatrice di Dio. Gli oggetti si comunicano all'uomo cosi' come Dio li ha posti a lui perche' li nominasse: "il nome che l'uomo da' alla cosa dipende dal modo in cui essa gli si comunica". La traduzione di cio' che non ha nome in cio' che ha nome e' la vera potenza creatrice della lingua dell'uomo, poiche' aggiunge qualcosa che, di per se', la lingua delle cose non avrebbe: la conoscibilita', giacche' essa presuppone la distanza, l'alterita'. L'essere si conosce, lo abbiamo detto e ora ci e' piu' chiaro, mediante i nomi, ovvero mediante l'uscita da se'.

Ma se cosi' stanno le cose, come interpretiamo il ruolo dell'albero della conoscenza del bene e del male? Perche' nel settimo giorno, prima della sua cacciata, l'uomo vive in comunione con Dio, con l'Essere. Dio e' immediatamente verbo sulla terra, che si fa conoscibile mediante l'azione umana. Regna, in quelle ore, quella che Benjamin chiama lingua paradisiaca. Questa lingua e' perfettamente conoscitrice, poiche' cio' che dice corrisponde totalmente all'essere, che e' li', di fronte: e' la lingua attraverso la quale l'essere stesso decide di dir-si a se'. Se ogni conoscenza e' pacificamente inclusa all'interno dell'Eden, quella del bene e del male non puo' dunque essere una conoscenza, giacche' non dice niente delle cose che esse gia' non dicano per se' stesse nel nome dato dall'uomo. La tentazione del serpente e' dunque la tentazione a una parola che vada oltre l'essere e, cosi', lo copra e confonda. Non e' conoscenza della cosa, che di per se' e' sempre buona perche' in Dio (e nell'essere), ma e' il niente dello straparlare, che scinde e divide. Con il peccato originale, dice Benjamin, nasce la lingua umana propriamente detta e il male puo' esistere e proliferare nel surplus retorico che fa dimenticare all'uomo l'essere. Cosi', il mondo non e' piu' immediatamente e esistenzialmente dialogante con l'uomo e si fa silenzioso: i suoi frutti vanno ora guadagnati, sudati. Il male, scollamento della lingua umana dall'essere, e' un elemento di divisione, innanzitutto tra gli uomini della stirpe di Adamo, incapaci poi di comunicare anche tra loro. E la dimensione teleologica di Benjamin, infatti, vedeva nella pragmatica del dialogo e della traduzione la via per la futura rifondazione di una lingua paradisiaca e l'avvento di una nuova pace, di una nuova concordia.

Opere di riferimento

Benjamin, Walter, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 2014. Sono qui raccolti i saggi citati.

Bonola, Gianfranco, Il Paradiso dei nomi. Walter Benjamin interprete di Genesi 1-3 (1916) in "Annali di storia dell' esegesi"13/2, 1996.

Heidegger, Martin, In cammino verso il linguaggio, ed. Mursia, Milano, 1988. Sono qui raccolti i saggi citati.

Ricoeur, Paul, Il conflitto delle interpretazioni, ed. Jaca Book, Milano, 2007.

Il testo della Sacra Bibbia di riferimento e' stato quello della Edizione CEI, fornito dal sito internet della Santa Sede (www.vatican.va).


Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 11:00:07 AM

https://www.tropismi.it/2015/01/09/della-lingua-delluomo-dellessere-e-del-paradiso/


N° Post: 392
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:51:25 AM


L'essenza poetica del linguaggio in Martin Heidegger




Se la questione del linguaggio, dagli esordi filosofici del giovane Heidegger fino a Essere e Tempo, sembra giocare un ruolo marginale entro la riproposizione del problema dell'essere; dopo la cosiddetta "svolta", tale questione riveste un'importanza sempre piu' decisiva nel cammino di pensiero del filosofo di Messkirch. A questo proposito, basti pensare che, in Essere e Tempo cosi' come nei testi che gravitano attorno all'opus maius heideggeriano, il linguaggio, per quanto ascritto tra gli esistenziali dell'esserci, e' considerato da Heidegger niente di piu' che un livello sovrapposto e secondario rispetto alla significativita' e al mondo[1]; sara' solo con la famosa Kehre che Heidegger giungera' ad affermare, senza esitazioni, che "il linguaggio ha il compito di rendere manifesto e conservare nella sua opera l'ente come tale [...] solo dov'e' linguaggio vi e' mondo"[2]. Come si mostrera' in seguito, e' proprio questo carattere istitutivo e aprente assegnato alla parola nei confronti dell'ente e del mondo a costituire il cuore pulsante della sua nuova concezione del linguaggio, maturata in seguito a quel cammino interrotto che e' Essere e Tempo. Prima, pero', di procedere alla disamina di quei luoghi heideggeriani in cui emerge una diversa esperienza di parola, quella poetica, che prende le distanze dalla concezione metafisica del Logos, e' opportuno chiarire, seppur brevemente, il motivo, l'istanza profonda che spinge il filosofo a una radicale revisione della propria idea di linguaggio.

La ragione principale che muove Heidegger a cercare una nuova prospettiva sulla parola e' intimamente legata alla mancata pubblicazione della terza sezione della prima parte di Essere e Tempo, senza la quale la sua opera principale rimase incompleta: "La sezione in questione" - come ricorda il filosofo nella Lettera sull'"umanismo" - "non fu pubblicata perche' il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta e non ne veniva a capo con l'aiuto del linguaggio della metafisica"[3]. Dalle concise parole di Heidegger emerge la decisiva affermazione, seppur qui non argomentata, del limite del linguaggio metafisico di fronte alla Kehre, la quale caratterizza il cammino del filosofo tedesco dopo Essere e Tempo: paradossalmente, la parola con la quale la metafisica ha posto la questione dell'essere, non e' piu' adatta, per Heidegger, a portare ad espressione l'essere stesso, a dirimere la stessa Seinfrage. E'a partire dall'abbandono del linguaggio metafisico che Heidegger operera', in seno alla svolta ontologica, una svolta "linguistica", conducendolo a elaborare una nuova concezione del linguaggio.

A questa nuova prospettiva sulla parola, Heidegger perviene attraverso l'incontro ed il confronto con la poesia in generale e in particolare con il poetare di Hölderlin, la cui figura si staglia dallo sfondo della riflessione heideggeriana per giocare un ruolo decisivo entro la questione dell'essere nel suo rapporto con il linguaggio. Piu' precisamente, cio' che avviene con la "svolta" e' il decisivo passaggio [4] da una concezione impoetica, ovverosia dichiarativa, assertiva del linguaggio, tipica della tradizione metafisica, ad una concezione poetica, o per meglio dire poietica, creativa che pone al suo centro il carattere istitutivo, aprente della nominazione e che ha come riferimento privilegiato la poesia di Hölderlin. Questo carattere istitutivo, rivelativo, messo in luce da Heidegger, si manifesta, in primo luogo, nell'originario termine poiesis da cui deriva la parola poesia che non assume nel filosofo tedesco quel senso estetico che le e' solitamente assegnato, ma ha il significato originario del produrre, del portare alla luce cio' che e' nascosto.

Questo modo di concepire la poesia e' introdotto per la prima volta da Heidegger nel saggio L'origine dell'opera d'arte, ove l'Autore mette in evidenza il carattere di apertura, di rivelazione dell'ente operato dal linguaggio poetico e dalla nominazione: "Il linguaggio nominando l'ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all'apparizione [...] Il linguaggio stesso e' Poesia nel suo senso essenziale"[5]. Il linguaggio e' dunque poesia (Dichtung) nel senso di uno svelare, di un portare l'essente alla luce, ovvero di istituire un mondo ed e' proprio all'interno dell'illuminazione dell'essente, dovuta al linguaggio, che, per Heidegger, tutte le arti sono un particolare poetare. Infatti, le arti, quali l'architettura e la scultura, "hanno sempre luogo solo nell'aperto del dire e del nominare [...] Ciascheduna di esse e' un particolare Poetare entro l'illuminazione dell'ente, che di gia', e in modo inosservato, si e' storicizzato nel linguaggio"[6]. L'essenza dell'opera d'arte, quale apertura, ossia istituzione di un mondo, e' quindi poesia (Dichtung), intesa nel senso originario della poiesis, del pro-durre, dello svelare, che Heidegger distingue dall'arte della parola, dalla poesia in senso stretto, a cui attribuisce il termine Poesie. A proposito di questa distinzione terminologica, Vattimo giustamente sottolinea, come in questo testo, Heidegger "gioca" continuamente "sul duplice senso del termine tedesco Dichten, che significa insieme poetare e inventare. L'essenza di ogni arte, allora, in quanto l'opera rappresenta un'apertura o un progetto che deve essere gedichtet, inventato, e' Dichtung, poesia"[7].

La questione del linguaggio, che nella conferenza relativa all'opera d'arte e' appena introdotta, trova una piu' articolata espressione nel saggio dedicato a Hölderlin e l'essenza della poesia. In tale scritto, che fa del linguaggio il luogo privilegiato dell'accadere della verita' e dell'essere, cio' che veniva messo in evidenza ne L'origine dell'opera d'arte, ossia il carattere aprente e istitutivo che caratterizza l'opera, e' ascritto limitatamente e decisamente al solo linguaggio. Ora, cio' che il solo linguaggio svela e' ancora una volta il mondo e quindi l'ente in quanto ente, ossia l'in quanto che lo accompagna: "Solo dov'e' linguaggio vi e' mondo". E'dunque il solo linguaggio, nel suo essere essenziale come poesia, che istituisce il mondo e che porta alla luce l'ente. All'apertura del mondo segue, pero', per lo Heidegger lettore di Hölderlin, la possibilita' della storia, dell'essere storico dell'uomo, che dipende anch'esso dal linguaggio: "Solo dov'e' mondo che domina, vi e' storia. Il linguaggio e' un bene in un senso piu' originario. Esso da' il benestare, cioe' la garanzia che l'uomo possa essere in quanto storico"[8]. Il linguaggio apre quindi il mondo come "cerchia sempre cangiante di decisioni e opere, di azioni e responsabilita', ma anche di arbitrio e rumore, decadenza e confusione"[9] e con esso rende possibile anche l'essere storico dell'esserci. Come precisa Heidegger, tale linguaggio "non si esaurisce nel solo essere mezzo per intendersi [...] non e' lo strumento che l'uomo possiede accanto a molti altri, ma invece e' proprio soltanto il linguaggio a concedere la possibilita' di stare in mezzo all'apertura dell'ente"[10]. Pertanto il linguaggio che istituisce il mondo, che pone l'uomo nell'apertura dell'ente, non puo', nella prospettiva heideggeriana, essere inteso come mero strumento di comunicazione al servizio degli uomini, bensi' e' "quell'evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilita' dell'essere-uomo"[11].

Questa concezione del linguaggio e' delineata ancor meglio da Heidegger nel saggio L'essenza del linguaggio. Qui il filosofo ribadisce che "dire significa mostrare: far apparire, dischiudere illuminando-celando nel senso di: porgere cio' che chiamiamo mondo"[12]. Il linguaggio, che quindi e' un mostrare, anche in questo scritto, fa apparire il mondo, lo dischiude. Ma a differenza degli altri scritti, all'apertura del mondo che coinvolge la storia si aggiunge qui un nuovo elemento istituito dal linguaggio. Come osserva Galimberti: "Dalla Sage come linguaggio originario nasce ogni discorso esplicito, ogni Aus-sage che enuncia, dichiara in linea con il discorso originario, ma senza risolverlo in se', per cui ogni discorso (Aussage) sul linguaggio (Sage) e' sempre un discorso dal linguaggio (Aus-sage) nel linguaggio; mai il linguaggio nel discorso"[13]. Il dire originario rende dunque possibile, non solo il dischiudersi di un mondo, ma anche qualsiasi discorso esplicito, senza tuttavia che tale discorso si risolva nello stesso dire originario, anche quando parla di esso. E'in questo preciso senso che Heidegger afferma che "il linguaggio e' il linguaggio" e "il linguaggio parla"[14]. Il dire originario rende dunque possibile ogni discorso e dischiude un mondo e gli enti che di quel mondo sono parte. Ora, tutto questo e' possibile al dire originario perche' il suo modo di dire non e', come abbiamo visto, il mero significare, ma l'indicare, il mostrare. In questa nuova prospettiva la parola non veicola semplicemente un significato gia' rivelato dal comprendere, come avveniva in Essere e Tempo, ma si profila innanzitutto come cio' che indica e esibisce l'ente, cio' che lascia essere l'essere dell'ente: "Nessuna cosa e' dove la parola, cioe' il nome, manca. E'la parola che procura l'essere alla cosa"[15].

Una volta preso atto di questa funzione istitutiva del linguaggio nei confronti del mondo e dell'ente in generale, occorre chiedersi come tale funzione si esplichi, ovvero come il linguaggio, la parola stessa possa, per Heidegger, svelare, portare alla luce l'ente. Nella riflessione heideggeriana sul linguaggio e' possibile ravvisare una risposta seppur parziale a tale questione nel saggio Il linguaggio, ove il tema della nominazione e' affrontato in modo decisivo dal filosofo mediante il confronto con la parola poetica di Georg Trakl. In questo scritto l'Autore afferma:



Nominare non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina cio' che chiama. Tale avvicinamento non significa che cio' che e' chiamato sia trasferito, deposto e collocato nell'immediatamente presente [...] chiamare e' chiamare presso. E tuttavia quel che e' chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare e' sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all'assenza[16].



Il chiamare avvicina cio' che risiede nella lontananza senza tuttavia annullarne l'assenza. Quindi questo avvicinare cio' che e' lontano non significa che l'ente chiamato dalla parola sia trasferito nell'immediatamente presente, ovvero sia presente fisicamente. A tale proposito, Heidegger prende come esempio "il cadere della neve" e "il risonare della campana della sera", che sono nominati nella poesia di Trakl e pertanto "sono -- per e nell'appello della poesia -- ora e qui, presso di noi. Sono presenti. E tuttavia certo non cadono fra cio' che e' presente ora e qui, in questa sala. Quale presenza e' la piu' alta di cio' che sta fisicamente dinanzi o quella di cio' che e' chiamato?"[17]. La parola chiama, avvicina senza tuttavia rendere presente fisicamente cio' che e' chiamato, senza che questa presenza di cio' che e' chiamato annulli la distanza, la lontananza e quindi l'assenza.

Ora, in questa dinamica della parola che avvicina, pur mantenendo nell'assenza cio' che e' chiamato, e' possibile ravvisare il potere e-vocativo della parola, che chiama fuori, chiama gli enti alla presenza ed allo stesso tempo non li esaurisce nella semplice presenza, consentendo cosi' di chiamarli sempre di nuovo. Questa parola non e' dunque la parola della scienza o della tradizione metafisica, la parola che rende l'ente semplicemente presente ossia la parola che oggettiva l'essere dell'ente, riducendo l'essere all'ente stesso, ma e' la parola che lascia ogni volta che l'essere dell'ente si manifesti per quello che e'. Ed infatti continua Heidegger: "Il chiamare e' un invitare. E'l'invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini. [...] La poesia nominando le cose, le chiama in tale loro essenza"[18].

Il nominare chiama quindi le cose nella loro essenza e in tal modo apre un mondo, che Heidegger, in questo passo, indica come intimo quadrato di cielo, terra, mortali e divini. A tale proposito, Ugazio osserva che il nominare, o meglio la poesia, "proprio in quanto il linguaggio e' linguaggio originariamente in essa", si configura come "la primigenia esperienza del mondo, quella che ogni altro modo di accostarsi alle cose sottintende"[19]. L'uomo ha quindi esperienza originaria del mondo proprio nel linguaggio poetico, che dischiude ogni rapporto alle cose. Anche la definizione dell'essere come quadrato ha proprio questo senso: in essa si tratta di comprendere la originaria poeticita' del linguaggio[20]. Il quadrato introdotto da Heidegger nella riflessione mostra dunque il carattere originariamente poetico del linguaggio, ovvero il suo carattere aprente, disvelante e istitutivo del mondo e quindi anche dell'uomo come mortale.

La relazione tra linguaggio e mondo che si viene cosi' a delineare dopo la Kehre costituisce un vero e proprio rovesciamento del rapporto tra parola e significativita' tracciato da Heidegger in Essere e Tempo e nelle opere precedenti. Infatti, se nella sua opera principale la connessione tra parola e significativita' e' caratterizzata da una sorta di semplice sovrapposizione della parola al mondo, che finisce cosi' per configurare la parola come un livello secondario rispetto ai significati gia' dischiusi nel comprendere; dopo la cosiddetta svolta, e' la parola stessa che dischiude, che porta alla presenza i significati, le loro connessioni, ovvero il mondo. La parola non e' piu' dunque un aspetto secondario, derivato dell'esperienza, ma e' il modo stesso attraverso il quale l'uomo puo' fare esperienza del mondo, puo' rapportarsi all'essere dell'ente perche' collocato dalla parola stessa nell'apertura dell'essere: se il linguaggio e' essenzialmente poetico, l'uomo per Heidegger non puo' che abitare poeticamente il mondo.


Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:52:14 AM

https://www.pensierofilosofico.it/articolo/Lessenza-poetica-del-linguaggio-in-Martin-Heidegger/60/


N° Post: 391
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:30:58 AM


Heidegger -- L'uomo, questo animale che parla




lartedeipazzi

Facciamo ora un salto [dalla questione del tempo] al problema del corpo.
Innanzitutto, due asserzioni di Nietzsche. Nella Der Wille sur Macht ("La volonta' di potenza"), il frammento 659 suona: "il corpo e' un pensiero piu' meraviglioso della vecchia anima". Il frammento 489 recita: "Il fenomeno del corpo e' il fenomeno piu' ricco, corpo-giubbottopiu' chiaro, piu' comprensibile: da anteporre metodicamente, senza stabilire qualcosa circa il suo significato ultimo".
La prima proposizione contiene una verita'. Invece, non puo' risultare giusto cio' che afferma la seconda proposizione, e cioe' che il corpo sarebbe qualcosa di piu' comprensibile e piu' chiaro. E'vero il contrario [...]

Quando dico il "mio corpo", questo "mio" si riferisce a me stesso. L'"essere corpo" ha questo singolare rapporto al Se'.
Una volta Kant dice che l'uomo si distingue dall'animale in quanto egli puo' dire "io". Questa asserzione la si puo' prendere in modo ancor piu' radicale. L'uomo si distingue dall'animale in quanto egli puo' in generale "dire"; vale a dire: ha un linguaggio.
Dire e linguaggio sono la stessa cosa? Ogni dire e' un parlare? No.

Quando Loro per esempio asseriscono: "questo orologio sta qui", che cosa c'e' di particolare in questa asserzione? Perche' l'animale non parla? Perche' non ha nulla da dire. E in che misura non ha nulla da dire?
Il parlare umano e' un dire. Non ogni dire e' un parlare, ma ogni parlare e' un dire, anche il parlare "inconcludente, in quanto non dice niente". Il parlare e' sempre comunicabile foneticamente; al contrario, posso anche dirmi qualcosa senza comunicazione fonetica, dunque tacendo.

Posso, dunque, fare l'asserzione: "l'orologio sta sul tavolo". E cio' che dico con questa asserzione, intende un determinato stato di cose. Il dire rende dunque qualcosa visibile nel suo stato di cose.
Dire, secondo il suo antico significato, significa mostrare, far vedere. Com'e' possibile cio'? Quando ho fatto l'asserzione riguardo all'orologio, tutti Loro hanno assentito. E quest'assenso l'hanno potuto dare, solo in quanto Loro hanno visto l'orologio stare qui. Vale a dire che esso non sta qui solo dal momento in cui ho fatto l'asserzione. Per noi che siamo qui seduti, l'orologio sta palesemente qui sul tavolo.

Dali'-orologio-large

In che misura il corpo ha parte in questa asserzione?
Il corpo ha parte con l'ascoltare e il vedere. Il corpo, dunque, vede?
No, sono io che vedo. Ma a questo vedere appartengono i miei occhi, dunque il mio corpo. E non l'occhio vede, bensi' il mio occhio -- io vedo attraverso i miei occhi. Il corpo non vede mai un orologio e tuttavia esso e' qua.
Quando dico: "l'orologio sta davanti a me", questa e' un'asserzione che implica una relazione spaziale dell'orologio con me. L'orologio e' nello spazio e "io" sono nello spazio.
Ma sto di fronte all'orologio allo stesso modo in cui ci sta il libro, che pure sta sullo stesso tavolo? [...]

Se si pretendesse una lingua universale, che tutti uniformemente capiscano, avremmo un linguaggio totalmente livellato, che in generale non dice piu' nulla. Il pensiero occidentale e' stato in generale possibile soltanto in quanto si e' data una lingua greca.
Ma ritorniamo alla differenza di cui dicevamo tra animale e uomo. Perche' noi, in quanto uomini, a differenza dell'animale, abbiamo qualcosa da dire, se dire significa: far valere, render manifesto? Su che cosa si fonda il dire?

Se Loro percepiscono coi sensi qualcosa in quanto qualcosa, per questa cosa in quanto bicchiere, fatto cosi' e cosi', e' perche' deve essere a Loro palese che qualcosa sia.
L'uomo dunque ha qualcosa da dire perche' il dire, in quanto far vedere, e' un far vedere l'ente, la cosa, in quanto e' cosi' e cosi'. L'uomo dunque dimora la' dove l'essere gli si surreal-percezionemanifesta, nella non-latenza di cio' che gli e' presente.
Questo e' il fondamento per la possibilita', perfino per la necessita', per la necessita' essenziale, del dire; percio', dunque, del fatto che l'uomo parli. [...]

Si puo' parlare anche a gesti. Ma non dobbiamo limitare il termine "gesto" all'interpretazione [corrente] "espressione", ma con esso dobbiamo invece caratterizzare ogni comportamento dell'uomo in quanto e' un "essere nel mondo" determinato dall'"essere corpo" proprio del suo corpo [umano].
Ogni movimento del mio corpo, in quanto com-portamento e percio' in quanto comportarsi in questo o quel modo, non agisce semplicemente dentro uno spazio indifferente. Semmai, il comportamento soggiorna sempre in un determinato "dintorno", che e' aperto attraverso la cosa a cui mi rapporto, per es. quando prendo in mano qualcosa.

Prendiamo l'arrossire. Comunemente, l'arrossire viene preso come una espressione, vale a dire, lo prendiamo subito come segno per uno stato psichico interno.
Ma che cosa e' insito nel fenomeno dell'arrossire stesso?
Anch'esso e' un com-portamento, in quanto colui che arrossisce e' rapportato agli altri uomini.

Con cio' Loro vedono come la corporeita' [umana] abbia questo particolare senso "estatico" [a stare fuori di se', a com-portarsi dinanzi all'Altro]. Se lo sottolineo cosi' tanto, e' per spazzare via dal Loro sguardo il fraintendimento basato sull'espressione.
Anche gli psicologi francesi fraintendono tutto come espressione di un qualcosa di interiore, invece di vedere il fenomeno del corpo nel suo "esser rapportato" all'altro uomo.

Ende-artiglieria

A conclusione, voglio porre Loro ancora un indovinello: "la figura di un piano mnestico-informativo, che deve essere indirizzato, in gruppi di segnali, a una postazione ricevente".
So che e' impossibile indovinare di che si tratta. È, pero', secondo Zerbe (Scritti di psicosomatica), l'idea dell'uomo.
A fondamento di questa asserzione di Zerbe sta che il modello dell'uomo deve essere visto nella cibernetica del cannone di artiglieria contraerea.

Questo risulta chiaro dalla seguente proposizione del fondatore della cibernetica, Norbert Wiener, che dice: possiamo costruire un cannone di artiglieria contraerea che, per il suo modo di essere strutturato, osserva il decorso statistico del velivolo-bersaglio stesso, lo inserisce poi in un sistema di regolazione e infine utilizza questo sistema di regolazione per portare rapidamente la postazione del pezzo nella posizione osservata per il velivolo e conformarsi al movimento del velivolo stesso.

La definizione dell'uomo, data da Wiener, suona: "L'uomo -- una informazione".
Sull'uomo, Wiener scrive inoltre: "Una caratteristica peculiare, tuttavia, distingue l'uomo dagli altri animali in un modo che non lascia il minimo dubbio: egli e' un animale che Night Air Raid with Anti Aircraft Shells Exploding over Oil Tanksparla ... E neanche e' possibile dire che l'uomo sia un animale dotato di anima; giacche', purtroppo, l'esistenza dell'anima -- qualunque cosa si possa intendere con questa -- non e' accessibile ai modi d'indagine scientifica".
In quanto animale parlante, l'uomo deve essere rappresentato in modo che il linguaggio possa essere scientificamente spiegato, cioe' dominato, come qualcosa di calcolabile.

Come Loro vedono, e' dal metodo di accesso, in quanto tale di una scienza della natura, che viene determinato che cosa sia l'uomo. Nella cibernetica, il linguaggio deve essere concepito in modo tale che esso sia accessibile scientificamente. Nella determinazione fondamentale dell'uomo, il fondamento della cibernetica concorda apparentemente con l'antica tradizione della definizione metafisica dell'uomo.

I Greci determinavano l'uomo come l'"animale che ha il logos", vale a dire come essere vivente che ha il linguaggio. Wiener dice: l'uomo e' quell'animale che parla.
Ora, se l'uomo deve essere compreso scientificamente, cio' che lo caratterizza in modo peculiare in quanto uomo rispetto all'animale, cioe' il linguaggio, deve essere rappresentato in modo da essere afferrabile secondo princi'pi scientifico-naturali. Detto in breve: il linguaggio, in quanto linguaggio, deve essere rappresentato come qualcosa di misurabile.

(Heidegger, Seminari di Zollikon)



Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:31:50 AM

Tratto da https://lartedeipazzi.blog/2018/11/07/heidegger-luomo-questo-animale-che-parla/
Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:35:45 AM

L'uomo agisce come se fosse lui a forgiare e a dominare il linguaggio, mentre e' il linguaggio che resta signore dell'uomo.

[...] Il linguaggio e' il piu' alto e, ovunque, il piu' importante di quei consensi che gli esseri umani non sanno mai articolare valendosi soltanto dei propri mezzi.

— Martin Heidegger

Commenti:
Sipolino Fabio
Sunday 25th of July 2021 10:37:27 AM

L'uomo agisce come se fosse lui a forgiare e a dominare il linguaggio, mentre e' il linguaggio che resta signore dell'uomo.

[...] Il linguaggio e' il piu' alto e, ovunque, il piu' importante di quei consensi che gli esseri umani non sanno mai articolare valendosi soltanto dei propri mezzi. Martin Heidegger



N° Post: 337
Sipolino Fabio
Sunday 11th of July 2021 12:29:18 PM


Jacques Derrida






IL PENSIERO POSTMETAFISICO DI LEVINAS, DERRIDA E DELEUZE


Il filosofo francese Jacques Derrida (El-Biar, Algeria, 1930) e' dal 1983 direttore di studi all'ecole des Hautes studes en Sciences Sociales di Parigi. Tra le sue opere: La scrittura e la differenza (1967); Della grammatologia (1967).Parola, scrittura e metafisica
Derrida sostiene che l'intera tradizione filosofica occidentale, coincidente con la storia della metafisica da Platone fino a Heidegger, svaluta il segno scritto e privilegia il segno orale: secondo tale tradizione la parola e' legata alla presenza, mentre la scrittura e' legata all'assenza. La parola parlata e' presente a colui che la pronuncia e si rivolge sempre a una persona presente. Un testo scritto invece esiste anche in assenza del suo autore e si rivolge sempre a una persona assente. Secondo Derrida la metafisica privilegia la parola, considerandola l'espressione diretta della verita': questa, intesa come la presenza immediata di qualcosa alla coscienza, sarebbe presente solo nel discorso parlato. Il segno scritto invece e' svalutato dalla metafisica, poiche' e' inteso come assenza, ossia come una negazione della presenza e quindi della verita'. In definitiva, la metafisica confinerebbe la scrittura in un ruolo secondario, di traduzione e rappresentazione grafica della parola: il segno orale e' il segno della cosa, il segno scritto e' il segno del segno orale, nel senso che sta al posto della parola parlata e rinvia a essa.La decostruzione della metafisica
Sulla base di queste distinzioni Derrida contesta lo stesso concetto di "presenza" su cui sarebbe fondata la tradizione metafisica: l'idea di presenza e' di per se' gia' un'illusione. Sulla scia di Heidegger Derrida giunge cosi' al progetto di una decostruzione della metafisica. In primo luogo essa mette in questione le opposizioni concettuali classiche (per esempio, l'opposizione fra parola e scrittura), rovesciando la gerarchia che le comanda, ossia il predominio di un termine sull'altro. In secondo luogo, la decostruzione fa emergere una nuova prospettiva concettuale irriducibile al sistema di tali opposizioni. Derrida mostra poi che la definizione del segno scritto e' in realta' la definizione di ogni segno: infatti ogni segno, anche quello orale, non significa mai la cosa stessa ma rinvia a un altro segno, il quale rinvia a sua volta a un altro segno, e questo processo di rinvio e' interminabile. A questo funzionamento del segno Derrida da' il nome di diffe'rance: si tratta della differenza fra segno e segno (ogni segno rinvia a un segno differente da esso) e del differimento, o rinvio incessante, a cui e' sottoposta la presenza della cosa. Sia nel discorso parlato, sia in quello scritto e' impossibile risalire a una verita', a una presenza originaria, poiche' ogni presenza e' gia' presa nella rete infinita dei rimandi da segno a segno. Allo scopo di decostruire la metafisica Derrida trasforma la filosofia in una pratica di scrittura, o grammatologia, aperta alle influenze della letteratura e della psicoanalisi e nella quale la verita' si da' proprio nella scrittura (che e' ripetizione e differenza fra significante e significato) come differimento continuo e traccia.


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